Raoul Precht
Castelporziano/4

Quella stentorea Pleiade

«L’importante era che glieli cedesse senza fare il prezioso, che potessero pubblicarli insieme a quelli di tutti gli altri, la stentorea pleiade dei vari Ginsberg Evtušenko Ferlinghetti Orlovsky...»

Riassunto delle puntate precedenti: il romanzo segue le avventure di un giovanissimo traduttore chiamato a occuparsi dei poeti tedeschi presenti al Festival di Castelporziano. Nella sezione precedente il protagonista ha avuto un primo contatto con il folle ambiente dei poeti e cominciato il suo lavoro.

* * *

Mentre camminavamo con il sole negli occhi, e cominciavamo a sudare abbondantemente, mi disse che poco prima gli era capitato in mano il giornaletto del festival, e che aveva visto di rado una cosa così malfatta, se l’era fatto tradurre e spiegare da Gerald, che gli aveva confermato come sulla prima pagina si parlasse della venuta di Enzensberger e di Biermann, che invece non c’erano e non sarebbero neppure arrivati, a lui non risultava nemmeno che fossero stati invitati, o magari sì e ave­vano disdetto provvidenzialmente e per loro fortuna all’ultimo momento, fatto sta che non si poteva scrivere quel che si vo­leva, un minimo di controllo serve anche ai rivoluzionari e agli anarchici, se poi andavo a vedere invece a pagina 4 c’erano il suo nome, quello di Volker e quello di Johannes, mentre Ge­rald era ignorato anche lì e in compenso erano stati aggiunti Rolf Haufs e perfino Peter Handke, che non c’entrava davve­ro niente. C’erano poi i cosiddetti “ricordi d’egotismo” dell’assessore, che evidentemente giocava a fare lo Stendhal senza averne però il fascino e la malia,  mentre il resto del giornaletto era composto con rispetto parlando da eminenti stronzate che nessuna persona sana di mente avrebbe mai let­to – a lui erano bastate e avanzate le poche righe tradotte da Gerald –, ed era davvero un peccato che l’organizzazione non avesse pensato all’opportunità di dotarsi di un ufficio stampa come Cristo comanda, in mano a gente minimamente compe­tente, ma così non era stato, o forse non erano avanzati soldi a sufficienza, alla fine, con queste amministrazioni di sinistra dalle mani bucate tutto è possibile, e adesso era inutile recri­minare, bisognava anzi fare il possibile per evitare di naufraga­re tutti in quel mare piatto, troppo tranquillo, sentenziò, per non sembrargli vagamente minaccioso. Io cercai di difendere l’indifendibile, un minimo di orgoglio nazionale la mia metà italiana doveva pur inalberarlo, ma effettivamente il giornalet­to sembrava essere stato redatto da semianalfabeti, o da gente che da analfabeta aspirava a passare, per moda o per calcolo, perché magari pensavano di raggiungere così una più vasta schiera di lettori, ma certi articoli erano proprio illeggibili per chiunque, questo dimostravano frasi come “quello che deve accadere lo faremo accadere passando e imprimendo nella car­ta il movimento”, erano puro nonsense ma senza nemmeno il gusto del nonsense o una minima patina di dadaismo, oppure l’aulico passaggio “se il Testo dunque come linguaggio scritto è la summa che ci collega con il Tempo dell’Uomo… Il lin­guaggio Verbale dello spazio è l’Universo? Il primo obiettivo strategico di un Poeta rivoluzionario è il momento cosciente del proprio”, ove basterebbero le maiuscole, che ho fedelmen­te riportato, a condannare l’estensore a spiegare le sue imper­scrutabili ragioni a un metaforico plotone d’esecuzione, e me­no male che sulla quarta e ultima pagina avevano poi scelto di piazzare in bella evidenza la foto di una sedicente presentatri­ce ovviamente seminuda, tanto a rimarcare quanto fosse di­verso da quello comune l’utilizzo rivoluzionario dell’immagine della donna, del corpo femminile e in particolare delle sempre mirabolanti (benché in questo caso scarsine) tette, a cui nes­suno, dall’ultrasinistra all’estrema destra, intendeva e intende evidentemente rinunciare, sicché i testi in questione, si può stare tranquilli, non li avrà letti nessuno, dissi a Erich, ma tutti in compenso si saranno concentrati sulla foto, in bianco e ne­ro, d’accordo, ma pur sempre di una graziosa e leziosa ven­tenne in biancheria intima di pizzo e giarrettiera, Erich scosse la testa, è incredibile, disse, davvero incredibile, ma che ci vuoi fare, comunque ormai siamo qui, no?, allora godiamocele, le splendide giornate di questa splendida estate.

