Raoul Precht
Castelporziano/3

Le poesie di Gerald

«Quando Erich riuscì finalmente a liberarsi di quel­la stretta, non so in che modo, visto che da parte mia, essendo impegnato a disquisire con Gerald, non avevo potuto seguire più di tanto il loro scambio, sgattaiolò subito da noi»

Riassunto delle puntate precedenti: il romanzo segue le avventure di un giovanissimo traduttore chiamato a occuparsi dei poeti tedeschi presenti al Festival di Castelporziano. Nella sezione precedente il protagonista ha incontrato tutti e quattro i poeti che dovrà tradurre nonché il germanista che lo ha invitato, e ha cominciato a rendersi conto di quanto improvvisata fosse l’organizzazione dell’evento.

* * *

Nessuno era troppo convinto del fatto che Patti Smith ci sa­rebbe stata davvero, insomma, ma era quello lo specchietto per le allodole, altro che la melopea dei poeti, e questi ultimi lo sapevano benissimo ma non osavano dirlo ad alta voce perché se ne sarebbero sentiti sminuiti, come se le loro letture non potessero essere destinate che a un pubblico elitario di poche decine o al massimo centinaia di iniziati, ma di questo si sa­rebbe poi molto parlato dopo quella prima serata, serata che fra l’altro avrebbe sancito quasi una contrapposizione fra la parola poetica, troppo spesso aulica e intricata, e la parola par­lata dalle masse, in questo caso una parola quanto mai povera, impoverita o dovrei dire forse umiliata dalle sciocchezze irri­petibili e dal gergo della sottocultura giovanile di quegli anni, ma in ogni caso per i soli poeti migliaia di persone non si sa­rebbero mai prese la briga di spostarsi, era un fatto, e nella mia ingenuità insistevo anche con la delegazione tedesca che la trovata del presunto concerto o rapida e sommaria partecipa­zione di Patti Smith, fosse o non fosse vera, era stata comun­que geniale, non foss’altro che per creare un barlume d’interesse, un polo d’attrazione anche per quanti erano con­vinti che la poesia non potesse essere altro che quello che avevano studiato a scuola, roba immonda, noiosissima e in­comprensibile, un purè riscaldato più volte e predigerito di parole senza senso, buttate lì alla rinfusa e allo scopo di non farsi capire, era un po’ questo, credo, il sentire generale, per la maggior parte dei giovani alla poesia bisognava accostarsi sempre con diffidenza, e non perché qualcuno potesse più costringerci a mandarne a memoria delle strofe o componi­menti interi, ma perché non si capiva bene quale nesso avesse con la nostra vita, anche quelli che ne scrivevano, soprattutto, direi, quelli che ne scrivevano erano intimamente diffidenti nei confronti di tutti gli altri, e in particolare dei professionisti in­censati dai critici e antologizzati, e tanto più incensati e anto­logizzati quanto più incomprensibili e lontani dall’espressione del disagio quotidiano, che ci coglie quando cuciniamo, lavia­mo, stiriamo, quando dobbiamo prepararci per un’altra insulsa giornata, e allora non c’è troppo da meravigliarsi se il pubblico è assente o, peggio, ostile, e nel dire questo senza saperlo mi lanciai in una previsione di quanto sarebbe successo, tanto che il giorno dopo, quando ci incontrammo di nuovo fuori dall’albergo, Volker mi disse che era rimasto colpito dalla mia diagnosi, proprio così, usò il termine “diagnosi” pur con tutto il rispetto che si deve tributare alla medicina, ma purtroppo ne era rimasto colpito a posteriori, e si sa che del senno di poi non ci si può troppo inorgoglire, tutto ciò per ammettere che con le mie previsioni, che previsioni non erano, ma una sem­plice chiacchiera, avevo colto nel segno, le cose erano andate più o meno come io, giovane Cassandra, avevo profetizzato.

