Raoul Precht
Castelporziano/10

Rimario tedesco

«A differenza di Gerald, che quella sera indossava una rispettabilissima giacca, e di Volker, il quale si era presentato invece con una camicia azzurra dalle maniche rimboccate, Johannes non aveva fatto alcuno sforzo in termini di abbigliamento». Si conclude il romanzo a puntate di Raoul Precht

Riassunto delle puntate precedenti: il romanzo segue le avventure di un giovanissimo traduttore chiamato a occuparsi dei poeti tedeschi presenti al Festival di Castelporziano. Nella sezione precedente il protagonista si è occupato in particolare del quarto poeta da tradurre, Gerald Bisinger

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Ancora una volta la memoria scompone e ricompone a piacimento, giocando con i singoli accadimenti come il gatto con i topi del quartiere, lasciandoli sgattaiolare via e dando loro qualche falsa illusione per poi riacciuffarli all’improvviso, ma molti riescono a scappare ugualmente fra le maglie e non saranno mai più recuperati, di questo il gatto è consapevole, e lo sono anch’io, tanto che mi restano tutt’al più dei frammenti, le poche tessere del puzzle che non sono andate perdute per sempre nel grande cestino in cui ricicliamo i ricordi, come la captatio benevolentiae dell’irlandese O’ Grady, per esempio, che non solo si rivolse in italiano alla platea rumoreggiante, rinunciando quindi alla traduzione, ma si presentò con uno scialle palestinese attorno al collo e una bottiglia di whisky in mano, da cui simpaticamente, fra una poesia e l’altra, trangugiava lunghe sorsate propiziatorie, oppure la bordata di fischi e insulti che assalì un poeta sovietico, doveva essere Issaev, venuto tonitruante e in camicia rossa a glorificare la dittatura, come se al mondo dopo la morte di Stalin nulla fosse successo, nulla fosse stato svelato al popolo bue dei misfatti del Cremlino, o ancora uno dei tanti annunci, quello riguardante un bambino piccolissimo, con indosso soltanto una camicia, che si era perso nella folla e cercava disperato i genitori, la bottiglia di O’Grady, i cori di “scemo, scemo” rivolti a Issaev e l’abbandono di un bambino piccolo da parte dei genitori scapestrati, fra questi tre lati del triangolo sfreccia elastica la mia memoria, un susseguirsi d’immagini e sensazioni che non so più come interpretare, né porre in ordine d’importanza o di priorità, ma poco importa, a mia volta ebbi in mano il microfono per tre volte, quella sera, tossicchiai per schiarirmi la voce com’è d’uopo e lessi forte e chiaro tutto quel che si era concordato di leggere, e non fu un successo né un insuccesso, direi piuttosto che navigammo tranquilli nella placida indifferenza generale, quella sera contava molto di più mettere insieme con una colletta ventimila lire per una damigiana di vino scadente e probabilmente adulterato o conquistarsi a spintoni la propria ciotola gratuita di minestrone, però noi leggemmo, prima in tedesco poi in italiano, e non fummo fischiati né bersagliati di pomodori od ortaggi più contundenti, quindi nell’insieme i cinque o diecimila o quanti mai fossero si comportarono in maniera civile. Convivemmo e ci sopportammo, come se avessimo avuto tutti la stessa finalità e parlato la medesima lingua, oppure la memoria ha deciso di giocarmi uno scherzo da prete e di rendere aproblematico e melenso quel che non lo è stato solo per lasciarmi qualche pia illusione in più, sia sul genere umano in generale sia sulla mia generazione in particolare, non posso escluderlo, ci sono aree del cervello che non manovriamo, che sfuggono a qualunque controllo cosciente, questo è anzi vero, dicono, di gran parte delle sue funzioni, e allora un effetto placebo a distanza di tanti anni può sempre instaurarsi e ingannare anche il più solerte dei testimoni, che di certo poi non sarei io, non lo sono mai stato in tutta la vita, anzi ho sempre selezionato in modo del tutto arbitrario i momenti, i luoghi e le persone su cui soffermare la mia attenzione, sconvolgendo da un giorno all’altro priorità e scale di valori, quindi non ambisco ad alcun premio, m’accontento di rendere, se posso, un profumo o una sfumatura.