A quel punto decise di tornare indietro, forse stanco di cam­minare controsole, con gli occhiali che rifrangevano i raggi e sembravano creargli una specie di aureola laica intorno al vol­to, e io, che da lui già mi sentivo felicemente dipendente, ac­colsi di buon grado il dietrofront e mi piazzai ora alla sua sini­stra, mentre sempre a pochi passi dai flutti ripercorrevamo lo stesso tragitto, intenti a evitare gusci, conchiglie, meduse e qualche fanciulla già abbronzatissima e discinta, ma adesso col passo spedito del ritorno alla base, al sedicente e semidirocca­to albergo che li ospitava tutti, non so con quale coraggio gli organizzatori avevano pensato di avvalersi di una struttura rimasta chiusa per tre lunghi anni, tanto che a tutt’oggi non ha ancora riaperto, pare che i lavori siano (da sempre) quasi finiti e che l’inaugurazione del nuovo hotel a tre stelle e della scuola di formazione alberghiera a esso collegata, grazie ai denari del Fondo sociale europeo, sia ormai prossima, non so se mi spiego, prossima e attesa da quel lontano 1975, quando la Re­gione Lazio aveva deciso di chiuderlo a seguito di una verten­za con i sindacati, un albergo che aveva raggiunto il momento di massimo splendore in occasione del capodanno del 1960, per puro caso l’anno in cui sono nato io, quando nel corso del cenone, mentre io festeggiavo giusti giusti venti giorni di vita, lo spettacolo era stato presentato da Corrado e allietato da una cantante eccezionale, tale Mina, ma era fin dall’inizio dell’anno precedente che la struttura, nata sempre come scuola alber­ghiera, con i suoi balconi laterali posizionati a ventaglio che consentivano la vista del mare da tutte le stanze, era stata aperta al pubblico, e in particolare a personaggi dello spettaco­lo e dello sport, e trattando e viziando questi allegri figuri i giovani barman, cuochi e camerieri si facevano le ossa, in atte­sa di spiccare il volo e affrontare la clientela internazionale. Verso questo paradiso che di paradisiaco non aveva più nulla era diretto Erich, con il sottoscritto al fianco, a passo di mar­cia, e io pensai che delle sue poesie non avremmo più parlato, ormai, forse non ce n’era neanche bisogno, mi avrebbe detto quali tradurre e sarebbe andato tutto bene, utilizzava un lin­guaggio semplice e diretto, senza voli pindarici, ma poi a un tratto si fermò e mi disse, in fondo tutta quest’esperienza mi sembra all’insegna del nonsense, del divertimento puro, e allora voglio che tu traduca anzitutto un sonetto che non potrei de­finire in altro modo, io stesso che l’ho scritto non mi ci racca­pezzo, magari ci riuscirai tu, visto che per tradurlo un minimo di senso dovrai trovarlo, è proprio così, a differenza di tutte le altre poesie in cui sono così severo e impegnato, qui mi sono proprio lasciato andare, mi sono divertito, spero che ti diverti­rai anche tu, in fondo è una sfida intellettuale, a cosa servite mai voi giovani se vi sottraete alle sfide, ma io, risposi, non avevo alcuna intenzione di sottrarmi, al contrario, che mi sot­toponesse pure il suo sonetto e in qualche modo ne sarei ve­nuto a capo, non chiedevo di meglio. E sia, allora, sghignazzò come se mi stesse giocando un brutto tiro; e sia, se accetti la sfida, l’avrai, e se poi la traduzione viene anche bene, cosa di cui del resto non ho motivo di dubitare, sulla rivista caldeggia­ta dal tuo amico professore la faremo mettere per prima, pri­ma di tutte le altre, prima di quelle politiche, ma sì, giochia­mogli questo tiro mancino, al tuo caro germanista, divertia­moci un po’ in questa valle di lacrime