Gianni Cerasuolo
Italia-Germania 4-3/ Il Paese

Bombe e pallone

Cinquant'anni fa la partita del secolo a Messico '70. Che Italia era, quella che scese in piazza per la prima volta per il calcio? Era appena passato il Sessantotto, la politica era incerta, Piazza Fontana era insanguinata mentre si cantava Lucio Battisti. La prima parte di un'inchiesta in tre puntate

Quel giorno un bel po’ di famiglie erano preoccupate per i loro ragazzi. Come succede oggi a causa del Covid 19, i genitori non sapevano quando e come sarebbe ripresa la scuola, c’erano di mezzo scrutini ed esami, ma allora fu per via di uno sciopero infinito di docenti e personale delle sigle sindacali autonome. Era il 17 giugno 1970, mercoledì, e i quotidiani del mattino titolavano più o meno così: “Tutti promossi o tutto rinviato a settembre? ”. Si rivelò una giornata speciale quella di cinquant’anni fa, lunga e slabbrata, durò fino al mattino del giorno dopo, giovedì 18.

Fu la notte che l’Italia non dormì. Da mezzanotte alle due e mezza una folla immensa rimase appiccicata davanti alla tv a vedere la partita che non finiva mai: Italia-Germania 4 a 3, la partita del secolo. Poi celebrò un rito collettivo contagioso e allora sconosciuto, o quasi (un’anteprima ci fu già dopo il 4-1 contro il Messico e le notti magiche arriveranno vent’anni dopo). Tutti in piazza a far casino: girotondi, cortei, bagni nelle fontane, auto in fila e clacson frastornanti, il tappo saltato dalla bottiglia di spumante dopo un match da infarto, un thriller che tutti avete visto e che riavvolgo per comodità. Durò 120 minuti, tempi regolamentari più supplementari per via di un maligno gol del solito tedesco di Germania, Karl-Heinz Schnellinger, che poi era tedesco d’Italia visto che giocava nel Milan, quando già sembrava tutto finito e la rete di Boninsegna nel primo tempo, quella dell’1-0, ci poteva bastare per chiudere i conti. Invece arrivò il piattone sgraziato del biondissimo terzino che passava per caso davanti ad Albertosi e patatrac: 1-1. Ecco il pathos, i trenta minuti dei tempi supplementari, anzi trentadue, su un ottovolante di palpitazioni, un concentrato di delusione e beatitudine, la messinscena inenarrabile di undici uomini in maglia azzurra a diecimila chilometri di distanza, a Città del Messico: il pasticcio di Poletti e il gol di Müller, il pareggio di Burgnich, noi avanti con Riva, ancora Müller con Rivera bella statuina sul palo e poi il Rivera della storia, il Rivera di Italia-Germania 4 a 3. In finale ci aspettava Pelè. Gaudeamus igitur.

Il Sessantotto in Italia

In quella notte accadde qualcosa che doveva rimanere per sempre nella memoria di un Paese come spesso è capitato con i grandi avvenimenti sportivi. Episodi che ci hanno fatto riscoprire una effimera coincidenza patriottica, esplosioni improvvise e passeggere, il calcio che scrive a modo suo il racconto nazional-popolare. Come con Spagna 1982, campioni del mondo, campioni del mondo, con il Mondiale 2006, il cielo è azzurro sopra Berlino. Eventi «che hanno generato sogni e inebrianti identità collettive…» scrisse Nando dalla Chiesa nel suo Quattro a tre. «Tutto questo resta nella storia della mentalità e della cultura. Resiste ad ogni successiva bruttura e degenerazione. A ogni oltraggio al pallone, ai colori e alle magie del mito…». Quella competizione serrata e avvincente servì anche «a ripercorrere un’epoca storica felice di più generazioni che incrociarono quell’anno con le loro differenti speranze: la generazione dei padri…e la generazione dei figli che proprio in quegli anni si ritrovò a sognare a occhi aperti la società dell’utopia».

