Sergio Buttiglieri
Al Circo Massimo di Roma

Rigoletto in ruolotte

Finalmente si torna in scena: a Roma Damiano Michieletto ha stravolto in modo geniale l'avventura di Rigoletto e sua figlia Gilda. In una landa di vecchie auto e roulotte si consuma il dramma della solitudine dell'eroe di Giuseppe Verdi

«Il melodramma italiano è un’opera d’arte tutta speciale – costruita sul ciglio di un abisso di ridicolo, e pericolosamente inclinato, ci si sostiene a forza di genio: da un secolo, questo equilibrio prodigioso, si verifica. Oggi il Melodramma vive i suoi tardi giorni, pieno d’acciacchi. Sarà certo meno antico del Colosseo per esempio o della Torre di Pisa, ma è più vecchio, infinitamente più vecchio. Ebbene lo si tiri via dal suo letto. Lo si traduca nel cinematografo – lo si introduca sui rulli, trasmettiamolo attraverso l’elettricità». Queste famosissime considerazioni di Bruno Barilli contenute nel suo magnifico Il Paese del Melodramma, mi sono subito tornate in mente alla fine del Rigoletto con la piacevole quanto riuscita regia controcorrente di Damiano Michieletto, che ha appena debuttato in Prima Nazionale al Circo Massimo di Roma.

Una Prima con una carica simbolica particolare quella di quest’anno. Dove i romani, come d’altronde tutti noi italiani, eravamo tutti reduci di un sofferto blocco che ci ha tenuti segregati in casa per mesi, causato da questa imponderabile pandemia.

E questo genio delle regie del melodramma qual è Michieletto ha saputo reinterpretare il Rigoletto post pandemico che, assieme alla Traviata, è sicuramente l’opera più celebre e popolare di Giuseppe Verdi. Lo stesso compositore la definiva il suo capolavoro. Perfetta nel rispettare le norme classiche: l’unità di azione, di tempo e di luogo. 

Ma la vera novità di questo dramma che debuttò con grande successo al Teatro La Fenice nel 1851, è tutta nel protagonista perfettamente impersonato da Roberto Frontali, il baritono che ha, all’ultimo momento, sostituito Luca Salsi, ritiratosi per indisposizione. Un baritono che Verdi aveva pensato senza romanze vere e proprie, ma con un declamato melodico che alterna l’invettiva all’implorazione, e che lascia all’interprete ampio raggio d’azione per esprimere al meglio il suo talento. E Frontali con il suo canto spiegato, molto robusto, ma anche con il suo sapiente impiego della mezzavoce ne ha saputo esaltare coerentemente le caratteristiche originarie pensate dal compositore.

Le limitazioni sociali imposte dall’emergenza ancora in corso non hanno scoraggiato il regista. Anzi sono state di stimolo per farci un inedito racconto che sfrutta anche le dinamiche cinematografiche, con un enorme schermo alle spalle della scena che proietta le riprese ravvicinate in diretta dei tre steadycam intenti a filmare i cantanti. Diventandone in qualche modo invisibili testimoni e sostituti dei nostri sguardi necessariamente troppo lontani dal palcoscenico. Tutto ciò per farci meglio entrare nei dettagli della vicenda ultranota. 

Rigoletto è un bistrattato, deforme buffone alla corte di un Duca di Mantova, donnaiolo indefesso, narcisista incallito, che insedia sotto mentite spoglie l’unica figlia del buffone, Gilda, emblema della virtù, devotissima al padre. E lei alle avances del Duca ci casca come un allocca, e ne rimane comunque ammaliata, anche quando scopre l’inganno, fino a sacrificarsi al posto suo, pur di salvare l’amato padre, sempre più inguaiato per avere pensato di vendicarsi dalla maledizione di Monterone, che gli viene scagliata contro da questa corte ostile cinica e competitiva, di cui Rigoletto fa comunque parte, e che lo vuole definitivamente mettere fuori gioco..

E il sacco insanguinato con l’adorata figlia è sempre lì presente in scena fin dall’inizio, quasi a ricordarne l’inevitabile tragico epilogo con il celeberrimo ultimo duetto tra Rigoletto e Gilda con lui disperato che l’abbraccia come una bambola rotta sommersa da innumerevoli fiori coloratissimi.

Ed ecco i flash back, i filmini di famiglia anni ‘60 in cui ricompare la moglie defunta che gioca al mare con la piccola Gilda. Scomposizioni temporali che meglio ci fanno entrare nel plot narrativo con efficaci citazioni cinematografiche come le famose scene con la gang mascherata e armata di bastoni in Arancia meccanica. La frammentazione della trama è dipanata dentro una scena contemporanea, ideata da Paolo Fantin, colma di vecchie macchinone un po’ trash, di roulotte di periferie malfamate, di vecchie giostre da feste paesane d’altri tempi.

Tutto questo Rigoletto, diretto magistralmente da Daniele Gatti, ha incantato il folto (1400 spettatori) quanto diradato pubblico, con presenze eccellenti quali il presidente della Repubblica con la figlia, i presidenti della Camera e del Senato e la sindaca di Roma, oltre a svariati vip.

«In quella enorme zanzariera che è la valle del Po fra Parma e Mantova doveva nascere il genio di Giuseppe Verdi, e Parma la roccaforte dei verdiani. Gli insegnanti del Conservatorio di Milano dissero che egli non aveva attitudini per la musica e ch’egli non possedeva nessuna abilità; e non aveva che del genio: troppo poco per dei professori e dei critici. L’arte di Verdi è tutta sovvertimento, deformazione, caricatura sublime, mette a fuoco i quattro canti della terra.

Verdi divora le scorciatoie più impensate, sempre fugace e irraggiungibile per colmo di forza e di impeto. Verdi tira avanti senza circonlocuzioni… con un colpo di spalla butta giù le porte, calpesta la legge, i divieti e, in cambio, appaga l’istinto».

Queste ulteriori considerazioni dell’inarrivabile Barilli sembrano scritte apposta per invogliare il regista a scardinare le consuetudini care ai melomani per trovare altre chiavi narrative di sapore più contemporaneo. Senza però stravolgere il libretto e con un cast d’eccezione che ha saputo incantare gli spettatori con le sue maestrie canore. A cominciare da Gilda, restituitaci in maniera esemplare dalla soprano Rosa Feola, ideale controcanto alla voce più buia del dolorante Rigoletto. Brava anche la Maddalena restituitaci egregiamente da Martina Belli, come Sparafucile interpretato ottimamente da Riccardo Zanellato. Il ruolo del Duca di Mantova, personaggio che Verdi immaginava frivolo, cinico e gaudente era perfettamente interpretato da Iván Ayon Rivas, con i costumi un po’ mafiosetti, anni ‘80, pensati dalla bravissima Carla Teti. 

Il pubblico ha seguito quest’opera senza i soliti buu che purtroppo mi capita di sentire quando la regia non è immobilizzata dalla tradizione, come ebbi modo di verificare invece al comunale di Bologna l’anno scorso in occasione di uno straordinario Trovatore con la regia del grandissimo Bob Wilson, in maniera imbarazzante platealmente contestato perché non aveva rispettato le consuetudini dei melomani.

Questa volta ho visto con piacere che l’intelligente regia di Michieletto ha saputo comunque catturare il pubblico incantandolo con immaginari inediti ed efficacissimi.

Grande inizio di Stagione quella pensata da Carlo Fuortes. Peccato per le sole tre repliche in programma. Questo spettacolo che meriterebbe più rappresentazioni e auspicabili tournée anche internazionali.

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