Mariano Ragusa
L'Italia ai tempi del coronavirus

L’umanesimo terapeutico

Dopo l'umanesimo terapeutico è cominciato il nostro "oltre virus": la scansione pubblica e privata di questi mesi difficilissimi è stata sempre in mano alla tv. E alla sua dittatura dei luoghi comuni. La domanda ora è: come ne usciremo?

Ci aggrapperemo sempre meno ai bollettini delle autorità sanitarie. Stempereremo l’ansia misurando le comparazioni tra contagiati e guariti. E vorremo vedere “picco”, “curva”, “distanziamento” riscattati dal lessico epidemiologico per tornare a denotare condizioni di pura ordinarietà.

Diciamoci la verità, noi sopravvissuti al virus, siamo stanchi e sfibrati. Non reggiamo, pur non disconoscendone l’imperativo, questo isolamento domiciliare che via via si è andato attenuando lasciandoci qualche segno. Perché non sempre, e non a tutti, fanno bene le letture imposte per prescrizione terapeutica. Non sempre, e non per tutti, è rigenerativo cogliere “l’occasione” dell’isolamento per scrutare la propria identità, scoprire una inedito carattere che non s’è mai fatto caso abbastanza di custodire nel proprio animo. Non fa bene, questo esercizio. Non sempre e non a tutti, perché così facendo può esserci capitato di dover almeno abbassare quella mascherina di falsità che bastava a fingerci felici “prima”.

E ora? Meno sicuri, ancora timorosi e tutt’altro che rassicurati, cominciamo ad immaginare le mappe del nostro “dopo”. I confini sono saltati. Le regioni perdono la configurazione di fortezze inespugnabili.

La bolla mediatica comincia, neanche tanto lentamente, a spingerci in questo rinnovato racconto. Eravamo già dentro il racconto del futuribile “dopo”. Un racconto a tratti ossessivo che ha riconsegnato alla televisione lo scettro creativo dell’immaginario collettivo. Crossmediali quanto si vuole, ma attraverso quello che un tempo chiamavamo vezzosamente “piccolo schermo”, ha preso forma lo schema disciplinare (che si è esteso anche a coscienze e sentimenti) del futuro che avremmo incontrato.

Inevitabile centralità, quella conquistata dalla televisione: lo specchio e l’apertura del racconto collettivo nel tempo della vita rintanata nelle case. Una colata di “umanesimo terapeutico” è venuta giù ad ogni tocco di telecomando. Spaventare e rassicurare: è stato il pendolo al quale il nostro tempo è stato aggrappato.

Spaventare. Perché non c’era sceneggiatura da inventare quando i fatti erano già di suo una sceneggiatura con la contabilità delle morti, i pochissimi salvati, le ambulanze e i letti dei reparti di rianimazione sempre pochi rispetto al bisogno.

Rassicurare. Perché anche nella tragedia bisognava credere che nulla era definitivo. Ed eccoli i numeri (poco importa cosa comunicassero) a dare stampelle all’angoscia. Eccoli, i numeri. Certezza calcolistica nel tempo dell’incalcolabile. È cominciato da lì l’“umanesimo terapeutico”. Era una questione di sequenza, di ordine del discorso orientato all’effetto placebo: si parte dai numeri dei morti? O da quello dei contagiati? E se capita che venga fuori un guarito, che si fa? Lo si annuncia per primo nel bollettino della protezione civile?

Gli interrogativi hanno costantemente assediato capiredattori ed inviati. Lo sguardo retrospettivo ci convincerà di quanto fine sia stato il lavoro sui dosaggi emotivi delle informazioni.

E poco importa se a “fini terapeutici”, il racconto pubblico (quello costruito da tutti i narratori) abbia imposto qualche omissione e diversi silenzi. Come si faceva a rassicurare, raccontando quanto inferno ci fosse nelle case elette (per scientifica necessità, è ovvio) a porto sicuro? Come si faceva ad inverare il credo degli hashtag salvifici raccontando della cronaca accaduta? Delle violenze e degli abusi alle donne consumate tra le mura – come si dice – domestiche? O a danno degli stessi bambini (il 20% in più, ha calcolato telefono azzurro)? Gli articoli del “dopo” hanno iniziato a raccontarcelo. E per fortuna, ma con molta discrezione e evanescente lievità, qualche spot di Pubblicità progresso con i numeri del codice rosso, hanno fatto capolino nella pioggia di buoni propositi e amorevoli suggerimenti venuti da vip e big.

Certo qualche femminicidio c’è stato. E come fai a non darne notizia? E notizia se ne è data ma come servizio in coda di tg o in chiusura di sfoglio dei quotidiani.  Ed è andata avanti così per giorni e settimane. In nome del principio di precauzione o del danno tollerabile e compatibile con l’obbligo di credere che stavamo cambiando e che quelle brutture sarebbero andate via come un incubo, come il virus.

Presi per mano da opinionisti trasformati in tutorial delle nostre emozioni proviamo a muovere i primi passi vero il “dopo”. Cosa vediamo? E, soprattutto, come lo vediamo? Per pronunciare parola e attivare l’immaginazione conviene affidarsi alla saggezza inopinata di Gigi Marzullo. “Saremo peggiori, migliori o diversi?”: così, l’uomo della notte televisiva, ha messo sul tavolo la questione del nostro oltre virus, qualche settimana fa, nello show di Fazio. Domanda facile? Domanda banale? Di quelle, come si dice per certi test, a risposta aperta e dove comunque vada, l’azzecchi?

Mica tanto, a tutto considerare. Perché se le prime due opzioni in secca alternativa (migliori o peggiori) ci fanno carico dell’obbligo di abbracciare certezze, la terza possibilità, inscritta nel quesito, ci alleggerisce la pena di un assai repentino cambio di stato. E ci assegna un anticipo di assoluzione ai nostri futuri errori. Diversi, dunque. Diversi da che?

Ovviamente, da ciò che “prima” del virus siamo stati. E come lo misureremo quel mutamento? Come definiremo, e ci definirà, la diversità? Stretto tra la variabile prepotenza di “migliori” e “peggiori”, quell’aggettivo “diversi” si mostra debole nella sua genericità. E per questo ci apre al campo della indeterminatezza, della incertezza, di confini non individuabili e di strade dal tracciato ondivago. Ma anche del “possibile”, del “progettabile”, del “costruibile”. Quello che, in fondo e con ogni probabilità, siamo già stati in un certo tempo, poco importa se lungo o breve, “prima” del virus. E che abbiamo ricordato come la vera privazione, nelle ore trascorse nei bunker domestici. Diversi, dunque. Cantieri dell’esistenza, magari.

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