Raoul Precht
Periscopio (globale)

Doppio Hofmannsthal

Doppia edizione per "Andrea o i ricongiunti" di Hugo von Hofmannsthal: due traduzioni, una classica e una inedita mostrano due modi diversi di leggere un classico. Un modo per entrare nell'officina di scrittura del grande autore

Con la mia recensione arriverò probabilmente buon ultimo, stavolta, ma non importa. Quel che conta è parlare dei libri che hanno una loro rilevanza specifica, a prescindere dal fatto che siano appena usciti o già, come in questo caso, da qualche mese. Qui il libro è uno e trino, in verità: abbiamo l’originale, l’Andreas oder die Vereinigten di Hugo von Hofmannsthal, e ben due edizioni italiane, diverse e in certa misura complementari. La prima delle quali è in realtà una riedizione, proposta da Adelphi, della traduzione ormai storica di Gabriella Bemporad recante il titolo Andrea o I ricongiunti; mentre la seconda è un lavoro del tutto nuovo, pubblicato dall’editore Del Vecchio con l’attenta curatela e una nuova traduzione di Andrea Landolfi, ma diversa già nel titolo, che diventa Andreas o I riuniti. La differenza, come vedremo, per quanto apparentemente minima, è in realtà di sostanza.

Non intendo fare alcuna graduatoria fra questi due volumi, distinti fra loro nello spirito più ancora che nella sostanza e, come dicevo, tutto sommato complementari, tanto che bisognerebbe idealmente possederli e poterli consultare entrambi. Quello di Adelphi è un libro “storico”: si tratta della prima traduzione del testo, fatta da Gabriella Bemporad nel 1948, ad appena vent’anni, e poi riaggiornata a più riprese fino al 1974, che rappresenta non solo il punto di riferimento per un paio di generazioni di lettori, ma è di per sé una versione fascinosissima, in cui la splendida lingua di Hofmannsthal viene resa con sensibilità poetica da una traduttrice che era appunto, in primo luogo, una poetessa a sua volta. La versione che ci propone oggi Andrea Landolfi è sicuramente più aderente ai nostri tempi, più aggiornata nel lessico, più fluida, ma perde forse qualcosa rispetto all’aura poetica di cui è circonfusa la traduzione precedente. Lo stesso Landolfi ha del resto sottolineato quanto possa essere ingrato ritradurre un classico di cui già esiste una versione pregevolissima. Il grande vantaggio della sua edizione, tanto per lo studioso quanto per il lettore curioso, è dato semmai dalla presenza, per la prima volta, della quasi totalità di appunti accumulati da Hofmannsthal nell’arco dei vent’anni di riflessioni che hanno accompagnato la gestazione di un romanzo rimasto infine incompiuto. Non va dimenticato infatti che Hofmannsthal aveva in mente un testo che si sarebbe dovuto concludere e non certo rimanere allo stato di frammento, sia pure corredato di una vera e propria miniera di appunti e osservazioni, e che per farne un vero romanzo vi lavora a fasi alterne per ben vent’anni, fra il 1907 e il 1927, anche se la porzione di testo compiuto che conosciamo, come ricorda Landolfi, viene buttata giù quasi di getto in due momenti particolari, tra il settembre e l’ottobre del 1912 e tra il luglio e l’agosto dell’anno successivo. Se tra i manoscritti il testo compiuto occupa un centinaio di fogli, ben quattrocento sono quelli dedicati invece a note e osservazioni di vario genere (385 appunti in tutto). Queste note d’autore, che gettano una luce di grande interesse tanto sulle intenzioni compositive quanto sui probabili sviluppi, sono riportate da Landolfi e arricchite mediante la creazione di una rete di ulteriori riferimenti a fonti e personaggi coevi che testimonia del lavoro certosino portato avanti dal curatore.

Per mancanza di spazio non farò qui la cronistoria delle vicissitudini del testo originale e delle varie edizioni che si sono susseguite; rimando all’acribica nota informativa di Landolfi al riguardo. Mi limito a sottolineare che il recupero e la rivalutazione degli appunti, seppure raggruppati per tematiche e non, come preferirebbe Landolfi, cronologicamente, sono relativamente recenti, risalgono cioè all’edizione delle opere hofmannsthaliane del 1979, curata da Bernd Schoeller nel cinquantenario della morte del poeta con la “Mitwirkung” (che è una via di mezzo fra la mera collaborazione e una ben più attiva supervisione) di Rudolf Hirsch, cioè di uno dei massimi esperti dello scrittore austriaco, e vengono poi riordinati solo nell’edizione di Manfred Pape del 1982. (Breve divagazione personale: ricordo che agli inizi degli anni Ottanta, al Freies Deutsches Hochstift di Francoforte dov’ero andato a trovarlo, il già ultrasettantenne Hirsch perse una buona mezz’ora del suo tempo prezioso per discorrere con un oscuro laureando di alcuni aspetti della sua futura tesi.)