Lessi, dicevo, leggemmo senza interruzioni o incidenti perfino le ostiche poesie di Gerald, chissà se lo spirito protettore di Ovidio aleggiava in quel momento su di noi e chissà se nella mente di Gerald sfilavano senza interruzione, come una scritta su un tabellone elettronico, le parole di una delle Epistolae ex Ponto usate a epigrafe di una sua poesia, “quem fortuna dedit Roma sit ille locus”, sia dunque Roma il luogo che il destino mi assegna, forse Gerald si aspettava di dover affrontare non solo un destino dai colpi erratici e fatali, ma addirittura la tempesta evocata nel primo libro dei Tristia, argomento del resto topico nella poesia latina, la tempesta e il naufragio che ne deriva, ed è per questo, magari, che prese ad arringare la folla con voce rotta, insicura, in attesa di una bordata di fischi e lazzi che invece non arrivò, eppure i romani del 1979 non dovevano essere molto diversi da quelli dei tempi di Ovidio, e quindi pronti a dare addosso agli intellettuali in difficoltà, a tutti coloro che hanno perso in via temporanea o definitiva la benevolenza dei potenti, eppure curiosamente non reagirono, l’armistizio che ci toccò in sorte e che con tutta probabilità era un misto di raccoglimento, stupore e indifferenza sorprese Gerald al punto di renderlo quasi afasico, e mi piace credere che a scuoterlo da quell’iniziale impasse sia stato anche il fatto che io, in piedi accanto a lui, stavo aspettando che agisse, ovvero profferisse il suo testo in tedesco, per poter intervenire dopo di lui, come concordato, e questo contribuì magari a scuoterlo dal suo torpore, con gli occhi semichiusi stava per dire “carmina nil prosunt”, e poco dopo avrebbe aggiunto “nocuerunt carmina quondam”, e magari perfino “primaque tam miserae causa fuere fugae”, ma appunto si ritrasse in tempo da citazioni che avrebbero potuto anche essere interpretate male dal gentile pubblico, nipote di quello del primo secolo dopo Cristo, si riscosse voltando metaforicamente pagina e vidi il suo volto finalmente distendersi mentre attaccava il suo primo componimento, Stellt euch vor, recitandolo quasi con una bizzarra allegria.

Terminata la singolar tenzone ci sedemmo in un silenzio quasi perturbante, ma non era silenzio vero, mi dissi, semmai assomigliava a un rumore di fondo continuo e a suo modo assordante nel quale mancavano però gli acuti, in ogni caso Gerald fu accettato e archiviato, nessuno lo contestò, in fondo erano anche anni di apertura e tolleranza, la contestazione vera gli sarebbe arrivata con mia sorpresa post mortem, quando nel 2000 un critico stroncò il suo ultimo volume di poesie, Im siebenten Jahrzehnt, sostenendo di non poter trovare davvero alcun elemento d’interesse nella lettura di un’opera così modesta, in cui un poeta che beve e fuma (troppo) non fa altro che raccontare di un poeta che beve e fuma (ovviamente troppo), questo scrissero del libro che Gerald aveva iniziato a comporre un anno prima, subito dopo aver saputo del tumore, e al quale aveva affidato il suo testamento poetico, una raccolta piena di risentimento verso se stesso e la malattia, soprattutto per il fatto di non poter più mangiare e bere quel che gli dava piacere, e ispirata a un’unica preoccupazione, quella di scoprire per mezzo del proprio linguaggio aulico, quasi come un rabdomante che passi sulle parole la sua bacchetta, quanto tempo gli rimaneva, se sarebbe ad esempio arrivato, come scrive in una poesia, almeno a Ognissanti, e quindi necessariamente monotematica e disperata, ma è giusto così, rifletto oggi, la valutazione critica dev’essere scevra da ogni altra considerazione, il recensore è libero e non deve rimanere ostaggio della compassione, e un libro che parla di morte, anche della propria prossima morte, va valutato esattamente come un libro che metta in scena un idillio amoroso, con la medesima severità e mancanza di riguardi, perché conta solo se funziona o no, se è un testo riuscito o no, tutto il resto fa parte di quell’episodio chiamato vita e non deve necessariamente interessarci, non nego però che quando lessi la recensione e la stessa andò a sovrapporsi nei miei ricordi ormai opachi all’immagine di Gerald che vi avevo conservato, ebbene, mi parve terribilmente ingenerosa nella sua sprezzante inappellabilità, d’altronde un poeta defunto, maggiore o minore che sia, ha ben poche armi per difendersi, e in ogni caso le sue riflessioni, per ripetitive e tediose che fossero, non avevano mai nulla di banale, tanto che anche il severo recensore era stato costretto a riconoscergli almeno il fascino della modestia e la “dignità del momento poetico”, qualunque cosa volesse intendere, ma io a dire il vero sapevo bene cosa intendeva per esserne stato testimone su quella spiaggia tanti anni prima, per aver visto da vicino la dignità, appunto, con cui dopo aver letto aveva ripreso il suo posto tra Ginsberg e O’Grady, piegando la giacca sulle ginocchia e accendendosi sulla faccia impassibile l’eterna sigaretta per smorzarvi dentro la tensione, in fondo epicureo fino all’ultimo istante, tanto che perfino nell’ultima raccolta non faceva che parlare di osterie e gastronomia, di grappe e tabacco, materializzandone la trasformazione in frammenti lirici.