che è la letteratura im­pegnata, e io, dal basso della mia inesperienza, non sapevo davvero cosa rispondergli, avevo intuito che per colui che Erich definiva il mio amico professore ogni suo desiderio sa­rebbe stato un ordine, non avrebbe mai osato contraddirlo, meno che mai su una questione tanto futile come la succes­sione in cui i suoi versi sarebbero apparsi, l’importante era che glieli cedesse senza fare il prezioso, che potessero pubblicarli insieme a quelli di tutti gli altri, la stentorea pleiade dei vari Ginsberg Evtušenko Ferlinghetti Orlovsky, avrebbero fatto un numero speciale, doppio, che non sarebbe uscito che un anno più tardi, ma questo ancora non potevo immaginarlo, io prevedevo un ritardo fisiologico di, non so, tre o quattro mesi, il tempo di raccogliere le testimonianze delle varie personalità, ma si sa, il tempo passa in fretta, correre dietro a tutti per ot­tenerne il contributo richiede energie, il germanista e il diretto­re suo complice avrebbero avuto anche altre gatte da pelare, nel frattempo, concorsi, collaborazioni, ristrettezze finanziarie, l’esigenza di rimpinguare le sparute pubblicazioni così da in­crementare al tempo stesso le possibilità di carriera accademi­ca, tutto un insieme di cose, insomma, avrebbero congiurato per far ritardare l’uscita di quel numero definitivo, vera sum­ma di tutte le considerazioni che nel frattempo sarebbero state espresse disordinatamente su giornali, gazzette e bollettini, e la rivista, a confronto di tante estrinsecazioni effimere, sarebbe diventato alla fine, malgrado tutto, l’unico punto di riferimen­to solido, dando voce ai pensieri e ai giudizi di tutti, positivi o negativi che fossero, con una non casuale prevalenza dei pri­mi, comunque, resi più simpatici e accattivanti dal fatto di non essere polemici, di voler anzi a tutti i costi evitarla, la polemi­ca, perché la poesia a certe cose è superiore, superiore alle esi­genze dell’uomo comune, agli imperativi dell’organizzazione, alle ubbie del mondo civilizzato o che tale crede di essere, questo il messaggio che anche la rivista, oltre al festival, inten­deva veicolare. Intanto l’hotel si stagliava di nuovo davanti a noi, sempre più vicino, ed Erich recitò allora un paio di versi incomprensibili, una quartina, la prima del sonetto, mettendo­si poi a ridere dinanzi alla mia faccia stupefatta, te l’avevo det­to, aggiunse, che non hanno senso, nessunissimo senso, è questo il bello, voglio proprio vedere cosa saprai tirarne fuori, ragazzo mio, e ti dirò di più, quando mi faranno l’onore di darmi il microfono per il mio prezioso slot, i miei cinque o die­ci minuti di gloria, ce la infileremo dentro, questa poesia as­surda, vediamo l’effetto che gli farà, a questi presunti rivolu­zionari, dinamitardi e bombaroli dei miei stivali, quando si aspetteranno un’ode al socialismo o una cruda condanna del capitalismo e invece noi ce ne usciremo con questa, come la traduci “Leilied bei Ungewinster” tu?, non so, forse “litalìa tempastiale”, dissi io, ecco, perfetto, continuò Erich, ce ne usciremo con questa litalìa tempastiale, come dici tu, e non capiranno un’acca, i compagni, perché una volta tanto non c’è proprio niente da capire, rimarranno basiti, e solo noi due sa­premo quello che stiamo facendo, e cioè niente di buono, ma nemmeno niente di cattivo, in fondo, soltanto una delicata presa per i fondelli dell’augusto pubblico e soprattutto della platea di intellettuali con cui ci saremo annoiati a scambiare in precedenza accurate diagnosi sullo stato catastrofico in cui versa il nostro stupido mondo.

