Marco Bruno
Letture poetiche

Le strade di Baudelaire

Camminare, pensare e scrivere: nei versi di Baudelaire la Parigi sognata e vissuta diventa l'orizzonte della vita possibile. Un monito e un invito per noi che oggi confondiamo solitudini e paesaggi

La strada che fa sordi intorno a me berciava.
Puntata al cielo, snella, nel pèlago del lutto, dolore maestoso,
Trascorse una donna, che con gesto fastoso
Il merletto e la piega sollevava e ondulava;

Mobile, nobile, e la gamba di statua pareva.
Io bevevo, raggricciato come un tipo originale,
Nel suo occhio – cielo senza luce, culla dell’uragano –
La dolcezza che seduce e il piacere che è fatale.

Un lampo… poi la notte! – Fuggitiva beltà
Dallo sguardo che m’ha fatto rinascere d’un tratto,
Non ti vedrò più dunque che nell’eternità?

Altrove, lontanissimo! fuori tempo! forse mai!
Perch’io ignoro ove tu fugga, tu dove sia io diretto,
O tu che avrei amato, tu che sapevi e non lo sai!

(Charles Baudelaire, A une passante, ne Les fleurs du mal)

Il ritrovato (?) piacere di scrivere, questa volta su Baudelaire, nell’aridità di un risveglio indotto, mattino tremante di poesia. Fuori, Cracovia brilla, e mi sembra incredibile dovermi “sostituire” allo straordinario Léo Ferré per accompagnare il grande poeta francese, per cantarne il canto.

Cosa può essere la febbre e l’aridità di una grande città. Tornare a ciò che è piccolo. Il cinema.

Parigi è qualsiasi città. Parigi è una città qualsiasi, o qualsiasi città. Paradigmatica, assoluta, ungarettiana, caproniana come la poesia di Baudelaire, unica come in Cendrars. L’innominata, l’innominabile, il sogno, l’incubo. In questa prospettiva aerea, o comunque totale, Baudelaire scende nel dettaglio: la sua discesa agli inferi avviene per forza di gravità: Baudelaire scende nella quotidianità. Un uomo, una donna. Lelouch. La ragazza di Ipanema di Jobim e Vinícius de Moraes. Le Euridici moderne di Czesław Miłosz. Gli arabesques assenteiformi (“Memorie senza passato”, 2005) dei Debussy, Ravel, Herrmann del sottoscritto. La poesia di Cesare Pavese. E ancora. È tutto già qui, in un ritaglio che illumina e brucia. Baudelaire è nella camera oscura ed è il personaggio ritratto. Una scena – attenzione alla parola – vissuta mille volte. La vita come cinema. Isolare una parte del reale, farla propria, viverla, escludendo il resto, diventarne protagonista, vivere per fotogrammi, senza riuscire mai a entrare nella storia, ma rimanendo immagine.

Ma quella della città è anche un’epica moderna, dove l’amore viene messo sotto il naso e negato ovunque. L’epica della casualità o del destino, degli spazi condivisi, degli incroci fatali e fatati. L’epica dell’emozione di un minuto, quella che avvampa e incenerisce e decreta la solitudine: l’eternità che passa e rimane.

Viene in mente anche Whitman: “Vi era un bambino che usciva ogni giorno, / E il primo oggetto che riguardava, quello egli diveniva, / E quell’oggetto parte di lui diveniva per il giorno, o una parte del giorno, / O per molti anni, o lunghi cicli di anni. // I primi lilla divenivano parte di quel bambino, / E l’erba, i convolvoli bianchi e rossi…[…] I suoi genitori, colui che l’aveva generato e colei che l’aveva concepito nel suo seno e l’aveva messo alla luce, / A questo bambino avevano dato ben più di questo soltanto, / E a lui continuarono a dare ogni giorno, e divennero parte di lui. […]…la linea dell’orizzonte, il volo del cormorano, l’odore del marazzo, del brago sulla riva, / Tutto questo divenne parte di quel bambino, che usciva ogni giorno, ed esce tuttora, e sempre uscirà ogni giorno.” (Walt Whitman, da Vi era un bambino, in Ruscelletti autunnali, in Foglie d’erba, edizione integrale, Versioni e prefazione di Enzo Giachino, Einaudi)

“Io bevevo, raggricciato come un tipo originale…”

Guardate, Baudelaire ci invita, come Chaplin… siamo sullo schermo e siamo in platea.