Ma adesso per l’ennesima volta sto anticipando, in quel primo pomeriggio ci limitammo a parlare e chiacchierare superfi­cialmente, senza entrare nello specifico, fu una prima presa di contatto, a me del resto più che ascoltare discorsi generici premeva farmi dare da tutti i partecipanti le poesie scelte per la loro esibizione e che avrebbero dunque letto, mi servivano con urgenza per prepararne la traduzione, e così li presi da parte, a turno, uno dopo l’altro, ci mettemmo sul muretto che separava l’albergo dalla strada e le leggemmo insieme, così po­tei domandare almeno qualche chiarimento per i pochi punti che secondo me lo richiedevano, pochi, dico, perché nell’insieme, a parte forse una o due poesie di Gerald prive di punteggiatura e dunque sempre sul filo dell’ambiguità, i testi erano nell’insieme chiari, addirittura fin troppo espliciti quelli di Volker ed Erich, tutti giocati sull’aspetto politico, con rove­sciamenti satirici del buon senso di per sé semplici, ma che potevano crearmi comunque qualche problema al momento di trasformarli e renderli in un’altra lingua, certo, ci avrei pensato dopo, nella quiete di casa mia, in quel tempo franto, attivo e pure lunghissimo, interminabile, che è proprio di ogni prima giovinezza, quando sembra davvero che lo si possa governare e se ne possa disporre senza alcun limite, e per tutto c’è dun­que sempre e letteralmente tempo da spendere (e magari spandere), a differenza di adesso, passati i cinquant’anni, quando ne avverto solo l’indifferenza e l’inesorabilità e lo de­testo con tutta l’anima, pur cercando contraddittoriamente di tenermelo accanto, di non lasciarmelo sfuggire. A parte Jo­hannes, che non celava la sua curiosità, gli altri non sembrava­no troppo interessati alle parole con cui avrei reso i loro origi­nali, neanche Gerald, che pure tanti anni prima si era laureato, a Vienna, in italianistica, e va bene, tanti anni prima, poi si era dato al rumeno, all’identificazione con Ovidio e alle sugge­stioni dell’esilio a Costanza, d’accordo, ma doveva pur essergli rimasto un po’ d’interesse per la nostra lingua, avendola fre­quentata così a lungo, o forse non era neanche questo, non era mancanza d’interesse, ma un atteggiamento ancor più pessimi­stico, pensai in seguito, della mia previsione riguardo al pub­blico, era semmai l’idea che qualunque fosse l’esito della serata in cui avrebbero letto, in qualunque modo le loro parole fos­sero state presentate da me o da chiunque altro, la cosa non avrebbe avuto alcun effetto, né positivo né negativo, e lui, con la sua personalità schiva e anche un po’ sfuggente, avrebbe continuato a essere letto solo da una ristretta cerchia di esti­matori, da sparuti amici e conoscenti, un letterato elitario, così come difficile, oscura ed elitaria era del resto la sua poesia, e allora che questo ragazzo sbucato da chissà dove li traducesse pure come voleva, quei versi, in ogni caso nessuno si sarebbe accorto di eventuali errori od omissioni, la gente avrebbe ascoltato senza capire e basta, questo doveva dirsi in segreto, mentre fingeva di partecipare e d’interessarsi alle mie strategie traduttive.