Ma ecco una persona seria, continuò, riscuotendosi subito dal­la malinconia che accompagnava le sue ultime parole, e per serio intendo autentico, e indicò Volker che, a cavalcioni su un muretto, guardava nella nostra direzione e ci vedeva avan­zare faticosamente, alzando fieri spruzzi di sabbia, uno, ag­giunse Erich, capace di non scrivere mai nulla che non abbia un senso compiuto, è un ragazzo in gamba, sai, ma appunto serio, troppo serio, e non mi riferisco alla sua conversazione, è anzi una persona piacevolissima con cui passare una vacanza forzata come questa, mi riferisco all’animo, che si riflette in quello che scrive, anche se poi dovrei forse stare zitto, in fon­do mio padre è stato massacrato dai nazisti, mentre il suo, di padre, era uno di loro, e non so quale sia la tragedia peggiore per un figlio, il mio è morto di botte facendo il suo dovere per difenderci dall’orrore in camicia bruna, il suo è scomparso sul fronte russo facendo il suo dovere proprio in camicia bruna, invece, con il grado non equivoco di Standartenführer, e gli ha lasciato in eredità tutta questa pesantezza, ma, ripeto, è un bravissimo ragazzo, e sono sicuro che ha già organizzato una bella cartellina per te con tutte le poesie che vorrà farti tradur­re e che resterà paziente al tuo fianco, pronto a darti tutti i chiarimenti che vorrai, se solo se ne trovassero più spesso, di poeti così organizzati, ma lui dev’esserlo per forza, è anche segretario generale di un’organizzazione per gli scambi con Israele e l’Europa orientale, sai, ha delle responsabilità. Intan­to, Volker aveva preso a sbracciarsi e a salutarci e ci sembrò naturale tagliare in diagonale sulla sabbia verso di lui, l’unico che fino a quell’istante mi era sembrato contento di esserci, o forse solo più indifferente degli altri ai disagi, almeno per quel poco che eravamo riusciti a parlare, di lui sapevo quello che Erich mi aveva appena confermato, che si trattava cioè di un poeta impegnato e che a questo impegno amava piegare una delle forme poetiche più tradizionali, ovvero il sonetto, con risultati spesso notevoli, ma di questo mi sarei reso conto do­po, lavorando sui suoi testi, in quel momento l’immagine pre­valente era quella di un uomo tra i quaranta e i cinquanta, un po’ più basso di me, con la faccia aperta e sorridente, i capelli, che gli coprivano le orecchie, con la riga da una parte, una camicia a quadretti dalle maniche rimboccate con cui non sembrava soffrire il caldo, uno che visibilmente aspettava che ci avvicinassimo ancora, uno che (non so perché) sembrava anzi aspettare qualcosa o qualcuno da sempre, da quand’era nato, forse la pace, la tolleranza, la comunione tra i popoli, cose che a Castelporziano sembravano vagamente passate di moda, anche se si sarebbe blaterato ad nauseam di fratellanza con i palestinesi e di comprensione per i “compagni che sba­gliano”, quelli avvinti alla lotta armata come a una ragione di vita, insomma, ma avulso da tutto questo, che non lo riguar­dava, Volker era lì e si limitava ad aspettare.

