Leopoldo Carlesimo
La prima parte di un racconto inedito

La cena di Esther

«Il periodo in cui era passata più vicino a quella che adesso definiva "trappola" erano stati i primi anni di matrimonio, quando ci avevano creduto davvero, lei e Linaldo, o quanto meno ci aveva creduto lei»

“Un caprone morto per fare pace… Che razza di uomo può offrire alla sua donna una carogna di  capra per fare pace?” Si disse Esther.

Cominciava a rinfrescare. Aveva lasciato la porticina sul retro aperta, il controtelaio a zanzariera impediva a insetti e altri animali di penetrare nell’interno. Fine novembre, la sera calavano i primi freddi dalle colline sopra Roghùn, Tajikistan. Sentì una corrente gelida carezzarle le caviglie e risalire lungo le gambe nude.

“Il mio uomo,” si disse, chiudendo la porta. “Il mio uomo è quel genere di stronzo capace di fare una cosa simile. E vantarsene, anche.”

Assaggiò il sugo. Il ragù doveva asciugare ancora un po’. Aveva tirato a mano la pasta sfoglia, stesa su un velo di farina sopra la tavola di legno. In forno cuoceva lentamente uno dei suoi arrosti.

Erano sposati da vent’anni, lei e Linaldo, ma continuava a chiamarlo ‘il mio uomo’. Non mio marito. Nemmeno in una delle rare oasi di pace coniugale che il loro matrimonio poteva incontrare, di quando in quando. No. Linaldo era sempre stato ‘il suo uomo’, marito non lo era diventato mai.

Naturalmente, questo valeva per Esther con se stessa. Quando parlava con le altre donne, designava correntemente Linaldo ‘mio marito’, come tutte. Avrebbe fatto un effetto eccentrico altrimenti. Ed Esther tutto voleva meno che fare un effetto eccentrico. Cos’avrebbero pensato se l’avessero sentita dirsi ad alta voce, come le capitava talvolta quand’era sola: “Ci sono passata abbastanza vicino, a quella trappola, non so per quale congerie di circostanze ho fatto a meno di cascarci dentro.”

Il periodo in cui era passata più vicino a quella che adesso definiva ‘trappola’ erano stati i primi anni di matrimonio, quando ci avevano creduto davvero, lei e Linaldo, o quanto meno ci aveva creduto lei e aveva fatto di tutto per costringere anche lui a crederci. Guardando adesso, retrospettivamente, quel periodo della sua vita, si stupiva di quella Esther. Non riusciva più a rientrare nella donna che era stata allora. Prima di incontrare Linaldo, fino alla trentina, era stata com’era lei: libera, emancipata, avventurosa, dura. Non c’era mai davvero stata, fino ad allora, la costruzione di una famiglia tra i suoi traguardi. E dopo il fallimento della fase intensamente matrimoniale, dopo quei tre anni – più o meno, tanto era durato quel periodo di straniamento, quella traversata in terra straniera in cui quell’altra se stessa aveva probabilmente amato, probabilmente desiderato un figlio e lo aveva di certo accanitamente cercato – dopo il tramonto di quell’altra se stessa, Esther era tornata la donna di sempre: tosta, oggettiva, pragmatica, spregiudicata. La donna che il tipo di vita nomade che s’era scelto le consentiva di essere. Era uscita dal personaggio, con in più un compagno. Un uomo accanto a lei, residuo di quell’esperienza, che le era rimasto appiccicato addosso e in fondo non peggiorava le cose. Anzi talvolta poteva dare una mano, era pur sempre un presidio contro la solitudine.

Già le sette. Tra poco sarebbero arrivati gli invitati. E Linaldo ancora non si vedeva… Fece un giro in sala, a controllare la scenografia. La tavola era apparecchiata, sei posti attorno alla finta stube su cui aveva steso la tovaglia buona – rossa, tessuto artistico del Tirolo, presa poco lontano da casa (dalla casa italiana, quella disabitata, a Feltre, nel bellunese) un po’ natalizia, forse, ma il Natale non era lontano – e i piatti e i bicchieri e le posate del servizio… In tutti gli alloggi di cantiere di cui aveva fatto di volta in volta casa, Esther s’era sempre ritagliata un angolo che un po’ le ricordava le sue parti, su in montagna. Anche nel caldo torrido dell’Africa sub-sahariana o nel Sud-Est asiatico, un cantuccio del suo prefabbricato aveva sempre somigliato a una piccola baita in trasferta dalle Dolomiti.