Il libro che aveva portato con sé e da cui avrei dovuto tradurre si chiamava Poema ex Ponto e recava il sottotitolo “Notizie poe­tiche dalla latinità orientale”; si trattava di un libretto blu, di dimensioni singolari, insolitamente largo per un volume di poesie, pubblicato due anni prima, nel 1977, con all’interno, subito dopo una specie di seconda copertina rosso fuoco, la riproduzione di un affresco di Luca Signorelli raffigurante Ovidio e una foto dell’autore, seguite da una dedica, “Verei cu drag”, che non sapendo all’epoca una parola di rumeno non seppi interpretare, e siccome soprattutto all’età che avevo allo­ra secca molto dover ammettere la propria ignoranza, proprio quando ancora nulla si sa, ma nulla sapendo soprattutto s’ignora d’ignorare socraticamente tutto, ecco, per questo mo­tivo e per tutti quei tre giorni non gli domandai mai di tra­durmela o di spiegarmi cosa significasse questo “Verei cu drag”, che rimase dunque un mistero, poi sepolto e dimentica­to, per tanti anni, fino a quando mi sarei deciso a studiare un po’ di rumeno anch’io, mentre l’altra particolarità del volumet­to era che ogni pagina era doppia, come se andasse aperta con un tagliacarte, ma se lo si faceva dentro non c’era nulla, non so se mi spiego, avevano stampato da una parte sola di ogni foglio doppio, e un’altra caratteristica ancora che mi parve cu­riosa nell’inesperienza di allora consisteva nel fatto che ne erano state stampate solo un numero limitato di copie, cin­quecento, ciascuna numerata e autografata, quella da cui avremmo letto e che alla fine della kermesse mi avrebbe rega­lato essendone per l’esattezza la quattrocentocinquantanove­sima. Da questo volume, dunque, che mi colpì per la sua ele­ganza un po’ desueta e la cui copertina senza illustrazioni e con caratteri maiuscoli non poteva non ricordare le iscrizioni di una lapide, impressione rafforzata dall’allusione alla latinità, Gerald aveva selezionato una sola poesia, che poteva sembra­re vagamente comunicativa o meno solipsistica delle altre, ma non pareva del tutto convinto della scelta, aveva dei dubbi, in fondo sperava che un traduttore professionista e un po’ più adulto di quello che gli era toccato in sorte glieli potesse scio­gliere, decidendo per lui, al suo posto, in sua vece, vicario be­nedetto dal creatore di quei versi, e invece io non seppi aiutar­lo, o ben poco, mancando di qualunque elemento che potesse anzitutto aiutare me a capire il suo linguaggio, le sue preoccu­pazioni artistiche ed estetiche, che mi permettesse di penetrare in quel mondo monadico e chiuso, ma al contempo pervaso da un’ansia di comunicare che si trasmetteva al lettore, in un primo momento avrei detto anzi che il bisogno di comunica­zione si trasmetteva sotto forma di ansia e basta, questo alme­no l’effetto che faceva a me, a quell’epoca, qualunque testo privo di segni d’interpunzione, in cui magari ci sono parole spezzate a metà prima di andare a capo, come succedeva qui già al primo verso, ma era comunque una poesia evocativa e dal profumo internazionale, parlava di Londra e Berlino, an­che se il “qui” si riferiva a Neptun sul Mar Nero, dove appa­rentemente risiedeva l’autore, poi compariva tale Flavia di ri­torno da Roma, e per finire un certo Ion Luca Caragiale di cui, ancora una volta, all’epoca ignoravo tutto, tanto che pensai fosse un amico o un conoscente di cui Gerald chissà perché voleva – come diceva nell’ultimo verso –  “localizzare la casa”. Poi tirò fuori da una cartellina una quindicina di fogli dattilo­scritti, pieni di correzioni e ripensamenti, e mi disse, queste sono più recenti, recentissime, anzi, di questi ultimi mesi, an­che da qui vorrei sceglierne un paio, e io a quel punto mi di­sposi in paziente attesa della sua decisione, mentre lui, un po’ imbarazzato, continuava a perlustrare quei fogli alla ricerca di altri errori, mi sembrò, più che per rileggerseli, il che avrebbe preso del resto parecchio tempo trattandosi di componimenti di una certa lunghezza e complessità, poi a un certo punto dis­se qualcosa come basta, che importa, e mi passò i primi due fogli del mucchio, queste qui, aggiunse con un gesto di noia e di fastidio, queste qui vanno benissimo, la prima era intitolata “Flower Power”, la seconda “Immaginate” e cominciava con un “voi” rivolto evidentemente all’uditorio, forse dovremmo leggerla per prima, dissi, per catturare l’attenzione del pubbli­co, e lui rispose che era un’ottima idea, ma che l’attenzione del pubblico l’avremmo poi