Dicevo appunto che ci sedemmo, ma in realtà fu un’azione che compì lui solo, io non feci in tempo, fui richiamato indietro quasi subito perché dopo i telegrafici balbettii di non so più chi adesso toccava a Volker, due tedeschi a breve distanza l’uno dall’altro, uno scherzo degli organizzatori inteso forse a dimostrare quanto si possa essere, ancorché connazionali, diversi per spirito, poetica e sorte umana, in ogni caso Volker mi ghermì un braccio e mi sospinse davanti a sé come un cieco cui occorra qualcuno che lo guidi nella persistente oscurità del mondo, in quel momento sembrava più ragazzo, più giovane di me, e soprattutto quanto di più lontano possa esserci dall’idea che ci si fa di un letterato, e difatti era molto più un agitatore che un letterato, uno che nella vita letteraria entrava sempre solo in punta di piedi per allontanarsene inorridito appena possibile, non a caso più i critici lo ignoravano più la gente lo amava e ne imparava le poesie a memoria, poesie fatte apposta da un lato per indispettire gli addetti ai lavori e dall’altro per essere memorizzate, con rime semplici, martellanti, e ritmi simili a quelli delle canzoni, la semplicità era la sua forza, cosette ardite e a rima baciata come “ich las Villon und schwänzte wenn’s ging / die Schule, die mir zum Hals raus hing” oppure “Heut ich erklär, so wahr ich Törne heiß / meinen Verzicht auf den Petrarca-Preis” non potevano d’altronde entusiasmare i critici, e l’uomo che non arrivò a vedere il nono decennio del secolo, senza perdersi poi troppo, direi, quella sera almeno conobbe un notevole successo, con quel “von” nel cognome che ne rendeva i testi ancor più sediziosi e quindi seducenti per gran parte del pubblico, leggemmo e fummo perfino costretti a concedere un bis, un testo piuttosto semplice che lui m’indicò all’ultimo istante e che tradussi all’impronta, non so come, con quale grado di riuscita stilistica, voglio dire, ma importava poco, l’essenziale era corrispondere ai desideri della folla e restare quanto più a lungo possibile sull’onda dell’entusiasmo, che Volker riuscì in effetti ad amministrare con sagacia per tutto il tempo in cui conservammo il microfono, ormai simbolo incontrastato di potere, e che andò a riverberarsi anche su chi sarebbe intervenuto subito dopo.

In seguito, negli anni a venire, studiando in modo più approfondito gli autori che mi hanno via via ispirato, mi sarei imbattuto più volte nel concetto di straniamento e turbamento del pubblico, dallo sbigottimento brechtiano, il più conosciuto, alla metafora kafkiana dell’ascia che fende il mare ghiacciato che ci portiamo dentro, a quella medica di Benn, quando dice che le poesie devono tendere a stimolare, se non addirittura far scoppiare il cervello, il che vale poi a un tempo per chi scrive e per chi legge, la necessità assoluta essendo quella di far percepire al lettore o spettatore tutto lo smarrimento di cui senza quell’opera letteraria non sarebbe consapevole, e che lo condanna inesorabilmente a vegetare, oppure invece, grazie all’opera in questione, a strabiliare, e strabiliando riprendere in mano le fila della propria ripetitiva esistenza, ed ecco che in questo senso mi pareva e mi pare ancora oggi che a Volker un certo valore letterario non possa essere negato, le sue poesie colpivano sempre nel segno, come il suo modello, Erich, aveva la facoltà rara d’individuare il nervo scoperto, l’anello che non tiene, avrebbe detto Montale, insomma il punto debole di logiche apparentemente ferree, destando nel lettore almeno un sano sconcerto, benché naturalmente si possa discutere a lungo se è proprio questo, e solo questo, che si vuole dalla letteratura, e se così facendo e spingendo il gioco alle estreme conseguenze non si rischi al contrario di ridurla a pochi autori e pochissime opere, la maggior parte dei letterati riducendosi a dei modesti epigoni, diciamolo pure, succubi di questa o quella moda, tutt’al più fortunati comprimari, mentre in ogni secolo la poesia autentica sarebbe appannaggio di una manciata di profughi che sperimentano ostilità e disprezzo sulla propria pelle, non a caso nel documento che attestava la morte di Marina Cvetaeva alla rubrica “professione del defunto” si leggeva un solo, lapidario termine, “evacuata”, non so bene perché mi viene in mente tutto questo dopo aver parlato delle letture di Erich, Gerald e Volker e prima di raccontare della prestazione scenica di Johannes, forse perché ancora oggi non sono in grado, dopo tanti anni e tante letture, di decidere come vada valutato il lascito dei miei quattro evangelisti, se siano stati piante solide e produttive, che hanno cioè attecchito e dato frutti, se siano stati invece meri e trascurabili rami secchi, o se abbiano fatto addirittura parte della gramigna cui accennava un’altra poetessa, Ingeborg Bachmann, la rigogliosa gramigna del dilettantismo a cui forse nessuno di noi sfugge mai del tutto, nel senso che siamo tutti dei banali dilettanti quando per distrazione od ottusità dimentichiamo l’ascia che dovrebbe fendere il mare ghiacciato in cui anneghiamo e ci spegniamo infreddoliti e febbricitanti, in preda a oscure disperazioni.