A questo vezzo di portarsi appresso un pezzo del suo guscio non ci aveva mai rinunciato. Pezzi sparsi, però, frantumi, niente di sano: mescolava, nell’arredo di quegli alloggi, la lampada di porcellana che pendeva sopra la stube, ai batik africani o asiatici appesi alle pareti, alle maschere e alle sculture in legno o in avorio che aveva raccolto un po’ ovunque, nel corso degli anni. Anche la casa di Feltre ne era strapiena. Nulla di pregio, mai. Solo roba d’accatto prelevata sui banchi di qualche sporco mercatino alla periferia di Abidjan o di Kuala Lumpur o di Delhi o il più delle volte di un miserabile villaggio di cui nessuno conosce il nome. Non cercava alcun valore in quella roba, salvo il fatto che fosse già stata presente in qualcuna delle sue case. Pezzi di quelle tane. Un po’ alla volta s’arenavavano tutti lassù, a Feltre, spinti dalla risacca dei suoi viaggi.

Relitti ammucchiati a sedimentare. La tavola era accogliente. Bicchieri di cristallo, tovaglioli, piatti e posate, vassoio d’antipasti, ciotole con le noci di burro che s’ammorbidivano al calore della lampada e pane affettato in piccole ceste di vimini – ottimo, il pane tajiko, c’è una tradizione di civiltà nei forni dell’Asia centrale – oltre al carrello dei cocktail che Linaldo aveva preparato prima di uscire, col secchiello del ghiaccio e i piattini di scorze d’arancia e di lime.

Passò a dare un’ultima occhiata al ragù, abbassò la fiamma e se ne andò in camera, a farsi la doccia, vestirsi e prepararsi a ricevere gli ospiti.

Vent’anni prima. Il posto era sull’altopiano etiope, un luogo sperduto duecento chilometri a sud di Addis, lungo quel corso d’acqua sul quale stavano costruendo una diga. Più precisamente, il posto era un grosso hangar di putrelle d’acciaio e lamiera, chiuso da muri in blocchetti di cemento e illuminato da tubi al neon, circondato da un’ampia yarda cintata di rete metallica e riempita di container, dove s’accumulavano le scorte del cantiere. Quello era il magazzino. Un fetido, puzzolente magazzino di un buco di cantiere in mezzo all’Africa. Eppure a Esther quel posto piaceva.

Ci lavorava ormai da due mesi, come contabile, quando un giorno entrò quel tizio. Uno piccolo di statura, con dei baffetti rossicci e certi modi energici e decisi. Poggiò i gomiti al bancone d’ingresso – la barra dove si consegnano i materiali, oltre la quale a nessuno che non lavori in magazzino è consentito spingersi – e chiese di quelle pompe. Il ragazzo, al banco, non seppe dargli una risposta. Nessuno degli altri addetti fu in grado di aiutarlo. Il capo magazziniere era in giro per la yarda a scaricare i container appena arrivati. Sicché Esther, anche se non era suo compito, s’alzò dalla scrivania e andò al banco a cercare di capire di che si trattava.

“Ho bisogno di quelle pompe,” disse l’uomo. “So che sono arrivate. Via aerea ad Addis, consegnate in cantiere ieri. Mi servono immediatamente. Abbiamo uno scavo che sta andando sott’acqua, giù al fiume.”

Esther interrogò i ragazzi. Sostenevano che le pompe non erano in magazzino, nessuno sapeva dove fossero finite. Lei andò in ufficio a prendere i registri. Sulle schede tutte le casse erano numerare e accanto ad ogni numero era annotata una sigla che indicava la posizione, sugli scaffali di magazzino, dove la cassa era stata riposta.

“Andiamo a controllare tutti gli arrivi di ieri,” disse all’uomo.

