Gaia Sanguinetti
A proposito di "Judy"

Contro Hollywood

Il film di Rupert Goold con Renée Zellweger dedicato alla vita di Judy Garland è un apologo sul mondo dorato del cinema americano. Dietro ai lustrini e ai successi, oltre l'arcobaleno, compare la vita vera. E non è solo spettacolo

Vederlo mette i brividi. Rivederlo fa quasi paura. Stiamo parlando di Judy, il film di Rupert Goold con Renée Zellweger dedicato alla vita di Judy Garland. Se la triste storia di Judy Garland era già nota ai più, anche grazie al dramma musicale End of the Rainbow di Peter Quilter da cui il film è tratto, la trasposizione cinematografica risulta ancora più dura da digerire. Attraverso la figura travagliata di una donna dal precoce successo, magistralmente interpretata da Renée Zellweger, Rupert Goold demolisce – almeno dal punto di vista emozionale – il periodo d’oro del cinema americano, nonché il masterpiece di Victor Fleming.

Il Mago di Oz da sempre offre al pubblico un’interpretazione in chiave psicologica e sociologica eternamente valida: in esso viene rappresentata la nostra società, le sue distorsioni e la conseguente infelicità umana, giustificata da un’apparente mancanza. Dorothy ci guida verso la presa di coscienza, dall’allegorica perdita del cervello, del cuore o del coraggio, alla riscoperta delle qualità che ognuno di noi già possiede dentro di sé. Al di là del messaggio profondo di cui la pellicola si fa portavoce, ancora più forte è la sensazione che rimane nello spettatore: la promessa che ci sia davvero qualcosa somewhere over the rainbow, oltre ogni difficoltà, e la dolce riscoperta del luogo chiamato “casa”.

La cosa sconvolgente, che il film Judy pone sotto i riflettori da palcoscenico, è come la Garland si sia ritrovata, nel corso della sua vita, in totale antitesi con il personaggio che l’ha portata all’apice del successo. E la celebre frase “There’s no place like home” assume un significato amaro, poiché Judy, nei suoi ultimi mesi di vita, non può nemmeno permettersi di comprare una casa per lei e i suoi figli. È quindi costretta ad allontanarsi da loro, nella speranza di poter fare abbastanza soldi e dimostrarsi una buona madre.

Quel mondo meraviglioso e pieno di colori che Dorothy tanto sognava, assomiglia ora a un affresco murale, che piano piano inizia a staccarsi dalla superficie, come intonaco vecchio. E sotto di esso appaiono i traumi del passato, i fragili burattini dietro allo straordinario successo. Il film diventa quasi un “dietro le quinte” de Il Mago di Oz, lasciando un senso di estrema solitudine, di falsità e di sofferenza. La Garland, ironicamente, fa il percorso inverso rispetto ai compagni di viaggio di Dorothy: scopre fin da piccola le proprie doti, troppo piccola per impedire che esse vengano usate come macchina per fare soldi, e ne segue l’illusoria promessa di gloria eterna. Esse diventano il suo strumento di affermazione nel mondo, ma anche la causa dell’impossibilità di condurre una vita normale e quindi della sua infelicità.

Judy ama e odia la sua carriera, la sua fama e ciò che essa la spinge a fare. Lontana dagli affetti familiari, si circonda di personaggi curiosi, pieni di insicurezze, ma che la adorano e le danno un motivo in più per continuare, per non mollare mai, per non sentirsi sola. Il palcoscenico è la sua vera casa e il motivo della sua lenta autodistruzione. E lei lo sa. Troppo debole e stanca sia per ritirarsi, sia per andare avanti, continua a scendere a compromessi sempre più insani, cercando spasmodicamente l’apprezzamento del pubblico. In ultimo la sua unica preoccupazione non è nemmeno più rivedere i figli, ma avere la conferma che tutto ciò che ha fatto, tutto ciò che ha sofferto, è servito a renderla immortale.

Judy annuisce, dopo che il pubblico si è alzato in piedi per aiutarla a cantare «Somewhere over the Rainbow» alla fine del film, come se ammettesse che è proprio questo ciò di cui non può fare a meno. Come se, dopo una vita combattuta tra il desiderio di successo e quello di libertà, si arrendesse definitivamente alle lusinghe del meraviglioso mago chiamato “mondo dello spettacolo”.

E nella battuta conclusiva, sostenuta da uno strettissimo primo piano che racconta, fra le rughe, il trucco eccessivo e le labbra aride e consumate, la fragilità dell’autoaffermazione, si concentra tutto il pathos del film: «Non mi dimenticherete, vero? Promettetemelo».

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