Raoul Precht
Periscopio (globale)

Frontiera Forster

Una rilettura di Edward Morgan Forster, a cinquant'anni dalla morte. Nelle sue opere c'è tutto il senso del passaggio dalla letteratura dell'Ottocento a quella del Novecento. Dal realismo al dubbio

Qualche anno fa, uno dei migliori scrittori britannici in circolazione, Julian Barnes, si è lasciato andare, sul Guardian, a una palinodia piuttosto inusuale. Ha cioè confessato come, dopo aver detestato un certo autore per tutta la vita, con sua grande sorpresa gli sia capitato negli ultimi tempi di rileggerlo e di gradirlo, rovesciando in pratica il giudizio sbrigativo e alquanto sprezzante che ne aveva dato in precedenza. È senz’altro uno dei frutti dell’invecchiamento, che ci rende da un lato più esperti, ma dall’altro anche più ricettivi; ed è il frutto in particolare del meccanismo della rilettura, soprattutto quando avviene molti anni dopo il primo incontro con un determinato testo o autore, quando cioè l’impressione originaria ha cominciato a stemperarsi e a svanire, lasciandoci aperti a nuove emozioni.

Lo scrittore che ha ispirato a Barnes questa pagina curiosa sull’operato della memoria è Edward Morgan Forster, morto a Coventry cinquant’anni fa (per l’esattezza il 6 giugno 1970) alla venerabile età di poco più di novant’anni. Scrittore curioso e difficilmente classificabile, in quanto situato storicamente proprio a metà fra la tradizione ottocentesca di Dickens o Thackeray, dei quali è tributario per tutta una serie di meccanismi narrativi (come del resto i più anziani H. G. Wells e Galsworthy), e i procedimenti innovativi, del tutto novecenteschi, propugnati invece da autori di pochissimo più giovani di lui come Virginia Woolf, della quale sarà amico, D. H. Lawrence o Joyce. Malgrado questa sua posizione intermedia e ambigua, che fra l’altro gli è probabilmente costata il premio Nobel – vi è stato candidato senza successo in una quindicina d’occasioni –, Forster è piuttosto conosciuto, letto e apprezzato (anche da noi in Italia), ma a ben vedere, e paradossalmente, più per gli adattamenti cinematografici tratti dai suoi romanzi che per le sue stesse opere. Dei primi, in gran parte pregevoli – fra i registi che da lui rimarranno affascinati ci sono David Lean e James Ivory –, qui non parleremo affatto, perché meriterebbero una trattazione a parte; mentre ci soffermeremo sugli intensi e sofferti volumi, pubblicati in vita e postumi, di Forster, il quale naturalmente, per ovvie ragioni di cronologia, non si era neanche mai posto il problema di un’eventuale adattabilità dei suoi romanzi al cinema, né mai ne avrebbe immaginato il successo.

Entrato al King’s College di Cambridge a diciassette anni, membro con John Maynard Keynes e Lytton Strachey degli Apostoli, un cenacolo a sfondo velatamente omosessuale, Forster vive la giovinezza tipica di un rampollo dell’alta borghesia britannica dell’epoca – il padre, morto quando Edward aveva appena due anni, era stato un famoso architetto –, compiendo numerosi viaggi d’istruzione e diletto in Svizzera, Francia, Austria e Italia. Come si vedrà, il soggiorno in Italia, durante il quale lavora contemporaneamente a due romanzi, è particolarmente fruttuoso sul piano delle esperienze emotive e letterarie.

Nel 1905, a ventisei anni, mentre si trova in Germania in qualità d’istitutore, pubblica il romanzo d’esordio, Where Angels Fear to Thread (Monteriano), ambientato in Italia e basato sul contrasto fra usi e costumi anglosassoni e italiani. Di esso Barnes – nel ricordare in particolare la descrizione di una messinscena provinciale della Lucia di Lammermoor – sottolinea l’intelligenza e la forza satirica. Ne è stata rimarcata anche la vicinanza nei toni e nello stile a Henry James, e in particolare al romanzo The Ambassadors (Gli ambasciatori) uscito appena due anni prima, che potrebbe aver funto da modello.

Dopo aver preparato un’edizione scolastica dell’Eneide, due anni più tardi Forster pubblica il secondo romanzo, The Longest Journey (Il viaggio più lungo), incentrato sulla vita universitaria a Cambridge, di cui attacca l’ipocrisia e le convenzioni, dominanti del resto non solo nel suo, ma in tutti i più titolati atenei britannici. La storia, piuttosto complessa e melodrammatica, con qualche caduta di tensione e qualche eccesso moralistico, esplora la difficile relazione fra due fratellastri dal carattere opposto.

