Raoul Precht
Periscopio (globale)

Il tempo della poesia

Da Mandel’stam a Montale a Bertolucci, molti poeti si sono interrogati su quale sia l'età "giusta" nella quale si comincia a esprimersi in versi. Davvero c'è un tempo esclusivo della poesia? È la fanciullezza, come diceva Pascoli, o l'adolescenza, come propone Pontiggia?

Scriveva con una certa rassegnazione Attilio Bertolucci, in una poesia intitolata La neve, che “gli anni della giovinezza sono anni lontani”. Niente di più evidente, per quanto mi riguarda, e davvero non si potrebbe esprimere meglio, o in forma più concisa, quella sensazione che ci fa a volte guardare al nostro io del passato come a un estraneo, a una persona che con noi conserva forse una qualche familiarità, ma che in fondo non conosciamo né comprendiamo più.

Un’altra poetessa a me cara, Giovanna Bemporad, di cui ho parlato recentemente in relazione alla sua storica, mirabile traduzione dell’Andreas hofmannsthaliano, rimarcava nei suoi Esercizi, sempre a proposito della giovinezza ripercorsa a posteriori: “E al nome della giovinezza io sento / stringersi il cuore come ad una fiamma / che si risolve in cenere.” E ancora: “(…) Il mondo intorno / con la sua fioritura sempre nuova / di lucenti capelli ad ogni aprile / tanto mi offende che vorrei morire.” Qui la giovinezza è vissuta appunto come un’offesa, come una provocazione o un tranello che la vita ci tende, mettendoci sotto gli occhi a ogni piè sospinto la raffigurazione di ciò che eravamo, di come eravamo e non saremo mai più.

Quanto al tardo Montale, in Sorapis, 40 anni fa, poesia del Diario del ’71 e del ’72 che a pretesto prende la cronaca di una gita in Engadina coronata da un’epifania, ecco che osservava: “Scoprimmo allora che cos’è l’età. / Non ha nulla a che fare col tempo, è qualcosa che dice / Che ci fa dire siamo qui, è un miracolo / Che non si può ripetere. Al confronto / La gioventù è il più vile degli inganni.”

Età, tempo, gioventù: qual è dunque la relazione fra questi fattori, e in che modo questa relazione e le emozioni che essa suscita si riflettono sull’attività poetica?

Tanto per cominciare, ci sarebbe da interrogarsi sul luogo comune che vuole associare a tutti i costi la creazione poetica alla giovane età, all’età del montaliano inganno. Da giovani, si ipotizza, o anzi meglio ancora da bambini, tutti saremmo più o meno poeti, o almeno sensibili alla poesia, mentre con il passare del tempo e l’aumentare delle responsabilità e delle esperienze di vita tale sensibilità scemerebbe. La proposizione mi è sempre parsa azzardata, o almeno piuttosto discutibile.

Faccio un solo esempio, per capirci meglio. Giancarlo Pontiggia, un altro poeta che apprezzo molto, ha voluto confutare – nel volumetto Lo stadio di Nemea, pubblicato qualche anno fa da Moretti & Vitali – la tesi pascoliana secondo cui il momento germinante della poesia sarebbe l’infanzia, e l’ha sostituita con l’adolescenza, che definisce come “il luogo d’urto tra i processi fantastici e irrazionali dell’infanzia e il presagio di un pensiero strutturato, di un ordinamento del mondo. (…) Chi sono io, si chiede l’adolescente, e se lo chiede non come un filosofo, ma come un poeta, appunto; se lo chiede con furore, con violenza, mettendo a soqquadro il mondo, devastandolo, e devastando anche se stesso, muovendosi fra esaltazione e malinconia, ansia dell’ignoto e regressione alla verità minima delle cose”. È, la sua, come si vede, una riflessione molto bella e precisa, direi anzi bella proprio perché precisa, in cui il periodo indicato potrebbe essere esteso a mio parere ancora di qualche anno e coprire altresì la breve fase immediatamente successiva all’adolescenza, quella in cui formiamo davvero il nostro gusto e coltiviamo le predilezioni e le cordiali antipatie (anche e soprattutto quelle letterarie) che ci costruiranno come lettori prima e (forse) scrittori poi. Comincia comunque agli albori dell’adolescenza il tempo della riflessione, in quanto vi si riflette, appunto, una prima presa di posizione sull’universo che ci circonda.