Eh già, forse c’erano ancora speranze di cambiamento a quei tempi. Il Sessantotto, che da noi durò un decennio, come un “maggio” prolungato, era ancora fresco in quel 1970 e non contava ancora reduci e pentiti. In questi giorni, leggendo un po’ di cose per rinfrescarmi la memoria su quelle giornate, esercizio sfibrante ai tempi dell’isolamento casalingo – gli archivi e le emeroteche on line sono disagevoli da consultare, si chiede una cosa e te ne compare un’altra, cerchi una raccolta di decine di anni prima e scopri che puoi tornare indietro al massimo di dieci anni – ebbene, ho trovato una ineffabile definizione del Sessantotto data da Enrico Deaglio in Patria 1967-1977. In realtà Deaglio descrive una vignetta di Altan sull’anno inevitabile: «La migliore sintesi la fece una vignetta di Altan, ancora nel secolo scorso. Un intervistatore di mezz’ età, annoiato, porge il microfono ad un suo coetaneo, assolutamente uguale a lui e altrettanto annoiato: “Lei scopa?”. Risposta: “Ci ho provato, come tutti, nel ’68, ma poi ne sono uscito”».

Il Sessantotto a Valle Giulia, a Roma

Il Sessantotto fu il passaggio da un’epoca all’altra, dagli anni Sessanta ai Settanta, l’esplosione di movimenti collettivi radicali in rivolta quando si era arrivati alla <fine della fase espansiva che aveva assicurato la crescita e la diffusione di un benessere senza precedenti e l’inizio di un periodo molto più travagliato, segnato da inflazione, depressione, acutizzazione di tensioni economiche e sociali…> secondo quanto scriveva Franco De Felice in un saggio nel terzo volume della Storia dell’Italia repubblicana. In quei dieci-quindici anni successero un mucchio di cose.

Cambiamenti politici: la crisi del centrosinistra, il ridursi del potere di mediazione della Dc, gli “equilibri più avanzati” del professore De Martino e la “strategia dell’attenzione” di Moro verso un Pci tollerato ma non legittimato a governare, il “compromesso storico” di Berlinguer sterile nei fatti. Sostanzialmente, una perenne instabilità politica. Trasformazioni del costume: il divorzio faticosamente raggiunto proprio alla fine del 1970 e subito boicottato dalla Dc (e dal Vaticano) e l’esplodere della questione femminile. Conquiste nelle fabbriche: lo Statuto dei lavoratori (a maggio, un mese prima della partita dell’Azteca, ma il Pci non lo votò). In contrasto, si susseguirono stragi e atti terroristici che causarono più di trecentosessanta vittime e circa quattromila e cinquecento feriti. In principio fu la bomba di piazza Fontana, l’incipit della strategia della tensione e dei depistaggi infiniti. Allo stragismo dei gruppi fascisti – che agirono indisturbati favoriti dal “doppio Stato” e da quelli che si chiamarono con una formula consumata “Servizi deviati” –,  subentrarono il terrore e la mattanza brigatista fino alla Renault rossa con il corpo di Aldo Moro.

La strage di Piazza Fontana a Milano

Bombe e pallone, politica e passione. Quella notte tra il 17 e il 18 giugno di mezzo secolo fa la gente spuntò dai tetti delle 500 con il tricolore in mano, mise le bandiere ai balconi come si fa anche oggi con i colori dell’arcobaleno nella speranza che tutto vada bene, salì sui tavolini di Biffi e di Savini a Milano, invase i salotti buoni di altre città, improvvisò spogliarelli, affollò bar e pizzerie. Quel popolo variopinto e chiassoso, maleducato in qualche caso ma lontano dai vandalismi più recenti, un po’ squadrista secondo Montanelli e Flaiano, si mescolò e si confuse, compagni e camerati, operai e studenti, Messico e nuvole e Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta. La generazione sessantottina stava fumando l’oppio dei popoli. «…fino alla fine della partita» e anche dopo «si realizzò una prodigiosa, grandiosa sospensione della realtà esterna… senza dircelo stavamo fumando beati il nuovo oppio dei popoli. Stavamo spasimando per un pallone mentre intorno a noi, nel mondo reale, e non nella costruzione spettacolare-artificiale dell’Azteca, i problemi urgenti premevano…» (dalla Chiesa).