Nello stesso periodo Forster finisce di scrivere anche A Room with a View (Camera con vista), che sarà pubblicato nel 1908. Diviso in due parti, la prima delle quali si svolge a Firenze e la seconda nel Surrey, il romanzo è una divertita descrizione del turismo britannico in Italia all’inizio del secolo scorso – un turismo ancora in gran parte ingenuo e spontaneo – e al tempo stesso un eloquente manifesto in favore dell’autodeterminazione dell’individuo e della libertà di vivere la propria vita nel modo che si preferisce. In particolare destano qui ammirazione l’innato e potente spirito d’osservazione e la capacità di cogliere, sia pure nel contesto delle convenzioni proprie della commedia romantica, i particolari delle diverse situazioni. Il libro è anche un inno all’Italia e alle sue bellezze artistiche e geografiche, tanto che una delle frasi finali, intrise di nostalgia, sarà: “Italiam petimus: ritorniamo alla Pensione Bartolini” (ovvero la pensione di Firenze dove una delle protagoniste, Lucy, incontra proprio all’inizio del libro colui che diverrà suo marito).

Del 1910 è Howards End (Casa Howard), romanzo che coincide con una prima frequentazione del Bloomsbury Group, in cui erano confluiti alcuni degli Apostoli. Pur nella sua maggiore complessità rispetto alle precedenti, anche quest’opera è incentrata su un’indagine serrata dei rapporti spesso convenzionali che intratteniamo gli uni con gli altri e sui pregiudizi che malgrado tutto governano il mondo. Seguiamo qui le avventure di due sorelle, Margaret e Helen, e il loro tentativo di conciliare la malcelata brutalità di una società britannica che insegue il soddisfacimento concreto dei bisogni, da un lato, con l’elevazione culturale e artistica che alle protagoniste proviene dall’origine europea, o più precisamente tedesca, dall’altro. Nel romanzo sono rappresentate in modo articolato tutte le classi sociali, e i personaggi, del tutto credibili, acquistano un nitore che apparenta Forster alla grande narrativa ottocentesca. A proposito di questo romanzo Barnes rimarca nel suo articolo la bravura di Forster nel raccontare di amore, desiderio, matrimoni e amicizie e nel descrivere le scelte di ciascuno, fra buongusto e volgarità, arte e denaro, ambizioni spirituali e sopravvivenza materiale.

L’anno successivo Forster accetta un incarico come giornalista e si sposta da una parte all’altra dell’India, dove fra l’altro comincia ad accumulare materiale per quello che diverrà in seguito il suo romanzo più famoso e apprezzato, A Passage to India (Passaggio in India), uscito nel 1924. Nel 1913 si rivela molto importante l’incontro con la comune di Edward Carpenter, che eserciterà su di lui una forte influenza morale e spirituale, inducendolo fra l’altro ad accettare la propria omosessualità: da questa nuova consapevolezza di sé nasce un romanzo, Maurice, che Forster completa nel 1914. Dato però che non sono passati ancora neanche vent’anni dal processo a Oscar Wilde e poco è cambiato nella pubblica opinione, Forster decide per autodifesa di non pubblicarlo, né lo farà mai, tanto che il libro uscirà solo nel 1971, postumo. Saranno in pochi, e fra questi il vecchio amico Lytton Strachey, a sapere della sua esistenza.

Allo scoppio del secondo conflitto mondiale Forster si trova ad Alessandria come funzionario militarizzato: in pratica, lavorerà come volontario per la Croce rossa. Dopo la guerra, collabora al New Statesman e allo Spectator ed è per un certo tempo redattore del Daily Herald, mentre in India tornerà ancora una volta nel 1921. Tre anni dopo pubblica il già menzionato Passaggio in India. Al centro del romanzo è l’amicizia fra un insegnante inglese e un giovane musulmano, ingiustamente accusato di violenza carnale (l’accusa sarà poi ritirata). Nel descrivere con notevole sensibilità i rapporti tra gli indiani e i colonizzatori inglesi, Forster affronta sì, da un lato, temi sociali, ma dall’altro anche l’irrimediabile enigmaticità dell’incontro (e spesso dello scontro) fra culture diverse.

Nel 1923 era intanto uscito un primo volume di racconti, The Celestial Omnibus (L’omnibus celeste), in cui non aveva esitato a virare verso elementi fantastici e magici e che è seguito cinque anni più tardi da una seconda raccolta dal titolo The Eternal Moment (L’attimo eterno). Sempre negli anni Venti comincia a dedicarsi attivamente agli aspetti teorici della narrativa; tale studio culmina in un ciclo di conferenze a Cambridge, da cui nascerà poi il volume Aspects of the Novel (Aspetti del romanzo).