A differenza di Gerald, che quella sera indossava una rispettabilissima giacca, portandola con l’eleganza di un dandy, e anche di Volker, il quale si era presentato invece con una camicia azzurra dalle maniche rimboccate, un paio di pantaloni chiari e un pulloverino annodato intorno alla vita, Johannes non aveva fatto alcuno sforzo in termini di abbigliamento, d’altronde non sarebbe stato da lui adeguare i vestiti all’occasione, e quando infine venne il suo turno avanzò sul palco con la solita camicia bianca dal colletto ben aperto, il gilè nero e il cappello anch’esso nero mezzo sformato e ben calcato sulla testa tonda, così come sarebbe comparso sulla copertina dell’Europeo la settimana successiva, credo si fosse perfettamente accorto del fotografo che nel tardo pomeriggio l’aveva immortalato, su quello scatto il suo è un sorriso troppo consapevole, da marpione più che da poeta, ma non è un caso che abbiano scelto proprio la sua faccia per illustrare il titolo “L’estate della poesia”, nessuno avrebbe potuto rendere meglio l’idea di una poesia diversa, spettacolare e al tempo stesso vicina al lettore, familiare, perfino simpatica, dopo che per secoli poeti e scrittori ce l’avevano messa tutta per ispirare ai loro lettori un’insopprimibile antipatia, in ogni caso non appena uno degli invitati greci lasciò il microfono e fu annunciato il suo nome, Johannes scattò in posizione eretta come un misirizzi, si fece spazio sul palco e accompagnato dal ragazzino traduttore che lo sovrastava di una testa cominciò a raccontare di Natascha e di Venezia, di acque alte e calze nere e giarrettiere, e la gente tutt’intorno lo stava a sentire perfino in tedesco, il magnetismo ha delle sue leggi incomprensibili al profano, non potei fare a meno di pensare a quello che mi aveva raccontato degli studenti in America e della popolarità di cui aveva goduto, adesso non mi sembrava più singolare né stupefacente, era anzi del tutto comprensibile, ci misi qualche secondo a rendermi conto che il luogo e la situazione non avrebbero dovuto consentirgli di sprigionare il suo fascino in quel modo, eppure vi riusciva senza sforzo, non volava più una mosca e nemmeno una lattina di birra, e per un attimo, belle o brutte che fossero le poesie che stava leggendo, ebbi l’impressione che Castelporziano, e per estensione Roma, fosse diventato davvero il centro poetico del mondo, di un mondo becero e incolto magari, ma pur sempre il centro da cui tutto si sprigiona. Mentre leggeva i suoi versi mi sembrò di scorgere delle scintille, e se Johannes non era forse il miglior fabbro di eliotiana e poundiana memoria quella sera qualcosa comunque forgiò, un contatto con il pubblico a suo modo lo stabilì, meglio di quanto sarebbe riuscito a poeti più famosi e accreditati, per me fu tutto facile, non dovetti fare altro che approfittare dell’attenzione che aveva suscitato e seguire le sue orme, non poteva che andare tutto bene, anche per quell’ultima esibizione sarei riuscito a evitare pomodori, bottiglie e altri oggetti volanti non meglio identificati ma in ogni caso contundenti, d’altro canto va riconosciuto che ormai l’atmosfera era molto meno carica di tensione, il pubblico sembrava cominciare ad abituarsi a questa sfilata di gente strana ed eterogenea che parlava lingue diverse, la maggior parte incomprensibili ai più, e in certi momenti si riusciva ad avvertire addirittura il ronzio della risacca, pochissimi metri più in là, come se alla fin fine fosse possibile ripristinare il silenzio e l’ascolto della natura.

