Andrea Di Consoli
Primo maggio/1

Sud senza lavoro

Ottiero Ottieri, Tommaso Di Ciaula, Ermanno Rea: tre punti di vista sul lavoro (e sulla vita di fabbrica) nel Mezzogiorno. Tre autori da rileggere per capire come la “coscienza operaia” non trovi spazio di vita in quel pezzo d'Italia

Per questo 1° maggio 2020, festa dei lavoratori, vorrei abbozzare una riflessione sul rapporto tra Sud Italia e industria; e vorrei farlo a partire da tre romanzi secondonovecenteschi che, proprio su questo tema, hanno espresso punti di vista problematici di straordinaria importanza letteraria e sociologica.

Inizierei da Donnarumma all’assalto (1959) di Ottiero Ottieri, ambientato negli stabilimenti Olivetti di Pozzuoli. Il tema principale del libro è, a mio avviso, la difficoltà di “innestare” la cultura industriale nella cultura rurale del Mezzogiorno. Non che la vita in fabbrica sia, in generale, una passeggiata – la fabbrica è anche luogo di alienazione, di sfruttamento, di nevrosi, di frustrazione, ecc. –, ma il Sud Italia è sempre stato abbastanza refrattario a questo tipo di organizzazione del lavoro e alla mentalità industriale. Per quale ragione?

Nel libro di Ottieri (nella foto) emerge chiaramente come la ricerca del lavoro nel meridionale corrisponda principalmente a un bisogno di sussistenza anziché a un’esigenza di emancipazione e di crescita civile. Donnarumma vuole a tutti i costi il posto in Olivetti, e lo pretende in virtù di un bisogno, di una necessità che trascende qualsiasi elemento di valutazione professionale. La “genericità” di Donnarumma è un elemento ancora diffuso, anche se pure al Sud si è successivamente formata, sia pure in maniera discontinua e con delle profonde refrattarietà, una consistente cultura operaia. Questo elemento antropologico s’intreccia con il problema del rigetto da parte del territorio meridionale nei confronti delle industrie, che spesso sono state vissute – ma è un fenomeno ancora vivo – come “cattedrali nel deserto”, come “mostri” “calati dall’alto”, come idre assassine (si pensi all’Ilva di Taranto). Quasi tutti i meridionalisti sono convinti che bisogna rispettare le vocazioni produttive dei territori, in tal modo condannando la grande industria a corpo estraneo da espellere o da guardare con sospetto o, al massimo, con rassegnazione.

Spesso si dice che il motivo di tale refrattarietà sia da rintracciare nella forza tellurica di una civiltà contadina superstiziosa difficilmente assimilabile nella moderna cultura industriale. La mia lettura è leggermente diversa. Io penso che a quell’altezza storica – siamo nella metà degli anni ’50 – i meridionali più dinamici e più attratti dalla vita moderna fossero già emigrati al Nord, presso il triangolo industriale, lasciando in loco i lavoratori più conservatori e “lenti”, quelli meno propensi a un così difficile cambio di mentalità. Insomma: i migliori operai meridionali erano già andati al Nord, e al Sud erano rimasti quelli meno propensi ad abbandonare ritmi, ideologie e abitudini di taglio rurale e familiare.

Questo è un problema che attraversa costantemente tutta la storia economica del Mezzogiorno dal dopoguerra a oggi. Tant’è che il Sud è sempre stato costretto a costruire il proprio tessuto produttivo in assenza della parte migliore della propria forza-lavoro, da sempre attratta dalla ricchezza e dall’efficienza del sistema industriale del Nord. Mentre il Nord diventava sempre più forte anche grazie agli operai meridionali, la grande industria “calata” al Sud faticò non poco a formare una classe operaia all’altezza di quella del Nord.

A questo fattore ne vanno aggiunti altri di non minore importanza: la natura pubblica del sistema industriale del Sud (con tutto quello che ha comportato in termini di inefficienza e di clientelismo), la lontananza dai mercati dell’Europa centrale e una cultura sociale, benché attraversata da tante correnti innovatrici, sostanzialmente conservatrice e diffidente verso la modernità (la fabbrica era anche emancipazione culturale, non solo benessere economico).