I problemi urgenti si chiamavano la guerra del Vietnam che Nixon aveva allargato alla Cambogia, i regimi dittatoriali che opprimevano tanta gente nel mondo (uno ce l’avevamo vicinissimo, in Grecia), lo sfruttamento del lavoro, la questione palestinese, i carri armati sovietici a Praga. E poi: quella partita tra bianchi e azzurri s’era giocata in Messico, laddove due anni prima, militari e poliziotti di Gustavo Diaz Ordaz, il presidente che si inventò il reato di “dissoluzione sociale”, avevano decimato gli studenti e gli altri manifestanti in piazza delle Tre culture a Tlatelolco dieci giorni prima che iniziassero i Giochi olimpici. Oriana Fallaci che c’era scrisse: «È accaduto qualcosa di simile al massacro di Sant’Anna di Stazzema».

El partido del siglo come fu scritto sulla targa fuori el estadio Azteca fu dunque da noi come la sospensione dalla realtà, uno sfogo collettivo di baldoria (a termine). Non è che tutti sapessero della Grande Menzogna, di quello che accadeva dietro le quinte del Paese; e se Bruno Vespa annunciava al Tg, solo pochi giorni dopo lo scoppio, che Valpreda aveva messo la bomba nel salone della Banca dell’Agricoltura, ci si credeva e basta. Lo dicevano le indagini, lo scrivevano i giornalisti – ma non Camilla Cederna e Piero Scaramucci, tra i pochi a smarcarsi dalle versioni ufficiali – lo faceva anche l’Unità, almeno all’inizio, dunque…

C’erano oligarchie e vasti settori dell’opinione pubblica, la maggioranza silenziosa, il “partito americano” che guardava al presidente della Repubblica Saragat, settori industriali che spingevano verso soluzioni forti, golpiste. La caccia al “rosso” si era scatenata, il riconoscimento di Valpreda da parte del tassista Rolandi e il volo di Pinelli dalla Questura di Milano, inchiodato alle proprie responsabilità, erano lì a dimostrare che gli anarchici e i loro complici di estrema sinistra avevano compiuto il massacro. Bisognava sfruttare la situazione e mettere ordine nel Paese. Parlare di strage di Stato era da sovversivi. Freda e Ventura, generali e poliziotti infedeli, potevano continuare a “lavorare” indisturbati.

Il giuramento del Governo Rumor

Allora, si poteva spendere qualche ora di frenesia e di allegria, distrarsi un pochino dopo il gol definitivo del golden boy Gianni Rivera, l’abatino. Poi bisognava tornare in fabbrica, in ufficio, all’università. Molti neanche rientrarono a casa dopo il baccanale. Restava ancora la finale per godere di più. Ma l’happy and non ci fu: Brasile-Italia 4-1, Mondiale e Coppa Rimet a Pelè & C. Un colonnino in corsivo sulla prima pagina del quotidiano del Partito comunista, a firma Arminio Savioli, inviato ed editorialista tra i più prestigiosi del giornale, salutava positivamente quei caroselli per le strade: «I partecipanti alla pittoresca esplosione sono quegli stessi italiani che si occupano così attivamente di politica e che vanno a votare…Sbaglierebbe chi si affrettasse a trarre conclusioni sulla disponibilità delle masse a lasciarsi fuorviare verso obiettivi irrazionali…». Seguirono invece articoli e analisi sociologiche su quel fenomeno festaiolo che aveva spiazzato un po’ tutti, liti a sinistra tra parlamentari ed extra e, chissà, forse anche qualche dibattito televisivo. Costanzo e Giletti ci si sarebbero buttati a pesce.

