Manuela D'Aguanno
Una storia inedita

Un giorno, il falò

«C’è qualcosa di più triste? Pensai. Più triste di questi bambini travestiti che se vanno in giro, accompagnati da genitori stanchi, col piumino sopra al vestito delle favole? Al massimo un po’ sbottonato se non fa troppo freddo...»

Sbucava fuori solo il muso. Due grosse e lunghe mandibole verdi, aperte abbastanza da mostrare quelli che avrebbero dovuto richiamare alla mente dei denti grossi e spaventosi. Che di pauroso avevano davvero poco però. Neppure appuntiti erano, ma con le estremità arrotondate. Una lingua rosa scuro che usciva dalla bocca, sospesa a mezz’aria. Gli occhi gialli, a palla. E squame bitorzolute che mi fecero venire in mente quel tubero dal nome strano che ha un sapore a metà tra il carciofo e la patata. Lei lo cucina spesso. Soprattutto nelle occasioni speciali. Chissà, forse lo avrei trovato a cena anche stasera.

Invece era un coccodrillo. O meglio il pupazzo di un coccodrillo. Girando l’angolo ne potevo scorgere il corpo per intero, con la lunga coda tirata su, quasi come quella dei gatti quando sono contenti. Quasi.

Dopo la serata del martedì grasso di qualche tempo prima, era stato abbandonato lì, in quell’ampio pezzo di prato, assieme ad altri resti carnevaleschi.

C’erano anche un piccolo tendone da circo, a strisce bianche, rosse e blu, di forma esagonale, con una bandierina sulla sommità, e un’enorme bobina cinematografica, alta almeno un metro e mezzo, di quelle che si usavano una volta, accanto ad una scatola di cartone dipinta di bianco con su scritto in stampatello CINE POP CORN. Mi sono venuti in mente gli anni Ottanta. I Goonnies. E, più recenti, i ragazzi di Stranger Things.

Ecco, sembrava proprio la scena di una serie tv tipo questa. Se fosse uscita fuori dal terreno qualche strana creatura bavosa oppure fosse spuntato da dentro il tendone qualche ragazzino eccitato e in fuga, forse non mi sarei stupito più di tanto. Il contesto si prestava alla perfezione. Avrei potuto benissimo trovarmi in una di quelle località americane fuori città, una di quelle piccole cittadine che fanno spesso da sfondo a storie come queste. Invece ero solo a pochi minuti da casa. Di ritorno dal lavoro.

Le giornate si stavano già allungando: il sole ero basso ma il cielo ancora abbastanza luminoso. Celeste e giallo, ecco come. Guidavo piano. E ripensavo a ciò che lei mi aveva detto a pranzo. L’angoscia che mi aveva preso all’inizio si era trasformata durante il tragitto in rabbia, anche se non sapevo bene verso chi. E più mi avvicinavo a casa, più sembrava aumentare. No, non possiamo. Non voglio. Pensavo. Poi però il muso del coccodrillo mi ha distratto. Ho deviato dalla strada asfaltata senza pensarci troppo, ho fermato la macchina lì, in mezzo al prato, e sono sceso. Solo qualche metro più avanti, sulla sinistra, si imbocca la stradina che porta a casa nostra.

Tutt’intorno, sparsi qua e là, a penzoloni o buttati alla rinfusa sulla piattaforma di ferro, una di quelle con le ruote, su cui tutto poggia, compreso il coccodrillo, ci sono alcuni lunghi festoni colorati di carta velina. E accanto al tendone, abbandonata, una piccola bicicletta dalle ruote sgonfie, forse bucate, e delle poltroncine di plastica giallo scuro, sporche o consumate non avrei saputo dire, di quella che doveva essere una giostra rotta. Un calcinculo forse. Resti di una passata recente allegria. Immagini che rappresentavano bene ciò che sentivo dentro, in quel buco in fondo allo stomaco. Ma quella, di allegria, quella che doveva essere passata di lì qualche giorno prima, proprio non riuscivo a trovarla, neppure nel ricordo immaginato.