Ci aiuta a capire meglio come viveva concretamente un operaio meridionale in una grande fabbrica del Sud il romanzo autobiografico Tuta blu (1978) di Tommaso Di Ciaula (nella foto), che testimonia in presa diretta i furori, le nostalgie, le rabbie, gli ardori e le frustrazioni di un operaio barese degli anni ’70. L’operaio di Di Ciaula la fabbrica non la ama; anzi, ci sta dentro come un leone in gabbia. Il suo furore è tutto poetico, tanto che non fa altro che ricordare con nostalgia l’infanzia campestre, la bellezza della natura, i rapporti veri e sinceri della famiglia. Il libro è una narrazione-fiume di un operaio della “Catena Sud” di una squallida periferia barese pervasa dai miasmi degli scarichi industriali e dai tanfi di un “mare guasto”. L’operaio di Di Ciaula è arrabbiato: lo indignano il servilismo dei capireparto, il voltafaccia dei delegati sindacali, la violenza dell’industria sul paesaggio contadino, il lavoro coatto, i bagni senza porte. Ma l’operaio di Di Ciaula ce l’ha anche con i teorici della classe operaia, con quei funzionari di partito e con quegli intellettuali che parlano continuamente di fabbrica e di classe lavoratrice senza sapere minimamente di cosa si tratti.

Ecco, questo “furore” non è soltanto un guizzo della vulcanica fantasia di Di Ciaula, ma un dato comune di tanti operai del Sud, che hanno vissuto e vivono ancora il lavoro in fabbrica come una “deportazione”, una violenza, un ripiego frustrante. Anche al Nord la classe operaia si rivolta e si è rivoltata con durezza, ma quasi sempre con una razionale organizzazione sindacale, con una strategia condivisa, e non con una inconcludente rabbia individuale che raramente si fa progetto comune. Il malessere dell’operaio meridionale sembrerebbe ancora più malessere, e questo anche a causa di una scarsa cultura sindacale, visto che al Sud, per penuria di lavoro, «se hai un lavoro devi baciare a terra».

Il terzo romanzo che ci aiuta a capire il naufragio della grande industria al Sud – naufragio di cui stiamo assistendo in questi anni le ultime drammatiche manifestazioni – è La dismissione (2002) di Ermanno Rea (nella foto), che rievoca con lucido struggimento lo smantellamento dell’Italsider di Bagnoli. Perché tanto struggimento? Perché Bagnoli ha rappresentato il tentativo – in specie in area comunista – di trasformare la plebe napoletana in classe operaia, ovvero in classe detentrice di diritti e di dignità salariale. Questo sogno, dopo qualche decennio, è fallito, e oggi al posto dell’Italsider c’è un’immensa area incompiuta, nulla che abbia sostituito le prospettive di emancipazione di quella grande fabbrica, che aleggia tutt’oggi come un fantasma insepolto.

Leggendo questi tre grandi romanzi italiani “industriali” è evidente che il matrimonio tra industria e Sud non è mai del tutto riuscito. A questo va aggiunto anche una crescente cultura ambientalista, e una problematica divaricazione tra altamente specializzati, che molto spesso emigrano, e bassamente scolarizzati, che spesso preferiscono lavorare in nero o accontentarsi di sussidi statali.

Tuttavia io sono convinto che bisogna al più presto riaprire una grande discussione sull’industria manifatturiera nel XXI secolo, magari per provare a capire se rimodulata differentemente – per esempio utilizzando i grandi avanzamenti tecnologici, anche nell’organizzazione del lavoro – l’opzione industriale possa ancora essere una strada percorribile per lo sviluppo economico del Sud. Anche perché è ormai evidente a tutti che con il solo comparto turistico, agricolo, agroalimentare, enogastronomico e culturale il Pil del Mezzogiorno rimane basso, costringendo decine di migliaia di giovani e meno giovani a emigrare.

Quando l’Italia ripartirà dopo questa grave recessione economica, sono certo che tanti pregiudizi ideologici verso l’industria si attenueranno. Personalmente penso che lavorando tutti insieme – industriali, multinazionali, governi, regioni, sindacati, intellettuali, ecc. – il matrimonio tra industria e Sud possa ancora essere salvato. Infine, il mio auspicio è che anche gli intellettuali possano essere in futuro meno ideologici e più realisti, ovvero meno “anime belle”.

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