comunque persa subito dopo, anche se naturalmente sperava di no, sperava che si creasse intorno ai poeti un cono di silenzio e raccoglimento com’era successo circa un mese prima a Genova, al festival organizzato da San­guineti, certo, lì spirava un’aria diversa, tanto per cominciare non erano stati alloggiati in un albergo sinistro e fatiscente come quello, poi non avevano letto in spiaggia, ma in una sala del municipio, a Palazzo Ducale, la residenza dei dogi, in alcu­ne scuole, in biblioteche, parcheggi, gallerie d’arte e su una piazza di Sampierdarena, e infine Sanguineti, docente all’università e subito dopo eletto deputato in Parlamento, al culmine insomma di tutte le sue carriere, si era davvero adope­rato per far sì che l’iniziativa diventasse un successo, che la poesia venisse trasmessa al pubblico, che ogni spettatore rice­vesse perfino un opuscolo con le foto e le biografie dei poeti e qualche poesia tradotta in italiano. E sa, aggiunse ironico, dandomi del lei – fu l’unico di tutti loro a darmi ostentatamen­te del lei per tutta la durata della manifestazione –, i poeti che comparivano sull’opuscolo c’erano sul serio, in carne ed ossa, o per dirla diversamente e capovolgere la prospettiva quelli che erano lì, il sottoscritto, Enzensberger e Wondratschek per i tedeschi, ma anche i francesi Deguy e Pleynet, il rumeno So­rescu, l’inglese Tomlinson, lo svedese Söderberg, tutti noi, in­somma, comparivamo anche nell’opuscolo, incredibile, no?, l’esatto contrario dei manifesti e del giornaletto di questo fe­stival qui, pieno di nomi di assenti, e in cui i presenti non sono nemmeno citati, con tutta la simpatia per Roma e la sua am­ministrazione di sinistra mi chiedo come sia mai possibile una cosa del genere, e io che non avevo ancora avuto il tempo di esaminare il giornaletto di cui Gerald parlava, il famoso sup­plemento al quotidiano Lotta continua, non seppi cosa rispon­dere, a naso avrei detto che aveva ragione, ma forse questi di­fetti sarebbero stati corretti nei giorni successivi, gli organizza­tori dovevano essere in ritardo, come sempre succede in que­sti casi, e avrebbero rimediato, bisognava mantenere un bri­ciolo di sano ottimismo, e pensai anche che gran parte della sua frustrazione doveva derivare dal non aver trovato il pro­prio nome su manifesti e giornali, ma come possono essere vanitosi, questi poeti, dissi fra me e me, se non si vedono citati con tutti gli onori del caso, e riveriti, ne fanno subito un dramma.

Così pensavo, e già mentre lo pensavo non ne ero più convin­to al cento per cento, che poeti e scrittori siano vanitosi, invi­diosi e sprezzanti nei confronti soprattutto dei loro colleghi è patente e assodato, voglio dire, ma non ero convinto che in quel caso specifico Gerald non avesse, almeno in parte, ragio­ne, era presto per dirlo, probabilmente, ma qualcosa nell’aria faceva già presagire un naufragio, pur con quel mare calmo e piatto, forse sarebbe stato meglio sospendere il giudizio e in­tanto lasciarlo parlare, lasciargli raccontare l’esperienza di Ge­nova, durante la quale aveva pure garbatamente polemizzato con un collega polacco, tale Rozewicz, il quale a Genova si era recato solo per dire, in sostanza, che i poeti non dovrebbero andarsene in giro a leggere i loro versi, che questi ultimi hanno il diritto di vivere per così dire un’esistenza autonoma, a pre­scindere e magari anche a dispetto di chi li ha creati – così come, per fare un esempio letterario ma non strettamente poetico, con On the Road Kerouac era diventato la bandiera della beat generation senza minimamente volerlo –, che anzi il creatore del testo potrebbe anche essere morto, o forse muore nel momento stesso in cui allontana da sé il foglio e dà la sua opera per finita, terminata, ultimata, il processo creativo per defunto, e Gerald aveva subito abboccato alla provocazione rispondendogli, forse un po’ ingenuamente, che non era vero niente, che il poeta, avendo invece qualcosa da dire anche al di là della sua opera, può farlo proprio grazie a presentazioni e letture, e del resto si era anche domandato, senza dirlo ad alta voce, perché mai Rozewicz avesse accettato invito e onorario se davvero la pensava così, né ritengo sia stato l’unico a chie­derselo, a cominciare probabilmente dai perplessi organizzato­ri genovesi, ma non troppo a lungo e non troppo sul serio, perché insomma si tratta poi di quelle pseudoscaramucce che fanno bene a qualunque manifestazione pubblica, che alimen­tano il dibattito, per così