La folgorazione. Il tempo viene preso e sbattuto sulla pagina. Tutto è fermo; ma il soggetto non ha la fermezza. In questo “congelamento” vediamo muoversi l’universo. E l’universo è una donna che ruota intorno a un uomo che ruota intorno a una donna. Ma non possono incontrarsi, altrimenti la poesia, il pretesto di questa poesia, di questo tipo di poesia, di questa epoca della poesia – che non è soltanto moderna, o lo è nel risalire alle fonti medievali, umanistiche, della modernità – non esisterebbe, non sussisterebbe. Questa poesia si nutre del Canzoniere di Petrarca e della Vita nuova di Dante. Cos’è il reale? – o, agli antipodi – Cos’è la realtà? Una donna, un personaggio muto, che semplicemente è (Esse, in latino, s’intitola il testo di Czesław Miłosz), rimette queste categorie in discussione.

“E quel volto celeste, e quella bocca, / Già tanto desiata, e per molt’anni /Argomento di sogno e di sospiro, / Dolcemente appressando al volto afflitto / E scolorato dal mortale affanno, / Più baci e più, tutta benigna e in vista / D’alta pietà, su le convulse labbra / Del trepido, rapito amante impresse. // Che divenisti allor? quali appariro / Vita, morte, sventura agli occhi tuoi, / Fuggitivo Consalvo?” (Leopardi, da Consalvo, in Canti)

È “l’amor che move il sole e l’altre stelle” (Dante, Paradiso, v.145)

Un fotogramma – Oh Fritz, did you get lost? those toy images have fooled you, now you are in a dead-end street with your face against the wall / turn around and trust your eyes again, they are not on your back le immagini in movimento… le immagini in movimento… possono ancora fare ciò per cui sono state inventate… possono ancora COMMUOVERE. (citando imperfettamente il finale di Lisbon story di Wim Wenders)

La giornata che nasce e trascorre (“In ogni giornata sta la vita intera. Deve aprirsi un varco dentro la giornata, come un giovane gatto che goffo si sfili dall’albero.” Traduzione da Adam Zagajewski, Il notes arancione, in Asimmetria, ediz. a5, Cracovia 2014), che viviamo, è una visione in attesa e alla ricerca di una visione, o frutto di una delusione della stessa. La vita diventa film che diventa vita. Le ballate… quelle provenzali, quelle iberiche, quelle britanniche e irlandesi…

Sta passando una donna, stanno passando tutte le donne della storia dell’uomo, e nessuna donna. E perché sono irraggiungibili? “Il bel romanzo che non fu vissuto” (Guido Gozzano). La donna è perdizione? La donna è perduta? Angelo che scende, riscatto-asintoto, l’incontro avverrà all’infinito… La donna è perdita, ritrovamento, morte, resurrezione… “Sono entrato dal barbiere nel modo abituale, con il piacere derivante dall’essermi facile entrare senza costrizione nelle botteghe conosciute. La mia sensibilità per il nuovo è angosciante: sono calmo solo dove ho già passato del tempo.

Quando mi sono seduto sulla poltrona, ho chiesto, per un groviglio di oscuri fattori occasionali che improvvisamente parlano di un passato, al garzone che andava disponendomi sul collo un lino freddo e pulito, come stesse il collega della poltrona alla mia destra, più grande e dotato di spirito, che era malato. Gliel’ho chiesto senza che mi pesasse la necessità di chiedere: mi è capitata l’opportunità in virtù dell’ambiente e della rimembranza. ‘È morto ieri’, ha risposto senza tono la voce che si trovava alle spalle dell’asciugamano e di me, e le cui dita si ergevano dall’ultimo inserimento sulla nuca, fra me e il colletto. Tutto il mio buonumore irrazionale è morto improvvisamente, come il barbiere eternamente assente dalla poltrona accanto. Si è fatto freddo in tutto ciò che penso. Non ho detto niente.