Ai primi di gennaio di quel 1970 se ne era andata un’altra vittima di Piazza Fontana, della bomba messa dai fascisti, la prima strage di un rosario infinito destinata a restare impunita. Il poveretto si chiamava Calogero Galatioto, era un pensionato di 71 anni, ma lavorava ancora, si arrangiava con piccoli servizi. La macabra contabilità si fermò a 17 morti, più di ottanta feriti, un bambino con un piede amputato, tutti quanti devastati dall’esplosione nella banca milanese dove si riunivano piccoli agricoltori, proprietari terrieri, allevatori. «Vestivano di grigio e di marrone; la roba pesante che fuma nelle osterie con le latrine all’aperto. Poca creanza a farsi ritrovare così…»,Pasolini li aveva ricordati con queste ed altre parole in quell’orazione civile, in una poesia, Patmos, l’isola dell’Apocalisse di Giovanni, buttata giù di getto sull’onda dell’emozione e dell’indignazione.

Trentacinque giorni dopo la sfida messicana a poche centinaia di metri dalla stazione di Gioia Tauro deragliava la Freccia del Sud, il treno partito da Palermo e diretto a Torino, dentro anche una cinquantina di pellegrini che dovevano raggiungere Lourdes. Si rovesciarono due vagoni, le carrozze 9 e 11, sei i morti, cinque donne e un operaio, una settantina i feriti. Mancava oltre 1 metro e mezzo di binario probabilmente divelto da una bomba. Da diversi giorni infuriava la rivolta di Reggio Calabria, capeggiata da Ciccio Franco e sostenuta dal Movimento Sociale ma anche dalla Dc locale, la ribellione del Boia chi molla che si protrasse a lungo (a distanza di sette mesi qualcosa di simile accadde anche all’Aquila). Appena trentuno anni dopo i fatti di Gioia Tauro, nel febbraio 2001, la Corte d’Assise di Palmi stabilì che quella nuova strage fu compiuta in Calabria da tre di Avanguardia nazionale.

Manifestazione per il divorzio

Sempre in quel significativo mese di giugno si andò a votare per le prime elezioni regionali. La Dc e il Pci tennero botta, un po’ come i due partiti socialisti, il Psi e il Psu (i socialdemocratici di Saragat, Tanassi). Non si tradussero in voti la spinta operaia dell’autunno e la reazione della destra. La situazione politica non era per niente tranquilla. Era diffusa la sensazione che prima o poi gli italiani sarebbero andati a votare (come al solito). Mariano Rumor, il «mansueto cattolico veneto» secondo Lietta Tornabuoni, guidava da marzo il suo terzo governo consecutivo, un quadripartito di centrosinistra (Dc, Psi, Psu, Pri) dopo un tentativo di Moro fatto fallire per evitare attrazioni a sinistra. Luigi Longo stava male ed Enrico Berlinguer aveva preso in mano le redini del Pci. Rumor si dimise il 7 di luglio, il giorno dopo ci sarebbe stato uno sciopero generale per le riforme, la casa, la scuola, la sanità. Si disse che il capo dell’esecutivo era stanco e affaticato, scosso dai fatti di Milano; qualche anno dopo quelli di Ordine Nuovo cercarono di ammazzarlo (ma quando si trattò di parlare davanti al tribunale di Catanzaro delle bombe di Milano e di Roma, perché non ce ne fu una sola, rispose con tanti “non ricordo”). Si mormorò che le dimissioni servivano anche a rimandare l’approvazione della legge sul divorzio. Ma il testo del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini ebbe l’approvazione definitiva ai primi di dicembre, sotto il governo guidato da Emilio Colombo (De Martino vicepresidente) che era succeduto a Rumor e dopo la rinuncia di Andreotti (in due anni cinque crisi di governo, tre in un solo anno). Quel voto parlamentare precedette di pochi giorni il tentativo di colpo di Stato di Junio Valerio Borghese, il principe nero. Non erano delle macchiette, l’ex comandante della X Mas e i suoi complici. Fatto sta che tra il 7 e l’8 dicembre 1970, la notte dell’Immacolata, i golpisti vennero fermati. Potevamo dormire sonni tranquilli, i patrioti di Gladio e della P2 – imbeccati dagli amici della Cia – vigilavano su di noi.