dire, il fatto di venirsene fuori con idee trite e ritrite alle quali non si possono opporre che posi­zioni altrettanto risapute, per omnia saecula saeculorum, e il pub­blico intanto assiste beato allo scontro, ben sapendo che non ci saranno vincitori o vinti, esclusivamente per il gusto di ve­dere qualcuno che litiga su qualcosa che non ha alcuna impor­tanza, senza spargimento di sangue. Non è forse questa l’essenza dello spettacolo, lo scontro che può nascere anche da un futile pretesto, ma che spinge i contendenti a esibirsi in un crescendo, che sia verbale o fisico poco importa, ognuno tira fuori dal suo arsenale armi sempre più potenti o sofistica­te, fino a quando l’avversario non è più in grado di competere, un po’ come avviene con i rilanci di una vendita all’asta, quan­do il drappello degli offerenti si assottiglia progressivamente finché non ne restano che due a ingaggiare la battaglia finale, a oltranza, e magari sarà proprio quello che vince ad aver fatto un pessimo affare, essendosi sì aggiudicato la crosta per cui tanto ha combattuto, ma per accorgersi già al momento di riti­rarla che non gli piace più, valga tutto questo come metafora delle lotte che conduciamo nel corso di tutta la nostra esisten­za, lotte serrate, senza quartiere, per ottenere qualcosa che il più delle volte neanche ci interesserebbe troppo, non fosse che dobbiamo vincere a tutti i costi la maledetta battaglia in cui ci siamo lasciati coinvolgere.

Un briciolo di frustrazione nelle parole di Gerald era insomma evidente, lì per lì l’attribuii alla vanità e al desiderio di compa­rire, che non trovava riscontro nella documentazione fornita dai giornaletti distribuiti in giro, ma ecco che a posteriori non credo più che dipendesse soltanto dall’assenza del suo nome, o dal fatto che, a differenza di Genova, non fossero stati di­stribuiti opuscoletti con foto, biografie e testi, in fondo lo sa­peva anche lui che ben pochi sarebbero stati interessati al suo Lebenslauf, poeta nato a Vienna nel 1936, compie studi di psi­cologia e italianistica, è membro del comitato di redazione di varie riviste letterarie a Vienna, Linz e Berlino, pubblica alcune plaquettes di poesie, traduce vari autori italiani (Eco, Sanguineti, Balestrini), muore nel 1999, anche se quest’ultimo dato vent’anni prima non sarebbe ancora potuto apparire, è ovvio, così come non sarebbero apparsi accenni alla sua predilezione per la grappa e le acqueviti, insomma non credo che una bio­grafia così semplice e in fondo comune per un letterato avrebbe potuto aggiungere molto alla fruizione dell’opera, né penso che lo credesse lui, bisogna essere molto sprovveduti o molto egocentrici per ritenere che il mondo si soffermi su det­tagli simili, e per concluderne cosa, poi? La sua frustrazione, possibile, probabile, in ogni caso abbastanza manifesta anche nel suo modo lento di muoversi e parlare, come se su tutto gravasse un peso eccessivo, investiva semmai la manifestazio­ne nel suo insieme e la possibilità che l’espressione (o meglio, il fatto di esprimersi proprio lì) avesse un senso, che fosse condivisa da qualcuno, e paradossalmente dei quattro era pro­prio il poeta che meno mi sembrava condivisibile, perché mol­to più oscuro e criptico degli altri, a porsi in quel momento il problema della trasmissione del proprio pensiero, e a porlo anzitutto a me, suo temporaneo traduttore, domandandomi come avrei reso questa o quell’espressione prima ancora di avermi dato il tempo di leggere i suoi componimenti per inte­ro e farmene un’idea, del resto prima dell’espressione bisogna attraversare sempre la fase dell’impressione, dovetti più volte chiedere tempo, respiro, mentre lui saltellava da una poesia all’altra per mostrarmi nessi e sviluppi, rimandi e suggestioni, e io più che essere affascinato per il mondo, in gran parte classi­co (Ovidio su tutti e su tutto), che mi si apriva davanti agli occhi pure abbastanza allenati, cominciavo a dire il vero ad allarmarmi, a sospettare di non possedere tutti gli strumenti per renderne il pensiero, ma poi da giovani si è volenterosi, impetuosi e un po’ sciocchi, farsi mandare e andare al fronte o allo sbaraglio sembra una scorciatoia plausibile per diventare adulti al più presto e contare qualcosa agli occhi degli altri, e dunque la mia preoccupazione durò il tempo del passaggio di una nuvola su quel sole che ci stava essiccando, poche man­ciate di secondi, alla fine misi su un’aria saputa e finsi di capire tutto, ogni implicazione, ogni rovello.

