Danilo Maestosi
Visita alla Galleria Nazionale di Roma

Ritorno all’arte

Dopo mesi di clausura forzata, riaprono i musei. Con quali prospettive? La tendenza alla spettacolarità è ancora fortissima. E c'è il rischio che lo sforzo tecnologico fatto durante il lockdown possa creare il presupposto per un volo verso l'arte virtuale

OPEN: Dice la scritta composta con moduli di legno ai piedi della scalinata di valle Giulia. È l’annuncio con cui la Galleria nazionale d’arte moderna ha sigillato la sua riapertura al pubblico dopo il lungo embargo dell’epidemia, battendo sul tempo tutti gli altri musei romani che in ordine sparsi si sono poi accodati o si stanno accodando: i capitolini, palazzo Braschi, Palaexpo’, palazzo Barberini, il museo Borghese e così via, tra gli ultimi le Scuderie del Quirinale che dal due giugno prorogano e rendono visitabile, con ovvie restrizioni, e prorogano la grande mostra su Raffaello, chiusa dopo appena un giorno di file e di rodaggio.

Alle istituzioni pubbliche si aggiungono di giorno in giorno anche quelle private, comprese molte gallerie, che ripartono pescando opere in archivio e artisti di scuderia.

Un test interessante questa riapertura degli spazi della cultura visiva dopo un embargo di quasi tre mesi. Non tanto per i dati numerici. Cifre ancora piuttosto basse: un centinaio al giorno alla Galleria nazionale, più o meno altrettanti alla Borghese. C’era da aspettarselo: il ritorno al contatto diretto non ha ancora stabilizzato la curva delle attese e delle fobie che inesorabilmente pende verso il recupero dei corpi e dell’aria aperta, le corse, le passeggiate, lo shopping e infine le soste ai tavolini dei bar, complice il bel tempo e l’allentamento delle restrizioni. L’arte al chiuso, che pure ci era stata negata come le apericene e lo struscio davanti alle vetrine del Corso, continua per ora a restare a fondo classifica nella gerarchia dei desideri. Non è un caso che le presenze più alte siano state registrate en plein air al giardino di Boboli di Firenze, venti volte più degli spettatori dei capolavori della Borghese. Tetto – ci si può scommettere – che verrà presto superato dal rientro in scena del Colosseo, anche senza l’assedio dei turisti.

San Gerolamo di Caravaggio alla Galleria Borghese

Più che legittimo, però, il dubbio, che questa stagione che verrà, almeno qui a Roma, possa non essere una fase di ripresa per i musei, precipitati negli ultimi due o tre anni in una situazione di forte crisi. Non tanto d’incassi o presenze, ma d’identità. Un limbo d’indeterminazione e di cambiamenti che ha coinvolto soprattutto le istituzioni nate a presidiare gli incerti confini dell’arte moderna e contemporanea. Il Maxxi di via Guido Reni che, almeno, tra alti e bassi dopo dieci anni di iniziative sembra aver trovato la sua ragion d’essere e il suo fulcro operativo nella valorizzazione delle sue collezioni, abbracciando un ruolo di accumulo e difesa della memoria, che resta fondante per un museo. Ma continua a sfornare mostre ed esplorazioni del contemporaneo spesso viziate da un appiattimento critico rispetto alla scarsa ricerca di profondità che caratterizza gran parte della produzione artistica circolante.

E ancora il Macro comunale di via Nizza che, accantonato il suo alterno passato d’esordio e voltate ancor più bruscamente le spalle all’esperimento anarchico di Giorgio de Finis, è ancora in attesa di inaugurare dal vivo le trasformazioni da giovane curatore ben introdotto nel sistema dell’arte del nuovo direttore Luca Lo Pinto, che ha già annunciato un format da rivista di tendenza. E poi il nuovo corso del Palaexpo’ che ha appena riaperto le due mostre allestite prima dell’embargo, seguendo due bussole, spesso fumose ed elitarie, comunque piuttosto lontane dai progetti iniziali, con cui era rinato all’inizio degli anni ‘90, di farne il più grande e duttile contenitore espositivo della capitale, calibrato su un pubblico di massa sul modello del Gran Palais parigino: la impostazione da performer dell’artista , Cesare Pietroiusti, chiamato a dirigerlo, e l’attenzione per la divulgazione scientifica dell’assessore comunale Luca Bergamo che lo finanzia. Il risultato è una programmazione a singhiozzo molto diseguale, che salta da un tema all’altro, senza riuscire a fidelizzare un proprio pubblico.

