Anna Camaiti Hostert
Cartolina dagli Usa

La guerra di Trump

Il presidente, sempre più inetto a governare la crisi sanitaria e quella legata alle proteste contro il razzismo, ha chiamato nuovamente alla crociata gli americani: «Il fascismo di sinistra vuole cancellarci!»

Questo 4 di luglio per gli Stati Uniti è stato diverso da molti altri. Perfino da quello che seguì l’11 settembre 2001, l’anno dell’attacco alle Torri Gemelle. Quello fu, è vero, di grande dolore, ma anche di grande unità ed empatia: la comunità nazionale si strinse intorno a un presidente che, seppure in generale non era in grado di gestire un’emergenza di tal genere, tuttavia riuscì ad unificare il paese sotto il comune denominatore della sua capacità di resistere a un attacco senza precedenti. George W. Bush, con grande senso di responsabilità, esercitò cioè la sua autorità di commander in chief per rassicurare il popolo americano che ce l’avrebbe fatta a uscire da quel disastro che fu una ferita mai rimarginata.

Invece adesso il paese è diviso, tormentato da un lato da una pestilenza le cui vittime continuano a salire in numeri esponenziali e dall’altro in preda a manifestazioni di protesta che da dopo l’esecuzione alla luce del sole di George Floyd a fine maggio da parte della polizia di Minneapolis, si sono succedute in tutto il paese varcando anche i confini nazionali. Il movimento Black Lives Matter ha infatti iniziato da allora ad organizzare quasi quotidianamente proteste nelle strade delle maggiori metropoli americane, reclamando giustizia per gli afroamericani che troppo spesso sono oggetto di violenze da parte dalla polizia di tutte le maggiori città del paese. E che ancora non hanno conquistato la pienezza della loro cittadinanza e della libertà.

In un magnifico documentario appena uscito il cui titolo è 13th (il tredicesimo emendamento della Costituzione americana è quello che ha abolito nel 1865 la schiavitù), Ava DuVernay (già regista di Selma La strada per la libertà del 2014 nel quale rievocava la famosa marcia da Selma a Montgomery che segnò l’apice della rivolta per il diritto di voto agli afroamericani) dimostra che in realtà questo non è mai accaduto e che la guerra alla droga prima e le incarcerazioni di massa poi, a spese soprattutto degli afroamericani, in realtà hanno perpetuato forme di soggiogamento che non li hanno mai resi liberi.

In occasione di questa doppia emergenza che squassa il corpo sociale del paese, c’è bisogno di un leader che abbia la capacità di tenere il paese unito e di gestire una delicata situazione che in ambedue i suoi aspetti può facilmente sfuggire di mano con conseguenze irreversibili per la salute dei cittadini e per l’ordine pubblico. Donald Trump non riesce a gestire nessuna delle due. Anzi, al contrario peggiora la situazione con parole e atteggiamenti a vanvera e spesso pericolosi. Fin dall’inizio non è riuscito a tenere sotto controllo la pandemia del coronavirus al quale si è rapportato con superficialità, pressapochismo e totale inefficienza e non ha cercato di smorzare i toni della protesta che continua a scuotere il paese. Lo zenit della sua inettitudine è stato però raggiunto proprio dal suo intervento in South Dakota in occasione del 4 di luglio, che, come si sa, è la più importante festa nazionale americana.

Nel suo discorso a Mount Rushmore parlando alla sua base elettorale, infatti, oltre a non incoraggiare l’uso delle mascherine e del distanziamento sociale (i suoi supporter sedevano gli uni vicini agli altri senza alcuna protezione, mentre in tutto il paese la pandemia continua a mietere vittime) ha inneggiato a una guerra contro il «fascismo di sinistra» che tenta di distruggere i simboli della storia americana, riferendosi ovviamente all’abbattimento di alcune statue e monumenti nazionali ad uomini accusati di essere razzisti e a favore della schiavitù. «La nostra nazione – ha detto – sta assistendo ad una campagna spietata per cancellare la nostra storia, diffamare i nostri eroi, cancellare i nostri valori e indottrinare i nostri figli». E ha aggiunto che «quelli che cercano di cancellare l’eredità» del paese lo fanno con l’obiettivo di «far dimenticare l’orgoglio e la grande dignità di essa». Ebbene, come in tutti i casi Trump, che non conosce altro linguaggio che quello del noi contro loro, ha inneggiato ad una guerra tra fazioni diverse che certo è molto lontano da quello spirito di unità richiesto in un’occasione come questa.

Nel paese intanto si è aperto un dibattito sulla costruzione della storia nazionale americana e sul significato e la presenza di certi simboli e monumenti sul territorio nazionale. Nella trasmissione domenicale della CNN di Fareed Zakaria, GPS, Annette Gordon Reed premio Pulitzer per la Storia e docente di questa materia ad Harvard e Timothy Naftali docente di storia alla NYU e direttore della biblioteca nazionale di Richard Nixon hanno convenuto, pur nella diversità di opinioni, che bisogna modificare i criteri di considerazione della storia americana: quegli stessi che hanno tollerato atteggiamenti condiscendenti nei confronti della schiavitù e del razzismo anche dopo la guerra civile che è stata persa dell’esercito confederato del sud schierato invece a suo favore. Bisogna cominciare a considerare crimini il perpetrarsi di questi atteggiamenti. E dunque mantenere la commemorazione di certe figure nazionali, ma togliere da essa gli elementi celebratori. Insomma, bisogna che il paese faccia i conti con il proprio passato, e con la schiavitù che non è finita con la sua abolizione nel 1865, ma è continuata anche dopo con forme persecutorie e discriminatorie che prevedevano la segregazione e con essa linciaggi e uccisioni indiscriminate da parte dei bianchi. Soltanto nel 1964 Lyndon Johnson ha proclamato la legge sui diritti civili (il Civil Right Act) con la quale i neri hanno avuto il diritto di voto.

Ma neanche allora quegli atteggiamenti discriminatori sono finiti. I neri ancora vivono in quartieri ghetto, hanno meno opportunità di lavoro, una mortalità scolastica enorme e precoce, sono decimati dalle guerre fra le gang che fanno più morti a Chicago, ad esempio,  di quanti  ce ne siano stati  negli stessi anni nella guerra in Afghanistan  e in Iraq messe insieme, come ha mostrato Spike Lee nel suo film Chiraq (elisione tra la città di Chicago e lo stato dell’ Iraq) subiscono incarcerazioni di massa e le brutalità della polizia di cui è testimonianza l’esecuzione di George Floyd. Come si vede il cammino di revisione storica è lungo: centinaia di anni di violenze e persecuzioni pesano sulla coscienza di un popolo che assolutamente deve fare i conti con la propria storia. La differenza tra queste manifestazioni e tutte le altre che ci sono state in precedenza, oltre alla risonanza internazionale, è il fatto che molti bianchi adesso marciano con i neri. Perfino alcuni poliziotti. E a dispetto di Trump, che non capisce l’eccezionalità del momento, questo fa la differenza.

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