Riccardo Bravi
La scomparsa di un testimone del '900

Albert Memmi, l’uomo e la patria

Albert Memmi, con Leopold Sédar Sénghor, Aimé Césaire e James Baldwin, è stato uno degli intellettuali che meglio hanno scandagliato la falla novecentesca del colonialismo. Fino a sovrapporre la patria con l'identità

Di Albert Memmi è arrivato poco in Italia, quasi niente. Lo scrittore e saggista franco-tunisino, morto a 99 anni venerdì scorso 22 maggio, al contrario ha acceso il dibattito francese sulla decolonizzazione quando ancora si credeva che alla figura del colonizzato facesse seguito immediatamente quella del decolonizzato. Sogno romantico, capeggiato da Frantz Fanon, al quale però Memmi non ebbe mai creduto. Questo passaggio, infatti, magistralmente indagato nel saggio del ’57 Portrait du colonisé précédé de Portrait du colonisateur (arrivato in Italia per i tipi di Liguori vent’anni dopo la sua pubblicazione) prefato da Jean-Paul Sartre e considerato come il caposaldo della stagione degli studi “postcoloniali” proseguiti nei decenni successivi da Edward Said e da altri eminenti studiosi provenienti dal mondo africano e da quello mediorientale, rappresenta il vero e proprio chef d’oeuvre di Albert Memmi.

Lo scrittore, di origini ebraiche ma cresciuto nella Tunisia coloniale, dunque in un paese a maggioranza musulmana, è il primo a capire che i rapporti tra colonizzato (lui stesso lo è, vista la presenza minoritaria degli ebrei sefarditi in suolo tunisino) e colonizzatore siano interdipendenti l’un l’altro, destinati infine alla loro scomparsa reciproca. In questa singolare vocazione di scrittore – dichiarerà lui stesso nelle pagine di un suo racconto dalla struttura insolita, Le Scorpion ou la confession imaginaire, che “la letteratura mi ha salvato”, in quanto senza l’esercizio della scrittura sarebbe stato impossibile, a sua detta, di ricostruire e dare senso alla fitta intelaiatura di una lunga vita dipanata tra tre culture molto diverse tra di loro: l’ebraica, la tunisina, la francese – che darà vita a romanzi, saggi, poesie, curatele ed interviste lungo l’arco di tutto il Novecento, la voce di Memmi è stata affiancata da altri eminenti testimoni del Secolo breve: Albert Camus, che ne apre con uno scritto il primo romanzo, La statue de sel, il già citato Sartre, l’ex presidente senegalese Leopold Sédar Sénghor, Aimé Césaire e James Baldwin per citarne alcuni.

Convinto sostenitore della creazione dello Stato d’Israele – lui che essendo stato internato nei campi di concentramento tunisini ad opera dei tedeschi e degli italiani si farà artefice,  nel corso di numerosi saggi e interventi, dell’idea che gli ebrei di tutto il mondo avrebbero avuto bisogno di un loro locus amoenus in cui potersi proteggere dopo aver patito gli orrori della Storia – seppur nella convivenza pacifica di ebrei e palestinesi, difensore di qualsiasi essere umano oppresso (che sia nero, donna, proletario, domestico, ebreo o colonizzato), Albert Memmi dialoga con qualsiasi forma di oppressione sociale cercando di sistematizzare gli originali nuclei concettuali del suo pensiero, il quale partendo sempre da una esperienza individuale giunge infine all’universalità delle sue conclusioni.

Uno scrittore di cui dovremmo sicuramente accorgerci come non abbiamo fatto in passato, uno di quegli ultimi intellettuali che sin dagli esordi letterari ha sempre cercato di farci riflettere su ciò che di più ci costituisce come esseri umani: chi siamo e perché la nostra vita ha un senso? Come è possibile vivere con la parte sconosciuta che ci co-abita?

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