E infine la Galleria nazionale di valle Giulia, che, sotto la direzione di Cristiana Collu, si è lanciata in un esperimento suggestivo ma spericolato: reinventarsi come museo, rinunciando alla sua prevalente tradizione di luogo di raccolta e di esposizione dei cimeli dell’ultimo Ottocento e della prima metà del Novecento per trasformarli in icone intercambiabili dell’arte che è stata e che sarà. Il riallestimento della Galleria trasformato in una mostra dove i singoli pezzi della collezione massicciamente sfrondati per dare aria agli spazi sono stati riallineati e rimontati sala per sala come figurine di un mazzo di carte con accostamenti, associazioni e collanti estetici svincolati da ogni criterio cronologico. Capricci curatoriali in cui il gusto del regista della messinscena si sovrappone al senso e al significato dell’opera, al messaggio e alle intenzioni degli artisti, al loro dialogo con il proprio tempo. Un «tempo», «out of joint», «uscito dai cardini», ci informa il titolo della mostra, che prende ad emblema della contemporaneità, questa angosciata battuta scritta oltre quattro secoli fa da Shakespeare. In quattrocento anni quante volte e in quante forme diverse di fronte ai dolorosi rivolgimenti della storia questo senso di impotenza nel tenere a bada i deragliamenti del tempo si è ripresentato, accendendo e stimolando la fantasia degli artisti che naviga per vocazione i crinali del dubbio e dell’incertezza? Nulla è più relativo che questa costatazione sui trabocchetti di relatività che il tempo ci apre sotto i piedi. Modellarci su il teorema sul quale si è fondata questa drastica riconversione del museo non è stato come costruire un castello con la sabbia? Tanto più che questo riallestimento, annunciato come provvisorio, ha ormai superato la soglia dei due anni e si accinge a proseguire per chissà quanto ancora.

Certo, all’inizio la novità ha pagato, e le polemiche che l’hanno preceduta e accompagnata hanno fatto da ulteriore cassa di risonanza: il pubblico è aumentato in modo innegabile prima di stabilizzarsi su cifre comunque più alte delle medie del passato, ha pagato la politica della direttrice, riconfermata nel suo incarico, di varare una serie di indovinate mostre di contorno, sconfinando però oltre i limiti degli anni Sessanta che erano stati assegnati alla Galleria per evitare la concorrenza con il Maxxi. Ma il modello di quest’operazione può alla lunga produrre più guasti che benefici, perché si sottrae al compito di misurare e interrogare la durata delle opere d’arte, che resta la scommessa su cui si fonda la nascita e la sopravvivenza stessa di ogni museo e l’accumulo delle sue collezioni. E perché sposa un’idea rassegnata e tutt’altro che problematica di contemporaneità: quella per cui la memoria e il gusto dei fruitori della arti visive sono inesorabilmente dettati dalla abnorme circolazione e accumulazione di immagini ed esperienze virtuali, che surrogano e intaccano il contatto diretto con le opere d’arte, ne impongono valore, significato e consumo anche quando non le possiedono. Già, perché l’universo senza gerarchia di Instagram e dei social, dove un selfie o una foto souvenir valgono quanto l’immagine d’un quadro o d’una istallazione, è solo apparentemente liberatorio, consegna tutti alla superficie e all’indistinto. E se a cavalcarlo è lo stesso sistema dell’arte con le sue convenienze, il suo cinismo e il suo spirito di casta appiattisce il pubblico dei fruitori alla passività e alla rassegnazione per il facsimile, per l’esperienza a distanza. Verso la soluzione spettrale che il nuovo direttore del Macro è deciso ad adottare per le opere della collezione: non aprire i depositi e far ruotare i propri cimeli ma restituirli alla vista in fotografia, tappezzando di riproduzioni le pareti delle sale.

Curioso che l’esperienza forzata del coronavirus, che per mesi ci ha imposto una vita in contumacia non insegni nulla. Non insegni nulla la mobilitazione del ministero dei Beni Culturali che in questa fase d’isolamento ci ha inondato i computer con migliaia di visite simulate a siti archeologici, palazzi, musei, storie e ricostruzioni filmate, persino fumetti. Uno sforzo che potrebbe risultare prezioso se tutti quei materiali raccolti e l’impegno divulgativo che li ha prodotti venissero messi a frutto per introdurre, agevolare e integrare il percorso di visita di un museo. Ma potrebbe trasformarsi in una beffa se, magari per risparmiare i costi di gestione, finisse per autorizzare il personale delle soprintendenze che gestisce quei luoghi a centellinarne le visite e il godimento in presa diretta.

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