Fu come un passaggio di consegne, io mi fermai con lui a conversare, mentre Erich ci faceva un cenno col capo e tirava dritto verso l’albergo, magari sarebbe riuscito finalmente a far­si una doccia rinfrescante se c’era acqua a sufficienza, e non il rivolo che era uscito dal rubinetto fino a quel momento, e io pensai che Volker, ecco, aveva invece appunto un’aria fresca, come se non sudasse, o forse almeno lui era appena uscito da una doccia funzionante, in ogni caso mi accolse con simpatia, era abituato ai giovani, del resto, nella sua organizzazione la­vorava anzitutto con loro e per loro, era uno dei luoghi più popolari in Germania dove svolgere servizio civile in alterna­tiva a quello militare, mi disse subito, quando, chiacchierando del più e del meno, manifestai l’intenzione di non farmi assor­bire da quello che consideravamo e chiamavamo all’epoca (e in parte ancora oggi) il mostro militare, dico in parte perché nel frattempo di mostri in azione ne abbiamo visti anche altri, purtroppo, ma per i militari ho mantenuto malgrado tutto una salutare avversione,  quanto a Volker e alla sua organizzazione i giovani volontari erano al centro di tutti i loro pensieri e di tutte le loro azioni, li mandavano in missione di pace in Israe­le, in Grecia, in Norvegia, in Francia, in Olanda, in Polonia, in quest’ultimo paese, anzi, lottavano da anni – per l’esattezza da quando, nel 1970, Germania e Polonia avevano finalmente firmato il Trattato di Varsavia – per creare un centro d’incontro per i giovani ad Auschwitz, forse la cosa più im­portante, mi disse, che era riuscito a fare in vita sua era stato proprio avviare, in qualità di responsabile dell’organizzazione per la Polonia, quest’iniziativa, e ci sarebbero riusciti, ne era certo, malgrado tutti i problemi burocratici, ideologici, eco­nomici, e in effetti aveva ragione, fu inaugurato, il centro, ma solo nel dicembre 1985, alcuni anni dopo la sua morte, che sarebbe avvenuta, anche se allora nessuno di noi poteva saper­lo, alla fine di dicembre del 1980, e quindi appena un anno e mezzo dopo il festival, per una fulminante apoplessia cerebra­le dopo un intervento in occasione della “settimana per la pa­ce”, Volker sarebbe morto cioè in piena azione, a quarantasei anni, dopo un’esistenza costellata di crisi e problemi di salute di cui non si sarebbe sospettato (e allora non sospettai) nulla, vedendolo sempre allegro e sorridente, ma forse aveva ragione Erich, dietro l’apparente tranquillità e delicatezza di modi si celavano tensioni e spasmi che l’avrebbero lentamente distrut­to. Al di là del gioco di parole, anche la dedica che mi avrebbe lasciato alla fine della kermesse su uno dei suoi libri avrei dovu­to leggerla allora con maggiore acume, il volume era intitolato “Wol­fspelz”, “Pelliccia di lupo”, e lui buttò giù d’istinto, con la sua calligrafia larga, aperta e solare come il suo carattere, “per Raoul una vecchia pelliccia di lupo, affinché non si congeli nella fredda Roma”, frase che, scritta a una temperatura di quaranta gradi all’ombra, lì per lì mi fece ridere, naturalmente, ma che a ripensarci adesso, con la chiarezza dovuta alla di­stanza nel tempo e nei luoghi, alludeva forse anche al gelo che abbiamo dentro, quello della famosa frase di Kafka, il gelo che dobbiamo spaccare con l’ascia che ci è toccata in sorte, e an­cor più quello dei versi di Ghiannis Ritsos che più tardi avrei usato come epigrafe per uno dei miei romanzi, il gelo che è dentro di noi e non ci consente mai di riscaldarci, il gelo che anche Volker avvertiva e gli faceva sentire il bisogno di quell’inutile pelliccia di lupo, inutile perché in definitiva non avrebbe potuto salvarlo, e inutile anche perché se ne serviva anzitutto per nascondere il proprio male agli altri, e non per esorcizzarlo.