Infrangendo una delle prime regole di qualunque magazzino, lo fece entrare oltre la barra, all’interno dell’area di stoccaggio, quella vietata agli estranei. Lo guidò sicura tra gli scaffali metallici, spuntando dalla lista cassa per cassa. Dopo un po’ che giravano trovarono quella delle pompe. Per sbaglio, era stata collocata nel settore dei materiali da perforazione, invece che in quello dei materiali idraulici. Per questo i ragazzi non l’avevano trovata.

Esther gli fece firmare la bolla di scarico.

“Grazie,” disse lui in un certo modo. Caricò le pompe sul cassone del camion e se ne andò.

La sera c’era una festicciola al club. Niente d’importante, una bicchierata per salutare uno che lasciava il cantiere, ma ci trovò di nuovo quel tizio, solo, seduto su uno sgabello davanti al bancone del bar. La invitò a ballare. Bevvero parecchie birre, dopo, e quel tizio le disse che era stata brava, la mattina, efficace e decisa, l’aveva aiutato a risolvere il suo problema. Il complimento le fece piacere. Continuarono a parlare di lavoro e il tizio le fece altri complimenti, tutti legati al modo in cui gli sembrava che lei mandasse avanti le cose dentro quel magazzino. Così, dopo tutti quei complimenti di lavoro e dopo la quinta birra, quando scoccò la mezzanotte e il club chiuse, non le parve strano che finissero a letto.

Lo fecero nell’alloggio di lui e non fu niente male. Sicché la sera dopo replicarono e la sera dopo ancora e in breve Esther si ritrovò infilata in quella storia, legata a quell’uomo. Quello stronzo del suo uomo. Fu così che cominciò, con Linaldo. Almeno, questa – in estrema sintesi – è la maniera in cui se la dipingeva ora: una manciata di ricordi arraffati in fretta e abbinati assieme, come capi di vestiario scompagnati tirati fuori a caso da un armadio. Lo sentì rientrare. Uscì dal box-doccia e se lo trovò davanti, sgocciolante e nuda com’era, nell’ambiente minuscolo e surriscaldato del bagno. Stava in piedi davanti allo specchio appannato e si sbarbava.

Lei si truccò con cura, al tavolino da toilette della camera. Si vestì in modo un po’ fuori dall’ordinario.

I primi ad arrivare furono Toni e Bea, quei due ragazzi, puntualissimi alle otto spaccate. Esther fece appena in tempo a tirare su la lampo del vestito che aveva indossato per l’occasione – un abito bianco di organza, tagliato un po’ alla maniera delle tuniche etiopi, con la scollatura profonda e le pieghe abbondanti e lisce lungo i fianchi, che lei aveva guarnito con un’alta cintura chiusa da una fibbia d’oro rosso e dei mazzetti di fiori di garza viola sulle spalline – e a raggiungere, in sala, Linaldo che faceva entrare gli ospiti. Avevano portato una bottiglia di vino e lei, Bea, stava molto bene in quel tubino nero semplice, fin troppo corto, che metteva in mostra le gambe lunghe e affusolate da ventenne.

“Vieni a darmi una mano in cucina”, le disse Esther, mentre Linaldo offriva a Toni un aperitivo. A molte donne, in cantiere, Bea non piaceva. Inclusa Mara, la capa del personale. Le rimproveravano l’eccessiva indipendenza, i diversi compagni che aveva già avuto in pochi mesi di permanenza a Roghùn e soprattutto la storia con quel tajiko, quell’Asliddin – che poi non era neanche stata una storia, giusto l’avventura di una sera – che faceva rabbrividire le non numerose signore del cantiere. Non gliela perdonavano. Compativano Toni per la sua testardaggine.

A Esther invece Bea piaceva. Le ricordava la noncuranza intransigente che aveva dentro anche lei a vent’anni. E quei rigurgiti di rabbia che ogni tanto affioravano da sotto, sollevandola un palmo sopra terra. Nulla a che fare con la nostalgia o con qualche vago afflato di simpatia materna. No: il lontano odore di quella roba – l’attuale odore di Bea – le procurava ancora violente scariche di adrenalina. Provvidenziali. La guidò in cucina e le affidò l’arrosto da affettare.

—–

  1. continua
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