Gli anni Trenta e Quaranta saranno contrassegnati dalla stesura di un saggio su Virginia Woolf, dalla redazione di un romanzo, Arctic Summer, che resta però incompiuto, da una serie di conferenze negli Stati Uniti e infine dalla stesura per Benjamin Britten, con la collaborazione di Eric Crozier, del libretto dell’opera lirica Billy Budd, terminato nel 1951. Per quanto riguarda la narrativa, tuttavia, negli ultimi quarant’anni di vita Forster non scrive o pubblica più nulla, come se la sua vena si fosse inaridita o avesse già detto quanto aveva da dire, e come se aggiungere infinite varianti ai suoi temi e motivi gli sembrasse superfluo. (Il che è un altro dei motivi citati da Barnes per la sua odierna rivalutazione.)

Va detto che, almeno in Italia, la fortuna editoriale di Forster non sembra declinare, almeno a giudicare dalle riedizioni dei suoi libri. Negli ultimi quattro anni, per fare un esempio, da Garzanti sono usciti Aspetti del romanzo e L’attimo eterno, da Feltrinelli Casa Howard, mentre Mondadori ha pubblicato Passaggio in India, Camera con vista e la raccolta La macchina si ferma, il cui racconto eponimo è un curioso e attualissimo apologo su un’umanità futura che rinuncia gradualmente alla propria libertà e alla propria indipendenza di pensiero, affidandosi a una misteriosa macchina, resa oggetto di culto. Ma il cattivo funzionamento della macchina, dopo che essa ha sostituito per generazioni l’azione dell’uomo, risolvendone tutti i problemi e appagandone tutti i desideri, finirà per mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’umanità stessa. Ancora una volta, nel mirino di Forster finiscono i pregiudizi e l’incapacità di pensare al di fuori degli schemi collaudati.

Umanista liberale sulla scorta di un Bertrand Russell, sempre attento agli aspetti psicologici e morali, avverso o addirittura allergico a qualunque tipo di conformismo, Forster non dimentica mai che sia l’essere umano sia i personaggi letterari sono composti tanto da un sostrato razionale quanto da uno irrazionale ed emotivo. Non solo, ma l’intreccio di questi elementi suscita in lui un’inestinguibile curiosità. La vita, come rileva in modo esplicito in Passaggio in India, non è un manuale scientifico; ed è l’ironia, se non direttamente l’aspetto comico delle cose, a rendere pretenziosa qualunque pretesa di applicare alla vita un approccio puramente scientifico e deterministico. Nei suoi romanzi, come del resto nelle lettere – basti pensare alla descrizione del catastrofico incontro con Henry James, da cui si aspettava molto ma che in pratica lo ignora -, l’ironia e l’umorismo sono onnipresenti. Un banale esempio di quest’ironia lo troviamo nell’indice di Camera con vista, dove ciascun capitolo ha un suo titolo, e l’insieme dei titoli crea di per sé un effetto d’irresistibile comicità. Nella prima parte, quella ambientata a Firenze, dopo tre capitoli dal titolo convenzionale il quarto, tanto per cominciare, si chiama semplicemente “Capitolo quarto”; con il quinto Forster torna a modalità più consuetudinarie (“Possibilità di una scampagnata piacevole”); poi però si scatena nel sesto, che intitola “Il reverendo Arthur Beebe, il reverendo Cuthbert Eager, il signor Emerson, il signor George Emerson, la signorina Eleanor Lavish, la signorina Charlotte Bartlett e la signorina Lucy Honeychurch escono per una passeggiata in carrozza e per ammirare un panorama: li conducono degli italiani”, seguito da un settimo capitolo da cui ci si aspetterebbero altrettanti fuochi d’artificio e che è intitolato invece icasticamente “Ritornano”.

Un altro esempio del suo sguardo divertito sulla realtà e sulla finzione? Nel peraltro serissimo trattato Aspetti del romanzo a un certo punto Forster si scaglia, con britannico umorismo, contro la consuetudine di molti scrittori di far incontrare i loro personaggi a tavola, anche quando ciò non sarebbe necessario dal punto di vista dell’andamento narrativo. Nota sapidamente Forster che il fatto di farli mangiare insieme a tutti costi “è una maniera per riunire i personaggi, i quali però di rado ne hanno fisiologicamente necessità”; anzi, quanto alle necessità fisiologiche, prima fra tutte la digestione, ai personaggi è richiesto normalmente di celarle. Come a dire: se lo scrittore ha fame, vada pure a mangiare, ma non costringa i suoi poveri personaggi, che magari in quel momento hanno tutt’altro per la testa, alla stessa corvée. O per parafrasare ulteriormente: noi scrittori abbiamo il compito di raccontare la vita, non di aggiungere altre sciocchezze e banalità a quelle che l’esistenza già ci propina.

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