Ma naturalmente in quel momento nessuno di noi avrebbe potuto prevedere il futuro, neppure un futuro così prossimo, e se soffriva Volker fu abilissimo a dissimularlo, in quei tre giorni lo vidi sempre sereno, di buon umore, un vero pioniere della riconciliazione fra popoli diversi sempre in servizio, fu lui il primo ad avvicinarsi e a fraternizzare con i poeti russi, Evtušenko e gli altri, tutti quanti, compreso uno di cui ormai mi sfugge il nome ma che era una specie di megafono del re­gime, scriveva cose insopportabili, gonfie di retorica, nemme­no fossero ancora a difendere Stalingrado, eppure perfino con questo tizio bolso e rigido Volker riuscì a stringere un legame, se non di amicizia, almeno di cordialità, era davvero ecumeni­co e rispettoso dell’altro, di chiunque altro, lo spaventava solo l’indifferenza, non fosse per l’indifferenza, diceva, niente di ciò che è orrendo al mondo sarebbe possibile, guerre e ster­mini diventano realizzabili solo se la gente volge lo sguardo da un’altra parte, se finge di non vedere, di non sapere, è per que­sto che dobbiamo assolutamente unire le forze, tutti quanti, religiosi e miscredenti, quello che è successo in questo secolo non deve mai più verificarsi, la priorità assoluta è scongiurare in tutti i modi questo rischio, e per questo era così attivo nella sua organizzazione, poco attraente già nel nome, Aktion Süh­nezeichen, letteralmente “azione segno dell’espiazione”, ma Sühne può significare anche castigo, punizione, riparazione, indennizzo, hai ragione anche tu, mi disse, avremmo potuto e dovuto trovare qualcosa di meglio, ma quando sono arrivato, nel 1958, esisteva già da qualche anno, e a cambiarne il nome non abbiamo proprio pensato, o forse era già troppo tardi, ormai avevamo raggiunto una certa notorietà con le nostre iniziative per la pace, del resto non è che nemmeno Amnesty, mettiamo, permetta grandi voli di fantasia o sia una denomi­nazione particolarmente attraente, no?, conta solo quel che si fa, e noi siamo rimasti fedeli al nostro progetto originario, fare i conti con il passato, con una storia e un territorio sconvolti da un ventennio di follia, abbiamo ricostruito chiese, ostelli della gioventù, acquedotti distrutti dalla furia del nazismo, ab­biamo esportato le nostre capacità e il nostro lavoro in Polo­nia, Russia, Ucraina e Israele per ripristinare, sia pure con col­pevole ritardo, quello che il nostro esercito aveva saccheggia­to, bruciato e distrutto al suo passaggio, ma la mia funzione principale è quella di cercare finanziamenti, è un lavoro mas­sacrante, interminabile, per tutti i progetti che abbiamo in mente i fondi non bastano mai. Era questo anche il segreto della sua poesia, pensai, una poesia che più concreta non si può, in cui tutto obbediva alla stessa logica, stimolare il pen­siero critico del lettore avrebbe potuto lentamente convertirlo in finanziatore, o direttamente attraverso l’acquisto del libro, o indirettamente, con l’insediarsi e il diffondersi di una coscien­za collettiva sempre più sensibile alle tematiche che Volker affrontava, un lavoro di lungo respiro, mi disse, di cui si sa­rebbero forse colti i frutti nelle generazioni successive, ma a questo Volker, padre di due bambine, era relativamente indif­ferente, forse pensava davvero, con un briciolo di ingenuità, che sarebbe riuscito a lasciare alle figlie un mondo migliore di quello dell’immediato dopoguerra, in cui s’era consumata la sua giovinezza, l’asfittica Germania di Adenauer, la Germania che si era rifiutata, in nome della rinascita economica e dell’opulenza, di fare anzitutto i conti con il proprio passato e con chi nel disastro l’aveva trascinata, consentendo anzi a molti di rifarsi una verginità e una posizione, addirittura di gestire il rifiorire delle attività economiche.

Contro tutto questo Volker non scagliava sassi o bottiglie mo­lotov, ma sonetti e componimenti di varia forma e lunghezza, di fattura classica, possibilmente in rima, come a volerne favo­rire la memorizzazione, anche se nessuno imparava più niente a memoria, né classici né tantomeno autori contemporanei, sembrava che la nostra civiltà potesse ormai farne a meno, della memoria, come di  un requisito inutile e perfino danno­so, a che pro ricordare, era passata ormai più di una genera­zione, bisognava anzi dimenticare al più presto tutti gli orrori, gettarseli alle spalle, ricominciare da capo, se possibile, senza rimorsi né recriminazioni, con le sue insistenze uno come Volker diventava quindi poco meno che un nostalgico, in ogni caso un piantagrane, dal quale non ci si poteva aspettare l’atteggiamento giusto, quello positivo, rivolto al futuro, que­sto dovevano pensare di lui gli artefici della rinascita economi­ca e culturale, assecondando quello spirito di rivalsa sarebbe anzi rimasto sempre ai margini del mercato editoriale, con­dannato a pubblicare con piccoli editori, mentre altri, meno angosciosi e