Ora che siamo in possesso del testo nella sua integralità, dobbiamo distinguere fra la parte compiuta e quella che con ogni probabilità Hofmannsthal avrebbe ancora aggiunto, per completare e concludere il romanzo, se non ne fosse intervenuta, nel 1929, la morte tragica e inaspettata, per un infarto occorsogli due giorni dopo il suicidio del figlio. L’argomento generale è ben noto ed era chiaro a Hofmannsthal fin dall’inizio: lo sintetizza in una lettera a Hermann Bahr del 1918, quale descrizione della “gioventù e crisi di un giovane austriaco in viaggio per Venezia e la Toscana nell’anno della morte dell’Imperatrice Maria Teresa”. Tutto ciò evidentemente nel segno di una “Gattung”, un genere, cara a tutta la tradizione letteraria germanica, con fulgidi esempi quali quelli di Goethe e Novalis, qual è il “Bildungsroman” (o romanzo di formazione). In questo approccio programmatico l’Austria e l’Italia – qui rappresentata principalmente da Venezia – si fondono, come del resto si fondevano nella mente del poeta austriaco, quali creazioni mitopoietiche di una civiltà superiore che potesse collegare (o riunire, da cui anche il titolo dell’opera) equilibrio etico e passione estetica, religiosità e laica tolleranza, ma anche tutti gli opposti del mondo: uomo e donna, corpo e anima, conservatorismo e innovazione, vecchi e giovani, padri e figli  – e qui non si ci si può esimere dal fare almeno un fugace accenno al dramma-testamento di Hofmannsthal, Der Turm (La torre), che allo scontro di potere e all’incomunicabilità fra generazioni è dedicato. Sempre riguardo al superamento della dialettica generazionale, non vanno dimenticati nemmeno gli intensi scambi epistolari con interlocutori più giovani, primo fra tutti Carl Jakob Burckhardt (Erinnerungen an Hofmannsthal und Briefe des Dichters), che testimoniano almeno del tentativo, se non della sua riuscita, di riunire (siamo di nuovo al termine-chiave) la generazione dei padri e quella dei figli nel segno di una civiltà superiore. E sempre a proposito di riunire, ecco che nel frammento 117 riportato da Landolfi troviamo non a caso una massima di Novalis, per il quale “tutto il male è isolato e isolante”, mentre l’idea di ricomporre personalità frantumate in un Tutto armonioso è alla base di tutto il “programma” generale del poeta austriaco (e non solo, quindi, di questo romanzo).

Il procedimento compositivo di Hofmannsthal è circolare o, se si preferisce, spiraliforme: non stupisce troppo che fra gli appunti si ritrovi anche una citazione di Jacques Rivière, del 1913, in cui questi ricorda come nella vera poesia non debba esserci progressione, ma inizio e fine debbano situarsi allo stesso livello, con il lettore che si ritrova circuìto, immemore di tempi e luoghi, nel cerchio magico che la materia letteraria crea. A questo andamento suadente Hofmannsthal aggiunge una padronanza praticamente perfetta della dimensione linguistica, che ravvisiamo tanto nella descrizione dei paesaggi quanto in quella degli stati d’animo dei personaggi, e in particolare di Andreas, il protagonista, le cui emozioni, nella confusione poco più che adolescenziale in cui è immerso, ci penetrano come se le provassimo noi stessi.

La narrazione finita si compone di quattro sezioni, corrispondenti ad altrettanti luoghi e momenti. Andreas ci appare anzitutto al suo arrivo a Venezia, dove entra in contatto e si fa ospitare da una singolare famiglia di nobili decaduti. Un flash-back ci porta poi a Villach e in Carinzia, dove si era fatto abbindolare e rapinare da un servitore tanto facondo quanto ingannatore, il volgarissimo Gotthelf; ma dove, anche, aveva conosciuto l’amore spirituale, sotto le sembianze di Romana, la figlia di un castellano appartenente, come lo stesso Andreas, alla piccola aristocrazia austriaca, con, sotto traccia, quel tanto di declino austroungarico che non manca (e non stona) mai. Segue un breve stacco, dove ritroviamo Andreas in viaggio, dopo uno straziante addio a Romana, sotto l’effetto delle sensazioni provocate dal brutale tradimento di Gotthelf e dall’innamoramento, ancora turbolento e irrisolto, per la ragazza. Infine, siamo di nuovo a Venezia, dove all’approfondimento del rapporto con l’inquietante famiglia del conte Prampero si affiancano una dimensione misterica, con l’apparizione e la scomparsa in una chiesa di figure fantasmatiche e l’introduzione del Cavaliere di Malta, Sacramozo, figura della cui importanza avremo un riscontro più preciso poi negli appunti.

