Delia Morea
Cucina in quarantena

Polpette con sorpresa

In ogni famiglia napoletana che si rispetti, la tradizione culinaria è antica, prestigiosa e piena di misteri. Surtù, pizze fritte, graffe, zeppole di san Giuseppe... Ma in cima a tutto ci sono arancini di riso e polpette fritte

Ai tempi del coronavirus tra le cose da fare una è necessaria ma anche, se vogliamo, lieve se sappiamo industriarci: cucinare. Mi è stato chiesto da Succedeoggi un pezzo che possa in qualche modo allietare la nostra forzata quarantena, raccontare una ricetta familiare.

A casa mia, a Napoli, la tradizione culinaria è sempre stata molto sentita, le donne della mia famiglia erano brave a preparare manicaretti, per loro non era fatica ma divertimento. Certo la fatica c’era ma veniva ampiamente superata dalla voglia di fare bene, di raccogliere le meritate lodi, di affermare un evidente matriarcato che si esprimeva anche con queste armi. E poi si divertivano a sperimentare nuove ricette, o a perfezionare i cosiddetti “cavalli di battaglia”.

Nonna, mia madre e le mie zie, avevano un patrimonio culinario da tramandare, a sua volta cercato nelle memorie familiari più antiche (circolavano, ad esempio, vecchi quaderni di ricette, passati attraverso più mani e con annotazioni diverse) e una ricetta “must” della tradizione che veniva richiesta a gran voce durante le occasioni festose e, a casa mia, se ne creavano molte.

Ho avuto la fortuna di vivere in una famiglia numerosa e propensa al divertimento, per cui le opportunità di organizzare feste veniva còlta spesso e, naturalmente, il cibo la faceva da padrone, stante che tutti erano dei veri buongustai. Così sono vissuta all’ombra del mangiar bene.

La donna che aveva la Palma Res della cucina era mia nonna Teresa, soprannominata da mio zio Lello, avvocato di chiara fama e professore universitario: ‘a Bossa, cioè la versione femminile del “Boss”, (accezione usata spesso nei film che parlano di mafia, camorra per indicare il capo dell’organizzazione malavitosa).

Lei era il vero capo della nostra cucina, a lei s’inchinavano tutti, da lei le figlie (mia madre e le zie), prendevano ordini come scolarette.

Insomma vicino ai fornelli lei non aveva rivali, forse una: Anna, la governante che stazionava a casa di mia zia Dora da tempi immemorabili, che le girava intorno come un moscone quando cucinava e che voleva a tutti i costi imitarla. In realtà Anna già era brava di suo ma voleva imparare di più, quasi sostituirsi alla nonna, succhiare tutta l’arte culinaria per poi metterla in pratica. È capitato, infatti, che se la nonna non poteva fare una determinata ricetta per una qualche ragione particolare, Anna si offriva d’industriarsi al posto suo. Ad onor del vero ho mangiato delle graffette fritte fatte da Anna che meritavano un punteggio alto. La nonna s’indispettiva, la metteva fuori dalla cucina con la scusa che se stava sola lavorava meglio, ma poi alla fine le perdonava una certa invadenza e l’armonia tornava a regnare tra i fornelli.

A proposito di punteggio, una dei frequentatori delle nostre tavole era un avvocato anziano e scapolo, sempre ben vestito (il suo fascino aveva conosciuto momenti migliori), il quale si professava vero buongustaio. Alle cene familiari, dove spesso era invitato, assegnava un punteggio ad ogni piatto che gli veniva presentato. Era equilibrato nella votazione o almeno cercava di non distribuire tutti voti alti, anche se da noi, il culto della cucina era talmente fondato che sarebbe stato difficile dare cattivi voti. Comunque i voti eccellenti li conservava per gli exploit a lui più graditi: il sartù di riso, la parmigiana di melenzane, il timballo di maccheroni, la genovese, e ad altri manicaretti del genere “imbottito e/o complicato”.

Tra le tante ricette della nonna che affollano la mia mente mi vengono in mente le pizze fritte con cicoli e ricotta, con la pasta rigorosamente fatta a mano, le graffe fritte, il capolavoro assoluto che erano le zeppole di san Giuseppe (fritte e al forno), perfette come comprate in pasticceria, fino ad arrivare agli arancini di riso, e alle polpette fritte. Ma questi sono solo alcuni dei tanti piatti che io non riuscirò mai a riprodurre nella loro bellezza e perfezione perché non ne sono all’altezza, in cucina cerco solo di cavarmela. Però le ricette sono abbastanza scolpite nella mia mente e se proprio non le ricordassi provvede mia sorella a rammentarmelo che, diversamente da me, di quella maestria ha ereditato parecchio.

Ora scavando nella memoria, cercando di ritrovare quei profumi e quei sapori mi vengono in mente appunto le polpette fritte della nonna Teresa, saporite profumate, morbide e sugose. Queste polpette avevano un segreto: un ingrediente agrodolce che conferiva loro un sapore speciale. Ricordo la delicatezza della preparazione, bagnava del pane raffermo nel latte e, dopo averlo strizzato, lo mescolava con la carne macinata, le uova, il parmigiano e il pecorino, il sale e un trito di prezzemolo. Univa poi i cosiddetti passi ‘e pignuoli, cioè i pinoli e l’uvetta sultanina fatta rinvenire in acqua tiepida, questo l’ingrediente segreto che conferiva la nota agrodolce, forse un sapore mediorientale di oscura memoria che però esplodeva nel palato una volta che addentavi una delle polpette, che era consigliabile mangiare appena fritte e calde, per apprezzarne tutta la fragranza. Però, confesso, che anche se le mangiavi fredde, ad esempio di sera, se per caso rimanevano dal pranzo, il sapore era magnifico.

Come dimenticare gli arancini, ricetta mutuata da una sua amica d’infanzia siciliana a cui la nonna aveva però cambiato qualcosa nel procedimento. Lei bolliva il riso, lo faceva raffreddare e lo condiva poi con molta salsa, parmigiano e pecorino (i due tipi di formaggio non mancavano mai) e uova come legante. A parte soffriggeva della carne macinata e, ancora a parte, dei piselli. Si bagnava il palmo della mano e all’interno di esso componeva con rara maestria la base dell’arancino dentro al quale aggiungeva provola tagliata a pezzetti, la carne e i piselli. Infine costruiva la parte alta con la punta. Dopo aver impanato in maniera compatta, immergeva l’arancino perfetto nella sua forma in un pentolino alto,  che brillava di olio  caldo quasi fino all’orlo, friggendo a fuoco lento. Quando l’arancino era dorato, lo sollevava facendolo colare sulla carta del pane, rigorosamente quella in cui il panettiere avvolgeva il pane, che era ottima carta assorbente. La perfezione arrivava in tavola senza una sbavatura e quando lo aprivi la provola filava e il sugo calava sul dorso delle mani o nel piatto.

Si apriva così il mondo dei sapori migliori, quello che mia nonna ci donava con un sorriso, l’entusiasmo e con il lavoro costante di cuoca provetta a beneficio dei familiari. Nelle cucine delle case italiane rilucevano i sapori veri e non il mangiare fast food a cui ci costringe la vita convulsa dell’oggi, tranne questo momento storico così difficile che induce al ripensamento di mondi lontani e perduti.

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Le immagini sono di Roberto Cavallini

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