Fossi stato più vecchio, o almeno più maturo, mi domando oggi, come avrei reagito, quali pensieri mi avrebbero attraversato la mente, soprattutto in quell’istante, una volta esaurita la corvée, portata a termine la mia prestazione di traduttore e lettore, mi sarei sentito soddisfatto, appagato, sollevato, o magari leggermente deluso, mi sarebbe rimasta addosso la tensione che produce qualunque esposizione al pubblico, agli altri, oppure sarebbe scivolata oltre la mia ombra sulla sabbia, fino a perdersi, complice il vento, fra le onde?, chissà, è una domanda legittima, trovo, anche se inconcludente come tutti i quesiti che ci poniamo a posteriori, oggi so per certo che l’esperienza permette di dominare le emozioni, di affievolirle, di impartire loro delle regole, perfino, ma che non le elimina mai, non le annienta, c’è poco da fare, se ne resta schiavi, e mi chiedo sempre più spesso se la disinvoltura con cui a diciott’anni reagii a quell’improvvisa esposizione al pubblico non fosse tributaria di una certa inconsapevolezza, un po’ come gli enfants prodige che si esibiscono apparentemente senza sforzo e senza stress, poi bisognerebbe andare a grattare fra le pieghe del loro animo tutt’altro che innocente per scoprire come lo dominano per davvero, il loro stress, come padroneggiano il folle e salvifico desiderio di fuggire, di essere altrove e magari in un altro tempo, ancora oggi, a volte, quando si avvicina una scadenza importante penso a quanto amerei potermi dileguare, essere in un altro luogo e vivere un altro tempo, perché in fondo il destino non è altro che il punto d’intersezione, la corrispondenza implacabile di un luogo e di un tempo ben definiti, e per sfuggirlo basterebbe far saltare una di queste due costanti, renderla quanto meno variabile e incerta, oscillante, a questo penso ogni tanto, lo ammetto, e non giungo peraltro ad alcuna conclusione, il ragazzo di allora mi resta estraneo come un personaggio inventato, anzi perfino di più, perché nei confronti di un personaggio inventato sono sovrano, posso prestargli qualunque riflessione fatta dal mio ego maturo, al massimo rischio una certa, minima incongruenza, rischio cioè di renderlo poco credibile, mentre al ragazzo che disinvolto accavalla le gambe sul palco e si accende una Gitane senza filtro per scimmiottare i grandi, i duri del cinema francese soprattutto, non sono in grado di trasmettere o passare nulla, e men che mai sottobanco o di straforo, perché altrimenti crollerebbe tutto, basterebbe uno sfaglio nella sequenza temporale, un miserabile anacronismo, a farlo scomparire agli occhi del lettore come se non fosse mai esistito, il ragazzo acerbo e tenero e imprevedibile di allora.

Finita la lettura e tornato al mio posto, ricordo che rialzando la testa scorsi come una specie di lampo dietro gli spessi occhiali di Erich, un riverbero certo non volontario, ma creato inopinatamente dalla vibrazione di un riflettore o dal ritrarsi di un’ombra, fatto sta che quando per riflesso guardai nella sua direzione m’accorsi che mi stava osservando forse già da qualche secondo e che sorrideva, come a volermi ancora incoraggiare, poi mi fece un cenno con la testa, muovendo i capelli scomposti, un cenno rivolto proprio a me, senza tema d’equivoco, eravamo troppo lontani perché potesse parlarmi e soprattutto perché potessi capirne le parole nella confusione che tutti ci avvolgeva, però captai almeno che stava per dirmi qualcosa, o che avrebbe voluto e aveva finito per rinunciarvi, ancora oggi non so se fosse una rivelazione che avrebbe potuto cambiarmi la vita o almeno la percezione della stessa, oppure invece una sciocchezza e banalità qualsiasi, né potrò mai domandarglielo, visto che quel momento quasi di complicità fu anche l’ultimo che condividemmo non solo quella sera, ma in generale nelle nostre vite già così distanti, in seguito non ebbi più l’occasione d’incontrarlo, partì la mattina dopo di buon’ora e nei nove anni di vita che gli rimasero non mise più piede a Roma, in Toscana sì, però, sei estati più tardi, per tenere un ciclo di conferenze in un’università estiva tedesca, ma naturalmente non ne seppi nulla se non molto tempo dopo, altrimenti forse avrei trovato il modo di andarlo a trovare, di certo sarebbe stata una sorpresa, avrei rischiato, in altre parole, di non essere riconosciuto, perché immagino che a sei anni di distanza la gente, com’è giusto, tenda a dimenticare, poi non ci pensai più e piuttosto seguii le sue tracce sui giornali, anzitutto per le virulente polemiche suscitate dal conferimento del premio Büchner, che secondo i suoi detrattori per coerenza Erich avrebbe dovuto rifiutare, per coerenza perché gli veniva assegnato proprio da quella repubblica federale che era stata oggetto delle sue virulente critiche, poi per altri dissapori, quando ancora una volta la CDU voleva vietarne le poesie nei libri di testo adottati nelle scuole della Renania-Vestfalia, una vera persecuzione, e infine venne il momento fatidico in cui il vecchio combattente, recatosi nella ridente località termale di Baden-Baden per registrare una trasmissione sulla notte dei cristalli, passò direttamente dagli studi televisivi all’ospedale locale, dove fu sottoposto a un’urgente operazione, un tumore, naturalmente, e infine si spense dopo diciotto giorni di coma, per essere tumulato nel cimitero di Kensal Green della sua Londra, la città che gli aveva sempre offerto un riparo sicuro.