Piccola parentesi ermeneutica: riflettere ha sempre una doppia valenza, da un lato quella di pensare e meditare, e dall’altro quella – definita non a caso come “riflessiva”, appunto – di rifletter-si, ovvero di rispecchiarsi in quel che si scrive, non necessariamente attraverso un autobiografismo immediato (con un bisticcio starei anzi per dire “irriflesso”), ma comunque in modo tale che l’io poetico vi lasci in qualche modo lo zampino.

Tornando all’adolescenza e alla prima giovinezza, esse rappresentano anche quella porzione del nostro così limitato tempo esistenziale in cui incertezze e dubbi regnano sovrani, in cui si cerca di cogliere anzitutto quello che sfugge, quello che non si riesce ad esprimere con maggiore chiarezza. Il ragionamento in prosa, con la sua struttura causale e consequenziale, all’apparenza abbastanza rigida, ci sembra allora particolarmente inadatto, perché si presta facilmente a fraintendimenti. È questo forse uno dei motivi per i quali proprio in questa fase dell’esistenza si comincia a ricorrere all’espressione poetica, a spezzare il ragionamento, a muoversi per illuminazioni e sensazioni, ed è anche uno dei motivi per i quali questa stessa poesia potrà apparire in seguito a molti (ma non a tutti) imperfetta e insufficiente sotto il profilo espressivo, tanto da spingerli ad abbandonarla. Non succede a tutti, dicevo: per me, ad esempio, un meccanismo di questo genere è valido tuttora; in altre parole, nel mio atelier virtuale ricorro spesso all’espressione poetica, magari (ma non sempre) come ultima ratio. Come diceva Mandel’stam, la poesia è un “lavoro nel buio”, che si situa infatti su una soglia, su un limitare, su un punto di passaggio fra il dicibile e l’ineffabile, così come (aggiungo per analogia) il momento topico della traduzione è quell’istante in cui nella mente del traduttore il concetto è compreso nella lingua di partenza ma non ancora esplicitato in quella d’arrivo. In questo senso, e apro un’altra parentesi, nella prassi artigianale per me non c’è quasi differenza fra poesia e traduzione; mi sono sempre avvicinato a entrambe con la stessa cautela e con lo stesso turbamento. In un certo senso, traduzione e poesia sono entrambe paradossali. Anche quando scrivo poesia, per me si tratta di tradurre in parole un’immagine, un ritmo, un suono, un’impressione che si sono formati nella mia mente, ma a cui ancora non saprei dare una forma specifica. Il meccanismo è bivalente: l’impressione si fa pensiero tradotto in parole, ma al tempo stesso anche il pensiero si fa, a sua volta, impressione.

Ad aiutarci in questa apparente contraddizione sono spesso le regole che ci autoimponiamo. Personalmente, io aspetto che l’immagine si produca e cerco poi di fissarla sulla carta avvalendomi di quella regolarità ritmico-metrica, non troppo disgiunta dalla matematica (proprio come, mutatis mutandis, avviene per la composizione e l’esecuzione musicale), che è alla base di qualunque componimento poetico. In altre parole, per uscire dall’impasse obbligo me stesso a seguire delle regole, delle costrizioni, una griglia, se si vuole un rituale. Mi fisso dei limiti da non superare, o delle consegne da rispettare, pur tenendo sempre a mente che va comunque salvaguardata l’alterità e la peculiarità dell’espressione poetica rispetto alle altre forme di comunicazione. Anche quando in poesia si privilegi il registro del privato, del vissuto personale e della quotidianità, il che di per sé non mi pare encomiabile né condannabile, occorre evitare le secche dell’intimismo, ricordarsi che l’essenziale non è raccontare di sé e delle proprie liste della spesa, o confessarsi pubblicamente, ma articolare un discorso poetico che ha delle caratteristiche del tutto particolari. È evidente quindi come, alla mia non più verde età, il testo poetico mi sembri l’esatto contrario di qualsiasi esperienza intimistica; in un certo senso diventa anzi tale solo se e nel momento in cui da questa si svincola e si lascia disciplinare da una regola che gli dia senso. Ed è forse proprio questo a rappresentare la massima differenza rispetto alle effusioni giovanili, quando la curiosità delle cose cercava a tutti i costi uno sbocco espressivo immediato. Oggi come oggi cerco insomma di onorare a modo mio la famosa battuta sul verso libero di Robert Frost, per il quale l’assenza di regole in poesia è come se nel tennis si giocasse senza la rete.

Frustrante e assai poco divertente.

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