Visita guidata
L’arte dello sguardo
Al Musée D’Orsay, uno curioso gruppo marmoreo di Aimé Morot ritrae - rendendogli omaggio - lo scultore Jean Leon Gérôme. Un gioco di volumi e di sguardi che chiama in causa i rapporti tra arte e rappresentazione
Nel Musée D’Orsay uno strano gruppo fuso nel bronzo attira l’attenzione del visitatore ormai sazio di Impressionisti. Uno scultore sta lavorando nel suo atelier ad un grande gruppo, indossa il grembiule da lavoro e impugna gli strumenti della sua arte, sgorbie e stecche. Ma è come improvvisamente interrotto nella sua attività, si volge di scatto nella direzione opposta, e il suo sguardo è sorpreso a fissare un punto lontano dove si suppone sia l’artista che lo sta raffigurando e noi che lo osserviamo. La posizione è alquanto innaturale, lo scultore appare come in posa per un ritratto.
L’opera a cui sta lavorando poggia sopra un alto trespolo su cui usano lavorare gli scultori nei loro ateliers, ma è già completamente terminata e rifinita in ogni sua parte. Essa rappresenta a sua volta un gruppo di due gladiatori: il vincitore con gladio e elmo ha appena atterrato il suo avversario che rantola sotto il suo piede. Ambedue guardano altrove, fissando un punto lontano nella direzione opposta allo sguardo dello scultore. I gladiatori, posti sopra il trespolo sovrastano la figura dello scultore e forse sono anche un poco più grandi del vero. Al confronto con la monumentalità dei due atleti la figura dello scultore appare esile e anacronistica, giunto là per caso da un altrove.
L’attenzione è catturata da queste piccole particolarità e incongruenze sulle quali aleggia il gioco degli sguardi delle tre figure che rimandano ad altro spazio, quello dello scultore che sembra rivolgersi a noi osservatori per chiedere la nostra testimonianza di chissà quale evento, di fatto legandoci alla rappresentazione, quello dei gladiatori fissato verso un punto che non riusciamo a collocare nel nostro spazio.
Ora, curiosi, ne vogliamo sapere di più.
Apprendiamo che il gruppo ha una lunga storia singolare che, a dispetto del risultato assai artificioso, è tutta ispirata da una ricerca ossessiva di realtà. Procediamo a ritroso nella vicenda.
L’intero gruppo fu commissionato dagli eredi del celebre pittore e scultore Jean Leon Gérôme (1824-1904) dopo la morte di questi per onorarne la memoria, fu eseguito nel 1909 dal di lui allievo e genero Aimé Morot (1850-1913) e originariamente posto nei giardini del Louvre.
Morot ha rappresentato il maestro con estrema fedeltà al reale, i dettagli dell’abbigliamento e dell’arredo dell’atelier sono riportati con precisione da ricordi ma soprattutto da foto di trent’anni prima, quando Gérôme attendeva all’opera I Gladiatori. In una di queste foto, giunta fino a noi, il gruppo scultoreo dei gladiatori è ripreso frontalmente, precisamente dal punto di vista che poi Morot utilizzerà per collocare la figura del suo maestro Gérôme che, infatti in quella rappresentazione guarderà fisso verso questo punto. Ma nella antica foto questi non sprizza l’energia che l’allievo gli attribuirà trenta anni dopo, ma siede a lato, quasi vinto dalla fatica della sua opera. Anch’egli fissa lo stesso punto di vista esterno, che ora è l’obiettivo fotografico, ma nel suo sguardo e atteggiamento non c’è nulla di eroico.
Sappiamo anche che Morot, nel realizzare la scultura non ha osato intervenire nell’opera di Gérôme ma ha tecnicamente ricavato un calco dall’originale di questi (I Gladiatori) che ha assemblato con il ritratto di propria mano del maestro. (Per inciso, questa operazione ci ha restituito l’opera originale che, probabilmente in creta, era andata perduta).
Una trentina di anni prima, nel 1878, Gérôme aveva infatti completato “i Gladiatori” riprendendo in tema a lui caro. Un altro passo indietro nel tempo e scopriamo che l’immagine frontale della scultura è identica a quella da lui dipinta nel 1872, sei anni prima nel quadro, divenuto assai popolare, “Pollice verso”, ora al Phoenix Art Museum. Nella pittura che ambienta i gladiatori nell’arena di un anfiteatro, sotto la tribuna delle vestali biancovestite, scopriamo dove si appunta lo sguardo dei due protagonisti, che nella scultura isolata si perdeva nel vuoto.