Per tutti e quattro amerei poter individuare oggi l’attimo preciso dell’ultimo incontro, dell’ultima stretta di mano, che con Gerald, come con Erich, è avvenuta sicuramente sulla spiaggia quella sera, mentre con Johannes e Volker si svolse forse la mattina dopo al famigerato albergo dove dovemmo darci appuntamento per un ultimo abbraccio, ma la verità è che non ricordo, pur non essendo ancora decrepito e del tutto svanito non ricordo quasi più nulla, e se l’importanza delle persone non è necessariamente proporzionale al tempo che si è trascorso insieme, fatto sta che l’abbondanza di volti, fisionomie e destini con cui in ciascuna fase delle nostre vite veniamo a contatto finisce per elidere le tracce estreme anche di coloro che abbiamo apprezzato, stimato, perfino amato o idolatrato, l’esercizio essendo tanto più rapido e indolore quanto meno le persone in questione si sono potute insediare davvero nell’esistenza quotidiana che conduciamo, è così che il cervello si mantiene in esercizio, del resto, bruciando con cura indizi e prove a nostro carico, alterando, falsificando e sostituendo, quindi adesso non posso proprio chiedere alla mia mente l’impossibile, dovrò accontentarmi di quel poco o molto che è in grado di offrirmi ed esserle anche grato per non avermi piantato in asso del tutto, intanto però una cosa posso dirla, parafrasando Reich-Ranicki, l’insigne critico, e cioè che se Erich non dev’essere dimenticato, e questo è sacrosanto, ebbene, ciò non deve accadere nemmeno agli altri, né a nessun vero poeta, lasciamo pure che trascorrano inesorabili i giorni e gli anni, che passino le mode, ce ne importa meno di nulla, ma una voce, quand’è autentica, deve restare, e se scrivere ha un senso, rifletto adesso, pur senza illudermi che questo mio modesto racconto possa resistere al torrente impetuoso che chiamiamo tempo, è appunto quello di ridare voce a chi l’aveva e l’ha perduta, compiere un’opera di pietoso e affettuoso restauro, ricordare ai giovani che giovani siamo stati anche noi, e prima di loro, caramba, zut alors e verflucht nochmal, ma che questo alla resa dei conti non aiuta a sopportare meglio la vecchiaia, le malattie, l’approssimarsi del declino e della morte, la morte che nessuno risparmia tranne le opere, o almeno qualche opera, le migliori, quelle che non temono le rughe perché non si sono mai imbellettate o peggio sottoposte a chirurgia estetica, la chirurgia estetica le avrebbe anzi distrutte, solo questo la mia scarsa e frammentaria e inutile esperienza di vita mi consente di dire, le opere ci sono superiori perché se tutto va bene, se abbiamo fatto un buon lavoro, ci sopravvivranno, trascendendo le nostre peripezie biografiche e in fondo ignorandoci.

