Marco Bruno
Ritratto di un poeta appartato

Poesia dell’esserci

Introduzione alla poesia di Bogusław Żurakowski, autore polacco che non ha mai voluto appartenere a nessuna formazione, quindi è rimasto isolato e solo

Bogusław Żurakowski, poeta polacco vivente nato nel 1939 in territorio allora polacco ma attualmente ucraino, è un grande cracoviano d’adozione, per ispirazione, per professione (è stato professore universitario per decenni), ma anche direi per inclinazione, dolore, gioia e destino. È uno dei maggiori esponenti della “poesia pura” bremondiana e uno dei maggiori poeti polacchi ed europei della seconda metà del Novecento e del Duemila. Non ha mai voluto appartenere a nessuna formazione, quindi è rimasto isolato e solo. È oggetto dei miei studi da molti anni.

Le mie ricerche, che sfociano anche in traduzioni come quelle che porgo al lettore in questo servizio, mi portano attualmente a fare le seguenti affermazioni, che vorrei costituissero un viatico (insieme a Il paradosso della poesia, in corso di pubblicazione presso Aracne, e ai lavori apparsi su Zeta delle edizioni Campanotto).

In Żurakowski il confine heideggeriano, duramente osteggiato da Franco Basaglia, fra essere ed esserci, viene completamente abraso. In Żurakowski non è questione di ontos o di essere secondo determinate condizioni. Essere è esserci e viceversa. Ma la poesia è anche arte nel senso di kreowanie (dare vita; creatio ex nihilo di un referente del reale), che fa pensare anche all’artificio (cfr. Dante:)

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento

L’essere altrove corrisponde all’essere veramente; ma esiste anche l’essere secondo la storia, che è un altro modo di essere veramente, o un altro modo vero di essere, fra esistenzialismo e simbolismo. Dire la verità su se stessi – dire la verità dell’arte – far dire la verità di se stessi all’arte. Essere è essere poeta; essere poeta è essere un’idea; essere un’idea vuol dire anche essere un fenomeno. Il quadro cartesiano, la griglia, è la gabbia e la libertà dell’essere; lo spazio-tempo è la garanzia della metafisica; la metafisica è l’anelito dello spazio-tempo.

Bogusław Żurakowski, come il sottoscritto, solo altrove riesce a essere qui.

Il “qui”: la parola ha bisogno di una cosa che non c’è (ecco la riprova e la contraddizione), quindi la parola ha bisogno di un’altra parola

L’essere non ha bisogno di nulla

In “essere qui” l’essere è ubicato in un linguaggio che deve fare da garante e da schermo; “qui” l’essere dipende da una parola

Cioè è nel linguaggio, nella creatio della parola (quindi della vita), che l’autore riesce a essere

essere se stesso
essere poeta
essere libero.

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Ciò che non ho portato a compimento

Me lo ricordo, è stato ieri:
Come ha preso a dolermi il cosmo della testa –
Stavo lentamente dimenticando che avrei dovuto preparare
L’acqua per il tè, scrivere uno schizzo
Sul tempo presente nella poesia di Przyboś,
Apparecchiarmi il letto per il sonno,
Rinvenire una modalità di difesa contro la menzogna
E i falsi testimoni, dimostrare l’innocenza
Della poesia e la verità del mito di Prometeo.
Quando il dolore è stato assorbito dall’oscurità
E i dolci cristalli delle stelle si sono composti
In totalità – il vaso si è colmato di un solo
Pensiero. Sono più vecchio di un giorno, del giorno
Trascorso – di ciò che non ho portato a compimento.

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La prova [d’identità]

Cerco di rammentarmi – forse sono già stato qui
Un tempo, da bambino. Ma è impossibile. Non sono
Mai corso giù da questa collina, sulla quale adesso sto eretto.
Non ho mai respirato quest’aria insieme alla terra
Odorosa del corpo di una matura donna dagli occhi chiari.
Non ho mai camminato esitando sull’erba morbida come se si trattasse di capelli.
Non ho mai sentito suoni pronunciati così, sz, cz, ż,
Come appunto qui sussurrano le erbe, quando mi confidano un segreto.
No, non sono mai stato qui. Eppure ricordo questo luogo.
Forse come particella di mio padre ho partecipato all’essenza, alla sostanza di questa strada, vi
sono rimasto conficcato, questa strada
Che adesso minuziosamente ricopre del tutto i piedi di polvere.
Forse come bocca di mia madre ho cantato un canto
Sulla sorte di coloro che attizzavano il focolare coi propri corpi.
Forse è la memoria genetica a rivelarmi le parole.
Forse.

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Il viaggio

Non riesco a dimenticare le montagne di Tabula Rasa, donde mi misi in cammino
Tanti anni fa. Mi addentro nel tempo, mentre il mio antico mondo
Continua a correre nel verso opposto: mucche dalle pezzature scurite di rosso,
Nivee capre, purissimi torrenti ed esseri umani appoggiati a bastoni.
Se sapessi dimenticare, invece no. La valigia sta accucciata sul pavimento.
Una voce scaturente da un’invisibile bocca preannuncia il futuro con una precisione al minuto.
Proclama anche un ritardo soggetto ad aumento o a diminuzione.
Nel frattempo io immobilmente ad un temporaneo tavolo taccio. Non riesco
A prendere la coincidenza con un treno comune e ad allontanarmi nella direzione indicata sul
biglietto.
Ed è così che continuo a viaggiare al di fuori di un orario di straboccanti direzioni, indirizzi, stili.
Se sapessi dimenticarmi di me stesso – del pulsante battito, sulle ruote, del sangue
nell’oscurità
Battito che mi desta e mi richiama all’amore come alla preghiera,
se sapessi dimenticarmi del viaggio.
La dedico ad Adam Wierciński

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Principio da cui si parte

Partiamo dal principio che lo spazio divenga più diafano, così che
Si possa vedere attraverso di esso l’obiettivo del viaggio – il fiume umano.
Una testa accanto all’altra, gli occhi nascosti sotto le pietre delle palpebre.
Diciamo che sarò o sono su questa strada:
Vado nella direzione indicata dagli occhi di un cieco, girando
Nella prima via che càpita dietro l’angolo che è la cornucopia, dove
Stilla una luce arancione. Ecco che sono inserito
Nella corrente di coloro che sono periti per una causa o che sono ordinariamente morti
fra le braccia dei figli.
Odo la voce di mio padre, sebbene non intenda le parole –
Come fare a comprendere il monito che mi è trasmesso.
Ancora una stretta di mano riempita d’aria, perché cos’altro mai sarà
Questa cosa che ci trattiene per un istante nella mutevolezza.
Ancora un ulteriore distacco ed ecco il vetro del vagone –
Io nello scompartimento del tempo. La mia bocca si muove,
Ma le parole non raggiungono le orecchie di nessuno, di conseguenza scrivo.

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(poesie da Il concerto del silenzio, edizioni Czytelnik, 1984)
© per gli originali polacchi: Bogusław Żurakowski
© per le traduzioni in italiano: Marco Bruno

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