La spiaggia intanto si andava lentamente svuotando, era rima­sto qualche gruppetto di giovani proprio in riva al mare, e mentre discutevo con Gerald con la coda dell’occhio notavo qualche corpo magro e scattante, ragazze e giovani donne in bikini e qualcuna addirittura a seno nudo che chiacchieravano e ridevano, io ero sempre un po’ troppo lontano per fissarmi sui dettagli, ma quell’allegria e quella libertà di costumi o dai costumi che si profilava persino su quest’altra spiaggia, più familiare, mi sembrò di buon auspicio tanto per la manifesta­zione, quanto per me che non ero certo insensibile a determi­nate forme di bellezza e di grazia, e insomma la mia ambizione era anche quella di vivere un’esperienza, non solo di mediare e trasmettere al pubblico quelle scritte da altri, per sentirmi me­no banale mi ero convinto di volerla vivere non per il fatto in sé, ma perché in futuro mi sarebbe potuta servire ancora, avrei potuto descriverla, chissà, magari in un romanzo, che è quanto curiosamente sto facendo adesso, trentatré anni dopo, chissà che quell’io diciottenne non fosse già un vecchio saggio e l’io di oggi invece nulla più di un povero squilibrato a cui la vita trascorrendo non ha insegnato nulla, tanta preveggenza in un ragazzo suscita comunque qualche dubbio, e la seconda ipote­si che posso formulare è che non di preveggenza si trattasse, ma d’ipocrisia e ancora una volta vanità, del rifiuto di tanti adolescenti di scoprirsi uguali a tutti gli altri, con la stessa vo­glia di scodinzolare, festeggiare, abbracciarsi e gioire di nulla, e del corollario di doversi distinguere dalla massa e inventare una personalità. Se per esempio nel corso di quei tre giorni fossi riuscito finalmente a rimorchiare, come diceva il volgo, ovvero i miei coetanei, non sarebbe stata una storia come tan­te ma qualcosa di eccezionale, una vicenda umana dai risvolti unici e complessi, a più strati, con implicazioni psicologiche inaudite, di questo ero convinto, il mio orgoglio e il mio sno­bismo non avrebbero mai potuto accettare un incontro con­venzionale, senza un pizzico di mistero o forse di dramma, ma poi no, un dramma non l’avrei voluto, ne avevo già troppe intorno, di persone drammatiche, per poterlo apprezzare, e inoltre “fanne un mistero se vuoi, ma non un dramma” sen­tenziava la frase di un romanzo di La Capria che avevo appena letto e amato molto, ma sì, proprio il romanzo delle grandi occasioni perdute, e dunque nelle mie perlustrazioni dell’altro sesso avrei cercato il mistero, decisamente, e mi dissi che quel­lo doveva essere il motto, la parola d’ordine, l’astro al quale ispirarsi, tanto che mentre annuivo a Gerald e ai suoi dubbi sulla resa di singole espressioni io pensavo, lo ammetto, a quelle figure lontane di ragazze in bikini e senza, pensavo e pregustavo il momento in cui mi sarei finalmente liberato del mio lamentoso poeta per avvicinarmi con aria indifferente a riva, fingendo di voler sentire quanto fosse fredda (o calda) l’acqua, e in realtà guardandomi intorno famelico per scrutare la fauna e individuare una parvenza di lei, la mia musa, la ra­gazza con cui avrei vissuto non solo quei tre giorni, ma anche una storia d’amore unica e irripetibile.