Eppure, il boom era già un ricordo e l’economia aveva rallentato ma il rapporto debito/Pil era ancora accettabile sebbene nel ’64 fosse al 33% con l’economia che cresceva del 5% ogni anno e nel ’68 era già passato al 41%. Gli esperti hanno fissato nel quindicennio 1968-1983 il precipitare della situazione delle finanze pubbliche, il macigno rotolato fino ai giorni nostri.

Formidabile, dunque, quel 1970. O no?

Lucio Battisti

Intanto, il Cagliari di Giggirriva aveva spezzato le catene della triade Juve-Milan-Inter andando a vincere lo scudetto (e la stagione precedente lo aveva fatto la Fiorentina di Pesaola).  Alla radio ascoltavamo Arbore e Boncompagni nel guazzabuglio di «musica e puttanate» che fu Alto gradimento. Cantavamo Battisti e i suoi fiori di rosa fiori di pesco, e l’isola di Wight dei Dik Dik. I Beatles avevano chiuso bottega e i rotocalchi raccontavano chi c’era e chi non c’era al matrimonio di Al Bano e Romina. Dopo mezzo secolo ne parlano ancora.

Un caso riempiva le pagine di nera dei quotidiani alla fine dell’estate: il delitto Casati Stampa, storia tragica e morbosa, un triangolo di morte e sesso. A Roma, nella lussuosa casa vicino Villa Borghese, il marchese Camillo Casati Stampa, nobile milanese, uccise con un fucile Browning calibro 12 la moglie Anna Fallarino e l’amante Massimo Minorenti. Poi si ammazzò. Ogni giorno uscivano notizie sulle abitudini particolari del nobiluomo che offriva la signora un po’ a tutti e lui stava lì a guardare, marchese e voyeur. Per un mese anche Lelio Luttazzi finì in cronaca. Non per le sue grandi qualità di musicista jazz e brillante intrattenitore televisivo. Lo tennero chiuso a Regina Coeli per 27 giorni, in un isolamento brutale, per aver fatto una innocua telefonata ad uno che poi si rivelò essere uno spacciatore di cocaina, pusher di gente di spettacolo, tra cui Walter Chiari. Luttazzi ne uscì fuori pulito, anzi pulitissimo. Ma da quella vicenda stentò a riprendersi, la Rai l’aveva già messo alla porta. Ad Enzo Tortora andò molto peggio.

Germania-Italia 4 a 3 richiamò quasi 18 milioni di italiani davanti al video (eravamo 53.686. 301 secondo l’Istat). Quella sera sul Nazionale, si chiamava così allora RaiUno, davano un reportage di Arrigo Levi e Aldo Rizzo sul colpo di stato del ’67 in Grecia e, a seguire, in attesa della telecronaca di Nando Martellini, un programma musicale presentato da Lea Massari con Gato Barbieri, il sassofonista argentino, autore tra le tante cose della colonna sonora dell’Ultimo tango a Parigi di Bertolucci. Sul Secondo canale, che cominciava alle 21 con il Tg, un film russo. Su questa rete aveva debuttato a febbraio un nuovo programma di Mike Bongiorno, Rischiatutto, affiancato da Sabina Ciuffini: un successo quasi pari a Lascia o raddoppia?

Ma in quella sera messicana nemmeno la mitica signora Longari avrebbe fatto cambiare canale a buona parte del Paese. Che alle 23,55, mezzo addormentato, si piazzò davanti alla tv.

1/continua

Mi hanno aiutato a scrivere questo articolo:
Wikipedia.
Aldo Grasso: Storia della televisione italiana. 1992. Garzanti.
Enrico Deaglio: La bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana. 2019. Feltrinelli.
Enrico Deaglio con Valentina Redaelli: Patria. 1967-1977. Prima edizione digitale 2018. Feltrinelli.
Nando dalla Chiesa: Quattro a tre. Storia di una generazione che andò all’attacco e vinse (quella volta). 2012. Melampo editore.
Franco De Felice: Nazione e crisi: le linee di frattura. Saggio nel terzo volume della Storia dell’Italia repubblicana. 1996. Giulio Einaudi editore.
L’Archivio del Corriere della Sera.
L’Archivio storico digitale dell’Unità.

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