Sentimenti di mancanza! / Desideri di rivedere! [‘Saudades!’ scrive Pessoa, parola chiave: saudade fonde il latino solitāte (da cui lo spagnolo soledad), cioè solitudine, con saúde, cioè salute: la definizione scientifica è ‘sentimento malinconico causato dall’assenza o dalla scomparsa di persone o cose cui si era affettivamente molto legati, per l’allontanamento da un luogo o da un’epoca, o per la privazione di esperienze gradevoli vissute precedentemente’ (Dicionário da língua portuguesa)] Ce li ho addirittura di ciò che per me non è stato niente, per una angoscia di fuga del tempo e un male del mistero della vita. Facce che vedevo abitualmente per le mie strade abituali – se smetto di vederle mi rattristo; e non sono state nulla per me, se non il simbolo di tutta la vita.

Il vecchio insignificante dalle ghette sporche che m’incrociava spesso alle nove e mezza del mattino? L’ambulante zoppo che vendeva biglietti della lotteria, che mi seccava inutilmente? Il vecchietto rotondo e rubicondo col sigaro sulla porta della tabaccheria? Il proprietario pallido della tabaccheria? Cosa sarà mai stato di tutti loro, i quali, per averli io visti e rivisti, sono stati parte della mia vita? Domani anch’io mi dissolverò da via da Prata, da via dos Douradores, da via dos Fanqueiros. Domani anch’io – l’anima che sente e pensa, l’universo che sono per me stesso – sì, domani anch’io sarò colui che ha smesso di passare per queste strade, colui che altri vagamente evocheranno con un ‘che fine avrà fatto?’. E tutto ciò che faccio, tutto ciò che sento, tutto ciò che vivo, non sarà più che un passante in meno nella quotidianità di strade di una città come un’altra.” (Fernando Pessoa come Bernardo Soares, Livro do desassossego [Libro dell’inquietudine], a cura di Richard Zenith, frammento 481 [ultimo di questa edizione, quindi posto come finale del libro], pag. 418, Assírio&Alvim, Lisbona 2001)

Inquadrare; isolare; universalizzare.

E mi lascio portare via da te, immagine di tutta la vita…

È il tempo della città – la città come tempo e come intersezione di tempi, come illusione di tempo, convivenza e conflitto di orologi, tempo di Dio, tempo che Dio è, che a Lui appartiene, celebrazione del tempo – è il tempo della città a portare Laura al Poeta. Ci vuole tempo perché Laura appaia, ed è nel tempo che Laura scompare. Questo è il moderno. Questa è l’innovazione anche di Baudelaire. La città / Benjamin. Perché la donna – ogni donna – è nascita di un Poeta. È la distanza, l’intimità del sogno, l’eterna fedeltà d’amore, a creare la poesia. Lo sguardo è promessa. Beatrice collega lo sguardo del Poeta a quello di Dio. La distanza è necessaria all’incontro. Laura, inestinguibile finché è nella voce del Poeta, non appaga, invece mai il Poeta. Il concetto petrarchesco di felicità è leopardiano ante litteram. Baudelaire deve restare seduto; la donna, anonima e unica, deve passare come la vita e il mondo. Ma fermarla significa fermare la vita e il mondo, familiarizzarsi con essi, in un appagamento che, ontologicamente, è continuamente rimandato. “Ma il mio mistero è chiuso in me…” (Turandot).