A riscuotermi dalle mie fantasticherie pensò Erich, con il qua­le non avevo ancora avuto modo di parlare, anche perché era stato praticamente sequestrato dal germanista che con lui vo­leva discutere di non so quali progetti futuri, essendo Gustavo uno di questi avvoltoi della letteratura che si avventano su qualunque preda, a condizione che sia sufficientemente famo­sa e inserita nell’ambiente, e cercano dunque di ottenerne la benevolenza, quando non un appoggio esplicito, e il bello è che quasi sempre ci riescono, secondo me per stanchezza ed esaurimento dell’altro, della controparte, perché chi passa il proprio tempo a scrivere ed elaborare il proprio pensiero spesso non ha la forza di difendersi, di reagire a soprusi e ves­sazioni, soprattutto quando sono mascherati da inviti o peggio presunte onorificenze, e pecca quindi spesso di pigrizia, igna­via, infingardaggine, ma non perché si sia indolenti, semplice­mente perché si è stanchi, non se ne può più, dei postulanti dovrebbe occuparsi qualcun altro, un agente, per esempio, e così è almeno per quei pochi (e troppi) autori di best seller e spesso worst writing che possono permettersene uno, mentre gli altri devono cavarsela da soli, e quindi suppongo che Erich, il più famoso dei quattro, fosse spesso sollecitato a elargire fa­vori sotto forma di lettere di raccomandazione, prefazioni, impegni a comparire a questa o quella presentazione di libri, per non parlare della manifestazioni politiche alle quali, viste le posizioni polemiche e radicali che aveva assunto in particolare negli ultimi anni, non poteva certo sottrarsi, non certo uno come lui, uno di cui il critico tedesco più in vista di sempre aveva scritto che le sue poesie non sarebbero mai state dimen­ticate, anzi che non dovevano esserlo, fatto sta che Gustavo l’aveva preso da parte e catechizzato per una buona mezz’ora, cercando di ingraziarselo per certi suoi progetti che prevede­vano collaborazioni fra riviste – quella modestissima che diri­geva il suo amico non essendo più in grado di reggersi solo sulle proprie gambe –, la sua futura carriera di accademico, per la quale di notevole aiuto gli sarebbero stati dei periodi pro­lungati da trascorrere in qualche facoltà tedesca o austriaca, soprattutto se invitato, anche se evidentemente un invito da parte di una qualche facoltà di germanistica nel Regno Unito, paese in cui Erich viveva, o dell’ambasciata di Londra sarebbe stato altrettanto benaccetto, e certamente anche l’attività di traduttore, che in quell’occasione aveva delegato a quel giova­ne di belle speranze, cioè il sottoscritto, per mancanza di tem­po, ma che contava di riprendere quanto prima, magari pro­prio introducendo in Italia qualche poeta contemporaneo, ed Erich era naturalmente in cima ai suoi pensieri, per la brillan­tezza, il lucore, la sincerità e la precisione dei suoi versi, in­somma sarebbe stato per lui un immenso onore poter figurare fra i traduttori internazionali del grande poeta eccetera eccete­ra eccetera. Quando Erich riuscì finalmente a liberarsi di quel­la stretta, non so in che modo, visto che da parte mia, essendo impegnato a disquisire con Gerald, non avevo potuto seguire più di tanto il loro scambio, sgattaiolò subito da noi, rimpro­verando bonariamente il suo amico e conterraneo per avermi tenuto in ostaggio sino a quel momento, non ci si comporta così con un povero ragazzo che deve dar retta contempora­neamente a quattro persone, cinque, anzi, compreso il germa­nista, docente universitario, fine filologo e non so cos’altro, e soprattutto non ci si comporta così con gli amici che aspetta­no di poter discutere anch’essi della loro opera, nemmeno avessi l’esclusiva del pubblico, borbottò, e che diamine, giac­ché lottiamo per la liberazione