Alberto Fraccacreta
Primo maggio/3

Il lavoro del poeta

La poesia è un mestiere o no? Nei paesi anglosassoni, esiste la figura del “poet laureate”, mentre da noi la scrittura è derubricata a hobby. Leggete Philippe Jaccottet, oggi, per capire che le cose stanno diversamente

Mi ha sempre colpito come negli Stati Uniti i poeti siano tenuti in considerazione (probabilmente non eccessiva, ma comunque in una qualche considerazione). Esistono premi facoltosi e facondi — il Pulitzer, ad esempio — che immediatamente proiettano l’autore in un sistema istituzionale in grado di sostenerlo (economicamente). Nondimeno, un giovanotto che si è saputo fare strada può ambire a un finanziamento stabile molto tempo prima. Negli USA, infatti, assieme ai corsi normali in Humanities ci sono i Centre for Arts — alcuni celebri, come quello di Princeton — frequentati da una nutrita comunità di poeti, scrittori, drammaturghi etc. Essi non sono costretti, che io sappia, a esibire una vasta attività scientifica: devono soltanto pensare a produrre liriche, romanzi, pièces e saggi (molto liberi, sprovvisti della dittatura delle note a piè pagine). Inutile dire che con il naso sui versi da mane e sera, alla fine un capolavoro esce. Inoltre, è abbastanza agevole contattare i poeti americani per due motivi: sono soliti rispondere alle mail, non contravvenendo quasi mai a un imperativo etico avvertito come inderogabile; il loro indirizzo di posta elettronica è facilmente reperibile perché, appunto, sono affiliati alle varie università. Entrambe le motivazioni non sono così popolari in Europa.

La cosa strana è che, nei paesi anglosassoni, esiste la figura del poet laureate (nel Regno Unito l’attuale è Simon Armitage, in America è Tracy K. Smith), mentre in Italia e negli altri paesi del vecchio continente no. Per la verità, in Inghilterra è un’antica consuetudine che prende le mosse da Riccardo Cuor di Leone (con Guglielmus Peregrinus), ma cos’erano Virgilio e Orazio se non poeti laureati? Conosciamo a memoria «’l giorno e ’l mese e l’anno» dell’incoronazione di Petrarca e degli assilli linguistici (lauro, Laura, l’aura, la ura, lau ra). Insomma, sembra quasi che la nostra società abbia un problema di rimozione con i poeti e con gli scrittori in generale, e l’aspetto forse più pericoloso — che credo determini anche lo stato attuale abbastanza deteriore delle nostre lettere — è la netta separazione, se non la dicotomia, tra università e cultura. Quanto sarebbe mirabile ai nostri occhi veder sorgere non soltanto il Dantedì, ma anche il dì in cui un poeta sia stipendiato da una benemerita istituzione universitaria per fare il suo lavoro: scrivere poesie e insegnare i segreti di quest’arte!

Il primo maggio è, per ovvie ragioni, il giorno in cui ci si pone, tra le altre, la fatidica domanda: la poesia è un mestiere o no? Lo è, per tanti versi (sic). Lo si capisce leggendo la meravigliosa silloge E, tuttavia (traduzione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, 2006) di Philippe Jaccottet, attualmente il maggiore poeta francese, definito dalla critica come interprete dell’umiltà, cronista delle cose piccole e infime. Si tratta di una serie di poèmes en prose scarni ma filosoficamente corazzati, suddivisi in capitoletti dai titoli sintomatici: Viole, Daucus, o carota selvatica, “Come il martin pescatore balena…”, Pettirosso, Ai convolvoli dei campi. È un diario ad alta concentrazione lirica entro cui giacciono le paroles à la limite de louїe, «parole al limite dell’udito, a nessuno attribuibili, raccolte nella conca dell’orecchio proprio come la rugiada da una foglia». Per fare un esempio di come può essere faticoso quello che Sereni e Heaney — l’uno all’insaputa dell’altro — hanno definito il «lavoro della poesia», ecco una parte della sequenza Viole:

«Soltanto un ciuffo di pallide viole
un ciuffo di questi fiori deboli e quasi insulsi…

Quel giorno, in quel febbraio, non poi così distante eppure perso come tutti gli altri giorni della propria vita che mai più sarà dato riafferrare, per un attimo breve, devono avermi sgombrato la vista.

Fiori tra i più insignificanti e più nascosti. Infimi. Al limite dell’insulsaggine. Nate dalla terra che le ultime nevi d’inverno hanno reso più molle. E come possono, poi, se tanto fragili, anche solo apparire, sbucare dalla terra, e stare ritte?

Viole.
Frecce di tenera punta, incapaci di veleno.

(Cancellare tutti gli errori, i sotterfugi, tutte le forme di distruzione; per non conservare altro che queste lievi, queste fragili punte di freccia, scoccate da un angolo d’ombra a fine inverno).

L’infimo, che apre una via, che traccia una via; ma nulla di più. Quasi ben altro occorresse, a me mai dato, per passare di là».

Jaccottet non ha solo cercato di riabilitare la schietta e fresca bellezza delle viole, ma ci ha anche avvertiti: a me una volta questi fiori di primo acchito insignificanti hanno sgombrato la vista. Tutte le «forme di distruzione» sono state cancellate dalla pura coscienza delle viole apparse per quello che esse sono, dallo sguardo chiaro e purificato che le osserva senza concupiscenza. Dallo sgravio dei pesi velenosi che esse tolgono dal cuore. Le viole, come i pettirossi, la carota selvatica, il martin pescatore, sono emblemi della gratitudine che dobbiamo al nostro presente (e come nei giorni di quarantena abbiamo sentito urgente questa gratitudine delle cose semplici!). La cosa più infima diviene così una «via», una freccia «di tenera punta». Mestiere saggio ed esperto la poesia! Mestiere che è durato una vita e ha portato infine Jaccottet, dopo tanta invisibile ricerca e tanta concreta applicazione, a una radiosità dell’esistenza da cui possiamo imparare oggi, umilmente e guardando con nostalgia alla finestra, il mestiere di vivere.

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