Rivedevo passare il carro (che in realtà non avevo visto), sentivo la musica metallica e rumorosa della banda, le trombe, i piatti, vedevo la gente sorridere e fare foto, i bambini divertirsi. Eppure l’allegria che questa casuale testimonianza avrebbe dovuto portarmi alla mente non la trovavo. Non c’era.

Molto chiara era invece quella che avevo avuto dentro fino all’ora di pranzo. Poi mi chiama lei. Mangiamo insieme? Devo dirti una cosa, amore. Amore. Già. Perché io la amo. Mica l’ho sposata per caso. E dopo tutti questi anni sono contento di mangiare fuori insieme anche se vivendo sotto lo stesso tetto lo facciamo praticamente a casa tutti i giorni. Certo. Che mi devi dire? Una cosa. Cosa? No, per telefono no. E aveva ragione.

* * *

Mi metto le mani in tasca perché comincia a fare freddo, e inizio a camminare intorno alla piattaforma arrugginita. Il sole all’orizzonte è quasi a metà.

Zorro (perché Zorro è immortale), sirenette e fate, supereroi, tipo Cosa – l’uomo di pietra dei Fantastici Quattro – o Hulk, personaggi di quel cartone disneiano con una principessa di ghiaccio che va di moda adesso. Questo vedevo. Ragazzine mezze truccate, col rossetto rosso o rosa, le guance illuminate da un fard acceso e una linea scura e fatta male sopra gli occhi. Dio! C’è qualcosa di più triste? Pensai. Più triste di questi bambini travestiti che se vanno in giro, accompagnati da genitori stanchi, col piumino sopra al vestito delle favole? Al massimo un po’ sbottonato se non fa troppo freddo. Ne azzera tutta la bellezza. Tutta la magia. Una spalla del cappotto tirata giù, il cappello o la corona sbilenchi, il trucco colato perché magari poco prima hanno pianto, la spada di plastica rotta. E fotografie in posa di quelle che da grande ti chiederai perché?. No, non me la ricordo l’allegria di questi pomeriggi umidi di fine febbraio. E non ci riesco neppure se torno indietro nel tempo. Il carnevale mi piaceva, di sicuro. L’idea del vestito, di travestirsi, i coriandoli, gli scherzi. Bello. Ma era, è, non so perché, una bellezza triste. Una triste felicità. Forse proprio perché non c’è niente di vero. Perché carnevale in fondo è di cartapesta. E dura poco. Gli diamo fuoco, no? Lo uccidiamo. È la Realtà che con quel falò si riprende il proprio spazio. Forse è proprio quello che è successo anche a me poche ore prima.

Quando Lea arriva e si siede al tavolo che ho prenotato è raggiante. Me ne accorgo non perché sorride, ma perché le brillano gli occhi.

Allora? Non risponde subito. Mi prende le mani e le stringe forte. Poi mi guarda dritto, in fondo agli occhi, come solo lei riesce a fare.

Sono incinta.

Falò. Fiamme alte. E tutto brucia.

Come?

Sono incinta.

E adesso le sorridono pure le labbra. Le mie invece sono pietrificate in un segmento nero. Incinta? Si accorge che sono turbato, scosso, almeno credo. Io sento occhi e tempie che pulsano. Allora allontana le mani.

Sì. Perché non sei contento?

Certo. Sì, certo. Certo che sono contento. Solo che… Che non me l`aspettavo.

Ora non sorride più neppure lei.

È tutto ok, dico. (Ok?). Ma vorrei aggiungere: e adesso? Invece dico: stai bene?

Stiamo bene, risponde lei, calcando con la voce su quello “stiamo”, senza alzare gli occhi dall’insalata che intanto ha iniziato a mangiare. Anzi no. A torturare.

È tutto ok, dico di nuovo, come un cretino. Ma a sorridere no, quello proprio non ce la faccio. E intanto penso: non siamo più soli.

Uno strappo. Pochi istanti ci sono voluti. Il tempo che fiato, corde vocali e bocca impiegano a dire due parole: sono incinta.

Mi accorgo che sta per piangere, allora d’istinto le afferro le mani, ma senza forza. Fingo a fatica un sorriso stavolta. Lei ci crede. Ci vuole credere. E, allungandosi sul tavolo, mi bacia. Io sono talmente rigido che non mi muovo di un millimetro verso di lei.

