Marco Marrucci
Ceppo: tre parole-chiave sul racconto /1

Il miracolo della necessità

La «sequenza degli episodi e le forme della loro coabitazione», il desiderio di perfezione che si concentra nel progetto, l’ambizione che infiamma. Marco Marrucci, vincitore del Premio Ceppo Racconto Under 35, spiega cosa rende viva e preziosa una raccolta di narrazioni brevi. A iniziare dalla sua

Il 23 luglio a Pistoia si svolgerà il Premio letterario internazionale Ceppo dedicato in questa 64° edizione al racconto (www.iltempodelceppo.it). Il Premio Under 35 è andato a Marco Marucci “per aver scritto – si legge nella motivazione del presidente del Premio Paolo Fabrizio Iacuzzi – una raccolta (“Ovunque sulla terra gli uomini, Racconti Edizioni”, ndr) sapiente e coerente, stilisticamente consapevole e strutturalmente coesa». Di questo autore e degli altri vincitori e finalisti (la terzina finalista formata da Loredana Lipperini, Massimo Onofri, Federico Pace, e Marta Morazzoni, vincitrice del Premio Ceppo “Leone Piccioni, vita e letteratura”) ospiteremo un breve intervento tratto dalle lectio che terranno in occasione della premiazione. 
A Marco Marrucci è stato chiesto di scrivere sul racconto a partire da tre parole chiave, alle quali ha aggiunto una premessa sui meccanismi narrativi del racconto breve.

***

C’è il sospetto – ma già questa è una sentenza impugnabile – che nella formula “raccolta di racconti” il secondo termine catturi nel proprio campo gravitazionale l’intera gamma di aspettative, interessi e capacità analitiche del pubblico. Un lettore circospetto bordeggia La lotteria di Shirley Jackson o Finzioni di Jorge Luis Borges o Cattedrale di Raymond Carver o Il crollo della Baliverna di Dino Buzzati o Un medico condotto di Franz Kafka o Bestiario di Julio Cortázar soppesando esclusivamente la variabile “racconto”, raffrontandola con l’alternativa del romanzo per calcolare la possibilità di entrare in un rapporto amoroso e proficuo con il libro, e dimentica (rischia di dimenticare) che quella dozzina di scritti non gli viene offerta in una configurazione che si chiama aggregato o sciarada o miscellanea o accrocchio, bensì all’interno di un sistema più severo e armonico: la famigerata raccolta. 
Dal momento che questa lecture viene pronunciata sotto l’egida di un premio letterario dedicato alle raccolte di racconti, è necessario (se non doveroso) restituire al primo termine del binomio, oscurato dall’aitante confratello, il carisma perduto e la rilevanza che merita.

Struttura
Per attingere alla semantica più nobile del concetto e non collassare nei disordinati equivalenti menzionati poco sopra, la raccolta non può accontentarsi di servire da imballaggio per rivendite un tanto al chilo o da campionario di articoli promiscui. Un libro siffatto sarebbe una progressione di camere a tenuta stagna dentro le quali il valore dei singoli racconti – le qualità che esibirebbero anche se fossero pubblicati in dodici riviste diverse o sparpagliati in varie enciclopedie di letteratura o letti a distanza di un anno l’uno dall’altro – è sì preservato, ma non entra in risonanza con gli altri, non innesca un fenomeno di parallasse, inibisce la traspirazione e l’osmosi.
Questo cadavere antologico (che per fortuna non esiste e individua soltanto una drammatizzazione del pensiero) comprenderebbe il proprio arcipelago di storie nell’accezione più meccanica e deteriore del verbo “comprendere”, ovvero alla stregua di una tomba che si limita a rinchiudere e contenere, e ne ignorerebbe il livello più profondo,quello dell’empatia, del discernimento e dell’illuminazione. Avrebbe l’utilità di una guaina esteriore che manca di struttura interna, di un’imbracatura che passa attorno ai racconti ma non dentro e in mezzo a loro. 
Affinché la raccolta sia qualcosa di vivo e prezioso, un organismo che trascenda la somma algebrica delle parti e anzi funzioni da moltiplicatore della loro ricchezza (insomma, affinché sia un libro e non un deposito di cianfrusaglie), deve incorporare una dimensione segreta, una responsabilità ulteriore. La indovino oscuramente e mi arrischio ad abbozzarne una definizione in chiave teleologica: il fine supremo della raccolta di racconti consiste nel realizzare il miracolo per cui la sequenza degli episodi e le forme della loro coabitazione procedono sotto il segno di un’inesorabile necessità. Qui non esistono fratture, né margini per interpolare o aggiungere o sottrarre. La verticalità è massima e la compattezza prodigiosa. Fasci di nervi e gallerie sotterranee connettono ogni frase mettendo in circolo umori, sensibilità, informazioni e propositi. 
Il lettore non subisce i racconti come frammenti di scrittura isolati ed egocentrici, ma li attraversa come stazioni di un meccanismo perfetto all’interno del quale il gradiente di coesione è portentoso e ogni dettaglio è fondamentale per la sua tenuta.  