Venezia, quale luogo delle maschere e degli infingimenti sotto i quali va cercata la vera vita, è centrale nell’economia del romanzo. È il luogo dove deve compiersi la maturazione di Andreas, giovane coraggioso ma non ancora sufficientemente formato, che vive di travestimenti morali e falsità (si veda a mo’ d’esempio il perenne tentativo di abbellire e addomesticare la realtà nelle lettere, peraltro mai spedite, ai genitori). La maturazione avviene attraverso un inanellarsi d’incontri, anche sentimentali ed erotici, che dovrà portarlo all’obiettivo finale, quello del ricongiungimento con l’amata Romana, una volta raggiunta però una superiore consapevolezza della propria personalità e delle mete davvero importanti nell’esistenza umana. Le figure di Zustina, Nina e in particolare di quel Giano bifronte di dama e cortigiana che è il personaggio duplice e scisso della spagnola Maria/Mariquita – la quale è forse all’origine del romanzo, se è vero che in Hofmannsthal tutto il progetto del libro nasce dalla lettura, nel 1907, di un libro sulla schizofrenia di uno psichiatra statunitense, Morton Prince, dal titolo Dissociations of a Personality – sono altrettante proiezioni del desiderio disordinato di Andreas, ma al tempo stesso strumenti di cui il ragazzo quasi involontariamente si avvale per la propria crescita, per incanalare le proprie pulsioni in una direzione unica e concreta. Così come strumentale è del resto la presenza assidua e illuminante di Sacramozo, la cui maieutica discreta finirà forse per liberare il confuso discepolo. Ma il dispiegamento delle proprie potenzialità è eminentemente personale e unico per ciascuno di noi. Come annota Hofmannsthal (fr. 55), “non vi è nulla di isolato: tutto si compie in cerchi. Nulla ci sfugge eppure è in noi, dovremmo solo imparare a trarlo fuori da noi.” Fra le altre cose, e attraverso l’esempio di Ariosto, Sacramozo insegna ad Andreas l’amore per la poesia, che non è riproduzione della natura ma tensione verso l’impossibile: “la vera poesia è l’arcanum che ci riunisce alla vita e ci isola dalla vita” (fr. 73). Sacramozo impersona insomma quello che Hofmannsthal definisce il principio “allomatico”, ossia la trasformazione reciproca di due individui tra loro strettamente collegati. Al giovane, il Cavaliere di Malta insegna inoltre a riconoscere l’essenziale e ad affrancarsi dalla volgarità, spesso identificata con Vienna e con tutto quanto è austriaco (in quanto ansia cortigiana di rappresentare qualcosa che non si è). E sarà sempre grazie a lui che Andreas riconoscerà in Romana, dopo la trasformazione avvenuta in seguito all’incontro con le varie raffigurazioni dell’Altro, il vero oggetto della sua passione amorosa; quando torna verso i monti per andarla a prendere “è come se le due metà del suo essere, che erano state strappate l’una all’altra, si riunissero in una” (fr. 30). Nel vero amore corpo e spirito diventano finalmente una cosa sola, e il riferimento di Landolfi al concetto di Anima in Jung, più che a Freud (che Hofmannsthal poco amava), è probabilmente assai pertinente. Ricongiunti o riuniti, ci si potrà chiedere legittimamente a questo punto, riprendendo un dubbio iniziale? Forse entrambe le cose, perché se da un lato Andreas deve riunirsi a Romana, dall’altro deve anche ricongiungere e riannodare tra di loro i fili delle sue varie personalità frazionate.

In conclusione, siamo di fronte a un libro-palinsesto del tutto particolare, che Claudio Magris poté ben definire “sconcertante” perché appunto unico nel suo genere, ma che oggi pare contenere un attualissimo fil rouge, se il suo intento, come sembra, è quello di condurre al superamento di quei dualismi e di quelle contrapposizioni che spesso l’uomo infligge a se stesso e quindi al mondo. Non è forse una circostanza fortuita, in questo senso, né tanto meno secondaria, che il testo sia rimasto incompiuto, come incompiuti restano, a conti fatti, il nostro essere-al-mondo e i significati che riusciamo a trarne.

 

 

Facebooktwitterlinkedin