di tutti, facciamolo pure per quella di questo povero ragazzo, diamogli una mezz’ora d’aria, lasciamo che si ossigeni, che si sgranchisca le gambe, o almeno che si guardi intorno, di’ un po’, Gerald, pensi forse di essere più interessante delle ragazze?, poi si rivolse a me senza solu­zione di continuità, andiamo, prendi almeno una bibita, amico mio, disse, porgendomi una bottiglietta che aveva rimediato chissà dove, roba frizzante e dal sapore adulterato che non ero solito bere ma che mandai giù perché non ci rimanesse male, e invece fu gradevole, malgrado tutto, una sorsata di frescura in quel pomeriggio quasi tropicale. Lo ringraziai, colpito dal ge­sto di un uomo tanto più anziano di me, aveva cinquantotto anni, undici più di mio padre, e mi sembrava quindi vecchis­simo, ma con qualcosa di giovanile e impertinente nello sguardo, come un lampo nascosto dietro gli occhiali che saet­tava di tanto in tanto, quando meno te l’aspettavi, e questo qualcosa, questo lampo, imbrogliava le carte, doveva indurmi per esempio a rimettere in discussione le mie rigide categorie generazionali, la distinzione che facevo fra giovani, semigio­vani e vecchi, e all’epoca per noi la vecchiaia cominciava non dico a quarant’anni, ma a cinquanta sì, non c’è dubbio, a cin­quanta eri già decrepito e non avresti dovuto capire più nulla, e poi saltava fuori questo quasi sessantenne che seminava lo scompiglio nel panorama politico e letterario, con posizioni dettate spesso da un giovanile assolutismo che non ammetteva repliche né sfumature. Mi prese quindi sottobraccio come se fossimo da sempre vecchi amici e soprattutto coetanei, ripeté a Gerald con determinazione che adesso toccava a lui e mi portò difilato a fare la famosa passeggiata di cui secondo me si era incaponito soprattutto lui, io magari gli servivo come scusa per andarsene finalmente in giro a sogguardare le ragazze se­minude, non l’ho mai scoperto e in fondo non ha importanza, so solo che a un certo punto si tolse i sandali e li prese in ma­no, io feci la stessa cosa con le mie espadrillas e ce ne andammo a zonzo sulla sabbia, Erich con la sua camicia larga e comoda svolazzante al vento e i pantaloncini corti color kaki, io con i miei eterni jeans lunghi ai quali a quell’epoca non avrei rinun­ciato nemmeno a una temperatura di cinquanta gradi all’ombra, e se le gambe sudavano, tanto peggio, l’apparenza contava troppo, ci mettemmo dunque a percorrere la spiaggia parlando non so più di cosa, di politica più che di letteratura, credo, perché per lui la letteratura stava diventando in qualche modo uno dei principali strumenti di lotta politica, e sebbene non fosse affatto ingenuo e quindi non pensasse di poter dav­vero piegare l’espressione poetica al diritto-dovere di esternare una data posizione, stava cercando non senza qualche succes­so – lo dimostravano i numerosi epigoni che già aveva – un’aurea via di mezzo, uno stile asciutto e pregnante, a volte quasi scheletrico, che gli permettesse di coniugare forma e messaggio, io ho sempre dubitato che ci si potesse riuscire, se non in qualche raro momento di grazia, e penso quindi che ne avremo discusso, che avrà cercato di convincere il nuovo, dif­fidente e riottoso amico della bontà della sua impostazione, di cui testimoniavano interi volumi, magari non perfettamente riusciti in ogni loro parte, ma dove qua e là si trovavano pur sempre delle belle trovate, poesie di cui era moderatamente soddisfatto, disse, mentre in realtà ne andava smodatamente orgoglioso, proprio come di quelle che aveva scelto per me (per te in quanto mio lettore, sottolineò ammiccando, e solo in subordine per la rivista e per il riverito pubblico).

—–

3. continua. Clicca qui per leggere le puntate precedenti

Facebooktwitterlinkedin