caparbi, si sarebbero affermati più facilmente. Dopo trent’anni, e dunque col senno di poi, posso dire che neanche il destino letterario è stato particolarmente clemente con lui, oggi Volker è semidimenticato, con l’unica eccezione della poesia in cui ricordava suo padre, quella – relativamente famosa – in cui dice che il nonno è morto sul fronte occiden­tale, il padre su quello orientale, e si chiede di cosa morirà in­vece lui stesso, un gioco di parole basato su una proposizione, “an”, che in tedesco rende possibile l’ambiguità fra luogo e causa, versi lapidari e crudeli che molti ricordano magari senza sapere nulla dell’autore, ma questo non è che uno dei destini possibili di ciascuno scrittore, e nemmeno il peggiore, a ben vedere, bisogna anche capire qual è l’obiettivo che ci si prefig­ge per poter calcolare davvero l’ampiezza dello scarto fra ciò che si voleva e ciò che è stato, ed è uno scarto dinamico nel tempo, difficile da quantificare con esattezza. Mentre parla­vamo eravamo ormai tornati anche noi nei pressi dell’albergo e sentimmo un po’ di agitazione in lontananza, doveva essere arrivata una troupe televisiva, forse qualche giornalista della RAI, per le interviste d’ordinanza, un breve servizio in chiusu­ra di telegiornale avrebbe forse portato altra gente quella sera, Volker non si scompose, era evidente che se c’erano dei gior­nalisti, erano venuti per sorprendere Ginsberg e lo stato mag­giore della beat generation, o per intervistare Moravia e la sua corte, o entrambe le cose, non certo per dei poeti semiscono­sciuti, quindi non c’era bisogno di affrettarsi a tornare indie­tro, a meno che la vanità non decretasse che bisognava farsi vedere, magari guadagnarsi un brandello d’inquadratura met­tendosi davanti al cameraman proprio quando stava per ri­prendere, ad esempio, Ginsberg in affabile colloquio con Mo­ravia, in mancanza di Patti Smith per quella sera il pubblico del telegiornale si sarebbe dovuto accontentare, il provinciali­smo dei nostri cosiddetti giornalisti dava più fastidio a me che ai miei clienti, lo ammetto, loro erano abituati al fatto che al mondo ci fossero altre priorità e che lo spettacolo prevalesse sempre sui contenuti, mentre per me allora era una scoperta, chiuso com’ero nel mio piccolo mondo, e dovevo ancora far­mene una ragione.

La foto di Moravia, Ginsberg e Bukowski che conversavano (o fingevano di conversare) sorridenti e rilassati si sarebbe poi vista, in effetti, dappertutto, quasi che il festival fosse stato davvero un’occasione d’incontro fra scrittori di paesi diversi, un incontro riuscito, voglio dire, e non drammaticamente mancato, naufragato in pelaghi burrascosi o affogato nel mi­nestrone preparato da una parte del pubblico e offerto a tutti, letterati compresi, e se a qualcosa è servito, il festival, ebbene forse è stato solo a indicare per la prima, lapidaria volta che lo spirito vaga per infinite traiettorie e che affinché queste s’incrocino in un punto determinato del tempo e dello spazio è necessario un mezzo miracolo che può verificarsi unicamen­te a certe condizioni, di silenzio e riservatezza e concentrazio­ne, in un eremo, dunque, più che su una spiaggia, anche per­ché l’idea della villeggiatura non predispone mai alla serietà e al lavoro, semmai a svagarsi anche da se stessi, dalle cose che per ciascuno di noi contano, e a non prendere nulla sul serio. Frattanto, la folla era aumentata, era una folla ordinata e cu­riosa, composta soprattutto di ragazzi che fingevano di essere capitati lì per caso, non certo per spiare gli autori di cui aveva­no leggiucchiato qualche libro o per farsi fare, massimo orro­re, un autografo, anche se poi nei mesi successivi le firme di Ginsberg e affini si sarebbero moltiplicate come per magia o per un perverso sortilegio e tutti avrebbero avuto la loro reli­quia da riportarsi a casa, anche quelli che una casa non l’avevano e vivevano praticamente in un sacco a pelo, ma al libretto o al volantino con lo scarabocchio di Bukowski e Fer­linghetti nessuno avrebbe rinunciato, perché le abitudini del gregge sono dure a morire e in fondo il conformismo degli anticonformisti non è secondo in nulla a quello dei conformi­sti loro fratelli, dunque perché mai stupirsene, e infatti il co­dazzo abbastanza silente e rispettoso che seguiva lo scambio di cortesie fra i grandi della letteratura lì riuniti lo testimonia­va, dei miei quattro evangelisti solo Erich era stato ammesso nelle immediate vicinanze, diciamo in seconda fila, e qualche foto di sguincio e da deuteragonista la rimediò anche lui, “Herr Fried”, lo chiamavano i fotografi, si volti da questa par­te, per piacere, ora dall’altra, cambiamo profilo, se non le di­spiace, si avvicini ai suoi colleghi, ecco così, e adesso una stretta di mano con il dottor Moravia e il dottor Siciliano, e lui assecondava tutti, davvero evangelico, senza che la cosa sem­brasse costargli troppa fatica, o pazienza.