Nominalmente: il carattere funebre dell’estetismo (Wilde, Huysmans, d’Annunzio, Pirandello, Svevo), che viene scompaginato dall’insorgere del sentimento vero, che però è invivibile. Il concetto di reale viene scompaginato: perché Baudelaire non può scegliere, né vivere, né nel reale né nella sua rappresentazione. L’amore diventa irreale – delegato all’indifferenza di una creatura; mentre “incubo era l’eternità” (António Osório).

Orfeo ed Euridice. In Baudelaire, a differenza che nel mito, la prospettiva è orizzontale, ma la creatura che scorre (puntata al cielo e nel pèlago del lutto), che scorre come una pellicola, e che è risucchiata dalla strada, appartiene già, contemporaneamente, agli inferi e al cielo. La pulviscolarità e la tentacolarità della città sono la cifra, e il nome, e il pretesto della paura di vivere di Orfeo, che guarda indietro per non guardare avanti, perché il mito della rivivibilità del “trascorso” (ma ha ragione Jankélévitch) lo seduce. E la paura di vivere vuol dire Novecento, modernità, futuro. Un futuro che forse, gradualmente, sta cambiando. Perché la sete, la fretta – e l’accidia si escludano a vicenda.

Il non sapere… è la condizione della vita. Io ignoro ove tu fugga, tu dove sia io diretto… io ti avrei amato… e tu ti porti dentro, via, il mio, il nostro futuro passato, sempre futuro sempre passato; perché siamo divisi dalla stessa acqua che ci accomuna: la paura. “Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, da chiuso morbo combattuta e vinta, perivi, o tenerella. E non vedevi il fior degli anni tuoi; non ti molceva il core la dolce lode or delle negre chiome, or degli sguardi innamorati e schivi; nè teco le compagne ai dì festivi ragionavan d’amore.” (Leopardi, A Silvia).

“Stavo scrutando attentamente quel volto, sbalordito. Accanto correvano le luci della stazione della metropolitana, non le notavo. Cosa si può fare, se la vista, lo sguardo non ha una forza assoluta, per poter attrare e risucchiare gli oggetti coll’inebriarsi della velocità, lasciandosi dietro ormai soltanto il vuoto della forma ideale, un segno, quasi un geroglifico, che è la semplificazione del disegno di un animale o di un uccello? Il naso leggermente altero, la fronte alta coi capelli pettinati lisci, la linea del mento – ma perché lo sguardo non ha una forza assoluta? – e in un bianco tendente al rosa delle cavità intagliate, nelle quali scura sfavilla la lava. Assorbire quel volto, ma contemporaneamente averlo sullo sfondo di tutti rami primaverili, dei muri, delle onde, nel pianto, nel riso, nel farlo retrocedere di quindici anni, nello spingerlo in avanti di trent’anni. Avere. Addirittura non come possesso. Come una farfalla, un pesce, il fusto di una pianta, ma una cosa più misteriosa. Questo mi è capitato, che dopo tante prove di definizione del mondo so solo ripetere all’infinito la più alta, unica confessione, oltre la quale nessun potere può arrivare: io sono – lei è. Gridate, soffiate nelle trombe, create migliaia di cortei, saltate, strappatevi i vestiti, ripetendo questa sola cosa: è! E a che pro sono state scritte così tante pagine, tonnellate, cattedrali di pagine, se io balbetto, come se fossi il primo ad essere emerso dalla creta argillosa sulle rive dell’oceano? A cosa sono servite le civiltà del Sole, la polvere rossa delle crollanti città, le armature e i motori nella polvere dei deserti, se non hanno aggiunto niente a questo suono: è?

Scese a Raspail. Rimasi con l’enormità delle cose esistenti. Spugna che soffre perché non si può riempire d’acqua, fiume che soffre perché i riflessi delle nuvole e degli alberi non sono nuvole né alberi. (Brie-Comte-Robert, 1954)” (C.Miłosz, Esse, in Wiersze rozproszone, sezione di Wiersze wszystkie, ediz. Znak, Cracovia, 2011)

© Marco Bruno per le traduzioni da francese, polacco, portoghese

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