Desiderio
Com’è ovvio l’eccellenza e l’intoccabilità qui dipinte sono un’astrazione al pari del limite prospettico o della tartaruga di Zenone, dunque terre inabbordabili perché si allontanano insieme al procedere della scrittura che vorrebbe conquistarle. Ma d’altra parte quest’orizzonte mutevole e adescatore non le si apre davanti per essere raggiunto, bensì per strapparla quanto più possibile al grado zero della raccolta intesa come valigia o serbatoio o addirittura sarcofago. 
L’utopia della struttura aurea rappresenta una sfida (impraticabile e dunque a conti fatti disonesta) che obbliga la raccolta di racconti a desiderare se stessa, a progettarsi in anticipo, a modellare le proprie forme e la propria sostanza, a bandire la casualità nel tentativo di approssimarsi all’ideale. Una calamita il cui potere di attrazione è calibrato in maniera tale da permetterle di trascinare senza ghermire, perché una famiglia di racconti che venisse risucchiata così lontano potrebbe forse diventare un congegno più affine alla matematica e alla geometria che alla letteratura.
In ogni caso l’illusione di fatalità e simmetria è il barbaglio di questa aspirazione inesaudibile, il suo contraccolpo e il suo propagarsi lungo le linee di resistenza del linguaggio, della composizione, della narrativa, della ritmica, dell’atmosfera, della simbologia e dell’eventuale doppiofondo metafisico, religioso, antropologico, morale, politico e finanche escatologico. 
Tutte le meraviglie che un critico letterario crederà di poter snocciolare additando la raccolta non sono il frutto di congiunzioni astrali o dell’eterogenesi dei fini: sono il precipitato di una volontà, sono state desiderate e inseguite.

Ambizione
Ovunque sulla terra gli uomini, certo a causa di un debito d’esperienza e di una marcata vocazione ingegneristica dell’autore, è stato prima di tutto una griglia di lavoro a cui appendere titoli. Ha iniziato come indice. Quei promemoria che evocavano notti greche ed estuari limacciosi, bestie ed epidemie, erano il distillato e le pietre angolari di un progetto la cui stesura ha anticipato il gesto liberatorio di scarabocchiare sul quaderno o ticchettare al computer. I racconti non esistevano ancora, né sulla carta né sullo schermo, ma una prefigurazione fantasmatica del libro era già operante e vegliava sulla loro stesura. 
Molti dei suoi aspetti architettonici e formali – il dispositivo di rabdomanzia geografica che conferisce unità mentre disarticola e spezzetta; la membrana connettiva della lingua, opaca e ingannevole come un astigmatismo del quale è difficile spogliarsi; la fascinazione per la parola che manca nell’ora in cui sarebbe opportuna e augurabile e forse risolutiva; la serpentina tra le modalità del fantastico; i diari di Rema e Manuelita posti a quadratura del cerchio – non hanno conosciuto la gioia dell’accidente fortuito o della libera improvvisazione perché fin dall’inizio erano incorporati nel disegno e ne costituivano gli imprescindibili punti di fuga.
Non è la strategia ordinaria che presiede a una raccolta di racconti e non la consiglierei a nessuno che non abbia escogitato in autonomia una tecnica simile: genera ansia da prestazione, disturbi cognitivi e manie di controllo. Però è la strada che Ovunque sulla terra gli uomini ha imboccato (tra centinaia di alternative più comode o veloci o panoramiche) per tirarsi fuori dalla palude in cui galleggiano le carcasse degli zibaldoni e muovere un passo nella direzione opposta, verso il luogo in cui le raccolte desiderano la propria struttura, se la impongono come una volontà e non tradiscono l’ambizione che le infiamma.

(A cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, presidente del Premio Ceppo)

Facebooktwitterlinkedin