Per me che osservavo quell’incomprensibile agitazione la giornata volgeva lentamente al termine, era venuta l’ora di ri­prendere il mio trenino sferragliante e di rientrare in città, all’epoca abitavo in un quartiere residenziale della periferia nord di Roma, da Termini mi ci voleva ancora una buona mezz’ora di torpido e singhiozzante autobus per tornare a ca­sa, traffico permettendo, naturalmente, quindi per lo sposta­mento dovevo calcolare all’incirca un’ora e un quarto, se non addirittura un’ora e mezza, e visto che ormai la prima parte della missione poteva dirsi compiuta dovevo proprio rimet­termi in marcia, così che, a parte Erich, impegnato con i foto­grafi e quindi irraggiungibile, li salutai tutti, diedi appuntamen­to all’indomani pomeriggio, augurai una serata inaugurale tranquilla e divertente, insomma le solite cose che si dicono in questi casi, soprattutto quando il gioco ci sfugge di mano e non vi possiamo partecipare, almeno per il momento, me ne andavo, lo ammetto, con un certo rammarico, l’esperienza sarebbe stata interessante, e anche se sapevo che era solo rin­viata di ventiquattr’ore – la seconda e la terza serata non me le sarei perse per nulla al mondo, tanto più che non si sapeva ancora quando i miei poeti avrebbero potuto leggere –, avevo la sensazione di precludermi qualcosa, di certo niente in ter­mini assoluti, niente che avrebbe davvero forgiato in modo indelebile il mio carattere e il mio destino, cosa che all’epoca richiedevo implicitamente a tutte le esperienze degne di que­sto nome, Erlebnisse, di conseguenza, più che Erfahrungen, ma qualcosa in termini relativi, di crescita momentanea e quindi inessenziale, forse sì. In ogni caso mi avviai spedito verso la stazione di Castel Fusano, sotto un sole ancora impietoso, sot­to braccio i libri da cui avrei dovuto tradurre i testi prescelti da ciascun autore, e non saprei dire se mi sentivo davvero impor­tante, o perfino necessario, come un anello dell’interminabile catena lungo la quale si snodavano la pace e la comprensione fra i popoli, o almeno lusingato, comunque, per il fatto che Gustavo, il germanista, avesse apprezzato le mie traduzioni precedenti, si fidasse delle mie qualità e mi avesse affidato quell’incarico, tutto un insieme di cose, presumo, un inestrica­bile coacervo di vanità innocenza superbia approssimazione e voglia di fare in cui s’incanalava l’energia inarrestabile e infini­ta dei diciott’anni, e quest’energia, lo sapevo, mi avrebbe so­spinto o trascinato, in ogni caso condotto prima o poi a qual­cosa di serio e di valido, anche se ancora non potevo (e pro­babilmente ancora non posso) immaginare cosa, né nei miei sogni o peggiori incubi riesco mai a separare l’essenziale dall’inessenziale, il raro attimo di genio dall’intorpidimento e dalle pigrizie dell’intelletto, e dunque a scoprirlo davvero, co­me se qualcosa, da allora, fosse cambiato.

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4. continua. Clicca qui per leggere le puntate precedenti.

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