Uno strappo. Lo sento, perché mi ha squarciato il petto. L’ho sentito, dopo, ogni volta che ho respirato. Non posso. Non voglio.

* * *

È una giostrina. Le sedie di plastica abbandonate sono parte di una giostrina da parco, una di quelle che girano in tondo sospinte a mano da una ruota centrale. Non è un calcinculo. Anche se, e solo in quel momento mi torna in mente, quando non ero più tanto piccolo, con alcuni amici ci divertivamo a farla girare all’impazzata. Come fosse davvero un calcinculo. Giravamo la ruota di ferro con tutta la forza che avevamo nelle nostre braccia giovani e esili ma energiche, poi la lasciavamo andare. E quella ruotava a tutta velocità. Che divertimento! Mi sembra di sentire ancora il vento in faccia e il dolore ai lati delle cosce perché il sedile era troppo stretto per quelle natiche ormai da adolescente. A volte rischiavamo addirittura di ribaltarci tanto andavamo veloci. Roba da ridere. Davvero.

A questo penso mentre mi aggiro in mezzo a quei rottami. Si, proprio in mezzo, perché nel frattempo ci sono salito sopra, a quella specie di piattaforma. L’erba ha già iniziato a fargli la corte: vedo dei fuscelli verdi spuntare da qualche buco della pedana.

Il coccodrillo è poco più in là e sembra guardarmi attraverso la piccola pupilla nera a forma di punto. Muto. Eppure le fauci sono spalancate. Ma chi vuoi spaventare? Mi verrebbe da dirgli. Non ci crede nessuno che sei cattivo. E intanto mi avvicino. Mi metto con la faccia di fronte a quel muso mezzo scolorito. Chi vuoi spaventare? Da lontano non mi ero accorto di quanto fosse rovinato. È pieno di graffi e gli manca un pezzo d’orecchio. Dentro la bocca c’è addirittura qualche foglia secca, portata dal vento, un paio di piccoli insetti morti e un pezzetto di carta arrotolata. A vederlo così, quel vecchio pupazzo, mi sale su una tale rabbia, una tale tristezza che non riesco a contenerla. Scoppio a piangere di botto, come fosse un’esplosione che mi parte dal petto, perché quel nodo in gola non ce la faccio più a trattenerlo. Davanti a quel finto predatore, seduto sui talloni e intirizzito dal freddo, piango come fossi tornato bambino. Pensi di spaventarmi? Gli urlo mentre inizio a prenderlo a calci. Pensi che abbia paura? Ed è così, in quel modo, che mi accorgo che dondola. Il coccodrillo dondola, perché invece di spostarsi o contrastare la violenza dei miei calci, pende con forza in avanti e subito dopo torna bruscamente indietro.

Mi asciugo gli occhi con la manica della giacca e osservandolo meglio mi accorgo che il corpo del pupazzo è sorretto da una massiccia struttura di metallo, come due mezzi archi messi al contrario incastrati sopra due stecche di ferro piatte. E’, con ogni probabilità, il pezzo di una giostra più grande.

Allora spingo con la mano verso il basso sulla coda rizzata. Dondola. Faccio la stessa cosa sopra la grossa testa nodosa. Dondola. Ci metto un attimo a montarlo cavalcioni sulla groppa come fosse un cavallo e, senza pensare a nient’altro, inizio a dondolare pure io assieme a lui, dandomi la spinta con le gambe ben piantate a terra. Lento, all’inizio. Poi tastando trovo in basso dei poggia piedi e ci punto sopra i talloni.

Sento proprio come allora il vento in faccia, che sulla pelle bagnata appare ancora più freddo. Sono di nuovo troppo grande e il sedile è di nuovo troppo piccolo. E vado talmente veloce, anche adesso, che di tanto in tanto sobbalzo con violenza rischiando di cadere.

Roba da ridere. E pure ora. Rido. Rido. Rido.

* * *

Quando salgo in macchina per andare via mi dico che i ragazzini si divertono comunque perché lo sanno. Il carnevale brucia e loro ridono. Non hanno paura delle fiamme. Perché quel falò in fondo, questo sanno, non è la fine. Ma l’inizio.

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