Mentre accovacciato sul palco sentivo la tensione rilasciarsi, per qualche minuto non avvertii quasi più nulla di quanto mi avveniva intorno, il tutto si mescolava anzi in un flusso indistinto e remoto, come in una dissolvenza cinematografica o, stando a quanto raccontano, nelle esperienze di pre-morte, quando ci si stacca dal proprio io e lo si contempla da una certa distanza, finché, nell’osservare dall’alto il me stesso perduto in quella selva di teste, una di queste mi sembrò di riconoscerla, quei capelli corti e tagliati male, in maniera approssimativa, da maschiaccio, la figura efebica e sfuggente, la tunica bianca senza alcun abbellimento, il modo di sgusciare fra un gruppo e l’altro alla perenne ricerca di qualcosa che non avrebbe mai trovato, la vidi, la riconobbi e subito dopo la persi nuovamente, in quell’intrico disarticolato di gambe e braccia e torsi e glutei, prima che nel mio cervello l’operatore addetto alle immagini riuscisse a trovare una nuova focale per imprigionarla definitivamente nell’obiettivo, ma non funzionò, ci mise troppo, anche questa sarebbe stata (e fu) l’ultima volta, me ne resi conto non appena, con un brivido, tornai in me, non appena ricominciai a sentire le urla e i richiami, il profumo del mare e delle nuvolette di marijuana, la confusione che tutti univa e tutti trascendeva. Emersi dal mio black-out momentaneo con un sentimento confuso di perdita, quasi che l’essenza della grazia, e forse dell’amore, mi fosse sfuggita per sempre tra le dita della mano aperta, come molecole d’acqua che una volta sprigionate zampillano ovunque e non si riescono a trattenere, emersi rizzando il capo e inviando subito i miei occhi in esplorazione e in appoggio al pilota automatico che li aveva sostituiti per un solo attimo di smarrimento, ma non ci fu più niente da fare, della sgattaiolante figurina nemmeno l’ombra, nemmeno il ricordo di un passaggio, solo la fioca orma lasciata da un’impressione, e cos’è mai l’impressione se non la delicata pressione su una superficie che lì per lì si lascia condizionare ma con il passare del tempo tende a ridistribuire la propria composizione atomica in modo da ripristinare la forma originaria e rendere quella medesima pressione retroattiva, come mai avvenuta, tanto da instillare nel soggetto stesso seri dubbi sulla sua percezione delle cose, della cosiddetta realtà, così avvenne anche quella sera di giugno, la natura oltre a non fare salti tende anche a chiudere i buchi, ahimé, e gli spazi che il movimento di Estela aveva provvisoriamente aperto si rinserrarono subito, le comitive tra le quali faceva la spola spostandosi del resto in modo incessante e fortuito, coprendo ogni traccia del transito di chiunque, e così lei riuscì a dileguarsi, e dileguandosi ancora una volta a ingannarmi, forse involontariamente, stavolta, non voglio certo accusarla di alcuna forma di premeditazione, ma in ogni caso io compresi in quel momento che per il resto dei miei giorni mi sarebbe stato sì offerto il privilegio di agguantare la grazia (e l’amore), ma solo a momenti e a intermittenza, per i brevi attimi in cui la stessa si sarebbe distratta e lasciata sfiorare, niente di più né di meno, e che avrei dovuto considerarmi comunque un essere fortunato già solo per aver potuto essere testimone della sua epifania, non a tutti è dato, temo, non a tutti, benché nulla di particolare abbia mai fatto, lo confesso, per meritare un simile privilegio.

In compenso in quelle due serate avevo imparato moltissime cose, elementi disparati di un’inutile cultura generale che mi sarei portato dietro per tutta la vita, non so, ad esempio che un bottiglione di vino alla borsa nera del festival poteva costare ben ventimila lire, mille lire al litro, un’enormità per una schifezza corrotta, sofisticata e fatta passare per vino dei Castelli, che portare la barba è un modo per non essere nudi davvero, ragion per cui quando un portatore di barba si spoglia del suo asciugamano bianco per spogliare a sua volta i poeti delle loro ipocrisie in realtà l’effetto che suscita è solo una certa pietà, o fastidio, che i mangiatori di fuoco il fuoco in definitiva non lo mangiano, ma lo sputano, che non bisogna mai dar credito ai cartelloni, ai programmi di sala e alle edizioni straordinarie, perché esagerano, mistificano e propalano informazioni errate, che i poeti veri sono quei tristi figuri capaci di domandare al gentile pubblico di essere applauditi, ovvero un piccolo incoraggiamento, e, se ciò non accade, decenni dopo morire di AIDS dimenticati da tutti, primi fra tutti gli spettatori urlanti di quella stessa serata, che il sesso e l’amore non sono due cose disgiunte, piuttosto interagiscono in modo misterioso e dissimulato, ma comunque e sempre fuorviante, che un hotel inutilizzato per anni resta una vuota carcassa anche se ridipinto, che un soffio flautato nel microfono può riportare sì la calma, ma solo a condizione che il guru sia notevolmente ispirato, o alticcio, che è sempre bene diffidare di chi si presenta con occhialetti da insegnante, il pizzetto o vestendo camici ornati da alamari, soprattutto se si tratta di poeti o presunti tali, ma che quelli in camicia rossa e biglietto aereo pagato dal partito sono ancor meno raccomandabili e infinitamente più pericolosi, che i grandi cartelli rossi recanti scritte in nero e giallo raramente dicono la verità, che una potente amplificazione uccide il respiro delle maree, che in fondo è giusto chiedersi come facciano i poeti a sentire e provare ed esperire certe cose, cose a cui il resto del mondo è del tutto insensibile, e cosa conti ciascuno di noi quando ha intorno nove o diciannovemila persone che lo spingono in un angolo, lo accerchiano, lo insabbiano, che i divi del rock non arrivano mai, soprattutto quando sono attesi da folle osannanti e nessuno ha chiamato l’agente per proporgli un misero contratto, che la chiusura di un albergo per disinfestazione è un concetto relativo, che i minestroni possono essere cucinati ovunque e conditi di qualunque cosa, compresi tanti “cioè”, che chi scrive può sempre scegliere se guardare dall’alto e dalla distanza o se entrare nell’agone e mettersi in gioco, ma in questo caso dev’essere pronto a tutto, anche a ritrovarsi fra le prime vittime sacrificali, che Roma è stata caput mundi almeno fino al Settantanove, e dopo mai più, né mai più lo sarà, mettiamoci l’anima in pace e una pietra sopra, sopra alle tante pietre che già custodiamo, e che in definitiva l’euforia giovanile nasconde sempre un’ungarettiana allegria di naufragi.