Gérôme portò a livelli eccelsi di tecnica la pittura di genere storico e mitologico oltre che di genere “orientalistico”, pittura che tendeva a ricostruire una ipotetica realtà immaginata, attraverso una resa “fotografica” e di elevata precisione filologica. Per i suoi gladiatori Gérôme non solo si era documentato su testi di archeologia ma, come ci informa una scheda del Musée d’Orsay «aveva fatto venire da Napoli il calco dell’attrezzatura degli antichi gladiatori e aveva fatto eseguire, a sue spese e a caro prezzo, copia dell’abbigliamento per il suo modello parigino».
Tiriamo le somme. Nel gruppo statuario del Musée d’Orsay riconosciamo tre ambiti spaziali che sono compresenti uno nell’altro ma indipendenti: è facile individuarli se concentriamo l’attenzione sui tre piani di terra (i pavimenti) che li delimitano: 1) il pavimento del museo contiene me visitatore e il gruppo statuario; 2) il basamento di questo contiene il ritratto dello scultore e l’opera “I Gladiatori”; 3) il trespolo da scultura contiene quest’ultima. Ognuno di questi rimanda a tre frazioni temporali diverse: 1)L’oggi della mia visita; 2) l’anno 1909, quando Morot ha assemblato opera; 3) il 1878 quando Gérôme scolpisce “I Gladiatori” (Si potrebbe risalire a precedenti momenti, al quadro di sei anni prima, allo scavo delle armature gladiatorie a Pompei, ecc., ma con questi momenti il rapporto è virtuale e non vige la compresenza, che è quanto ora ci interessa).
Paradossalmente un gruppo scultoreo fine ottocento, di gusto storicistico (quanto mai lontano da quello dell’oggi) ci ha posto una quantità di quesiti cruciali di anatopismo (e di anacronismo) dell’oggetto artistico che ci appaiono assai attuali. Che relazione si stabilisce tra lo spazio di ogni opera d’arte e il mio spazio, di me che la osservo? E tra il tempo di quella con il mio tempo? Il problema è ben più complesso di quanto si è posto Morot, che, ingenuamente fiducioso nella fedeltà al reale, mette in atto un cortocircuito tra spazi e tempi dell’opera, raggiungendo un risultato quantomeno spiazzante. Ogni epoca, dal Rinascimento in poi, ha cercato di superare la barriera che divide questi due ambiti spazio-temporali, ma solo artisti della modernità hanno posto il problema in modo esplicito.
In passato la cornice della tela ( e il piedistallo della scultura) garantivano la separazione dei due mondi. Quando Duchamp monta una ruota di bicicletta su uno sgabello-piedistallo attribuisce a questo il potere di dare a un oggetto banale lo statuto di “scultura”, isolando l’oggetto in un suo proprio spazio, lo spazio dell’Arte. Il suo gesto denuncia ironicamente la separatezza dei due ambiti. Da una parte l’opera, dall’altra l’osservatore.
Tentare di far coincidere lo spazio dell’opera e quello del suo fruitore è per definizione impossibile. I due spazi sono per definizione irriducibili, pena lo scadimento dell’opera a oggetto reale ( o viceversa una impossibile “assunzione” dell’osservatore nel mondo dell’Arte, evento che lo spoglierebbe della sua qualità di osservatore). La continuità tra i due spazi può avvenire solo indirettamente, per allusione , mediante la “rappresentazione” dello spazio reale nello spazio dell’Arte.
Prima di Duchamp ogni tanto un artista particolarmente curioso provava a rompere la “quarta parete” cercando di dare continuità ai due spazi. Celebre per tutti il Velasquez de Las Meninas che ha suggerito sul tema a Foucault una pagina alla quale tutti siamo debitori. Ma anche ogni banale autoritratto di pittore nell’atto di dipingere mostra la diacronia tra l’occhio del pittore che sbircia lo specchio fuori campo e la sua mano che appoggia il pennello sulla tela e denuncia la continuità spaziale tra ciò che è rappresentato nel quadro e ciò che sta fuori dalla rappresentazione pittorica nello spazio reale (lo specchio)
Oggi questi temi sono resi espliciti da più di un artista. Nessun contemporaneo può eludere queste tematiche, e gli artisti dell’Arte Concettuale ne hanno fatto l’asse portante della propria ricerca. Giulio Paolini è più interessato al rapporto tra l’opera e l’osservatore che all’opera stessa (Giovane che guarda Lorenzo Lotto, 1967). Più pregnante in Tre per tre, 1998 egli pone in scena tre personaggi identici ai quali attribuisce rispettivamente il ruolo di modello, di pittore e di osservatore. Il gioco dei loro sguardi li pone in una relazione necessaria, ognuno vive in quanto osservato e osservatore e quel gioco finisce per coinvolgere noi che nella sala di esposizione osserviamo l’opera, costretti nostro malgrado ad entrare nella mise en abyme che questa ci propone.