Tutto questo sospettavo di aver imparato, tutto questo si rincorreva, si acciuffava e mi sfuggiva di nuovo nella testa confusa mentre, finito e archiviato anche l’ultimo spettacolo, mi allontanavo barcollante sulla spiaggia, quando i tubi Innocenti e le assi di legno del palco, così sollecitati in quelle tre serate e notti di baraonda, e dopo aver emesso a più riprese e a mo’ d’avvertimento brontolii e schiocchi che avrebbero dovuto attrarre l’attenzione molto di più dei muggiti di Ginsberg, infine cedettero e crollarono con uno schianto di sollievo, fra grida e risolini e gente che accorreva preoccupata a vedere se vi fossero superstiti, quando invece l’intelligenza della cosiddetta materia inerte fece in modo di esalare l’ultimo respiro quando più nessuno la calpestava, stoico e paziente il palco aveva atteso in altre parole che tutti ne fossero scesi, poeti presentatori accompagnatori giornalisti scribacchini intere famiglie facinorosi e giovani comunisti in servizio d’ordine, poi, dopo aver controllato che nessuno si fosse attardato su un angolo o su uno spigolo o su uno spuntone si era ripiegato su se stesso e aveva deciso, finalmente, di riposarsi. Fu un tracollo parziale e discreto, proprio come un pachiderma che si adagi su un fianco per cambiare posizione, ma tutti in seguito vollero enfatizzarlo e arricchirlo di interpretazioni e significati più o meno reconditi, ci fu chi lo vide come la fine non solo di un’esperienza caciarona e cialtrona, ma di tutta un’epoca d’illusioni e mistificazioni che ci avrebbe traghettati verso anni di durezze e crudeltà, chi volle farne l’epilogo del variopinto crescere e dispiegarsi dei movimenti spontanei, slegati dalla partecipazione alla politica, per altri, più brutalmente, quel crollo sancì l’inizio dell’egoismo, di un’epoca in cui ciascuno avrebbe cercato di salvarsi inguaiando il prossimo, mentre per me fu semplicemente quel che fu, un cedimento strutturale che andava di pari passo e di concerto con il cedimento di tutte le mie certezze di ragazzo, con i riti di passaggio e l’indolente avvicinamento all’età matura, un anno di scuola mi mancava, ancora, per affrancarmi da quella scomoda adolescenza e prendere il mare non con il battello dei poeti blasonati, ma con la mia modesta noce di cocco, il Tirreno mi stava proprio aspettando, pensai, un anno di scuola in cui quelle serate e il crollo del palco mi avrebbero accompagnato tutti i giorni, influenzando forse anche la scelta della facoltà universitaria, delle materie da studiare, del futuro, ma naturalmente in quel momento nulla di tutto questo potevo ancora prevedere, fui solo e ancora una volta testimone, testimone della confusione, della sabbia che produceva fumo, della gente che correva all’impazzata in tutte le direzioni e soprattutto gridava, neanche fosse accaduta un’enorme sciagura, forse mi ritrovai a correre e gridare anch’io, come tutti, e di sicuro anche per me fu un’incerta, possibile sciagura e soprattutto la fine, la fine di un mondo, o meglio e al tempo stesso l’inizio di una notte che m’avrebbe condotto senza risparmio, con un profluvio di suoni, luci, energia, riverberi incontrollati e rullo di timpani, a nuove, promettenti aurore.

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10. Fine. Clicca qui per leggere le puntate precedenti.

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