Castelporziano/2
Johannes e Volker
«Mi prese subito in simpatia, Johannes, o sotto la sua ala protettrice, per così dire, mi parlò di Natascia, la compagna di viaggi e bevute ed esaltazioni cui aveva dedicato una poesia che avrebbe voluto leggere quella sera»
Riassunto: il romanzo segue le avventure di un giovanissimo traduttore chiamato a occuparsi dei poeti tedeschi presenti al Festival di Castelporziano. Nella puntata precedente, il protagonista è stato convocato all’albergo Enalc di Ostia e ha conosciuto il primo dei poeti che tradurrà, Johannes Schenk.
* * *
Ma non precorriamo i tempi. La conversazione con lo sconosciuto, che veniva da Berlino e si chiamava Johannes, prese il suo corso, lui volle sapere dei miei studi, io più che altro dei suoi viaggi, perché emerse subito che Johannes era un grande viaggiatore e anzitutto un marinaio, o viaggiatore in quanto marinaio, e questo produceva su di me, uno dei pochi giovani romani che neanche sapevano nuotare e che quindi di fronte al mare si sentivano irrimediabilmente a disagio, un certo fascino, accompagnato dallo stordimento che sempre ci coglie quando non riusciamo a misurare pienamente quello che ci separa davvero dalla vita di un altro, di un estraneo, vita di cui siamo chiamati a ricostruire il percorso in base a qualche limitato elemento, niente di definito, anzi il più delle volte una sensazione assai indeterminata che dovremmo cercare di ricomporre in un’immagine organica, e questo difficilmente riesce, ragion per cui non posso negare che quei lacerti della vita di Johannes, così come me l’andava raccontando in quel pomeriggio assolato, non mancavano di affascinarmi e anche un po’ d’inquietarmi, come sovente succede quando non comprendiamo appieno la portata di quanto ci viene narrato, e Johannes peraltro saltava di palo in frasca, da un continente all’altro, da una donna fatale all’altra, senza premurarsi di seguire un ordine cronologico o semplicemente logico, come se il semplice fatto di essere stato, o di essere tuttora, chissà, un marinaio, lo autorizzasse a prendersi delle libertà poetiche e narrative di cui non doveva render conto né al lettore dei suoi versi né all’interlocutore di un pomeriggio. Io lo ascoltavo, né potevo fare molto di più o di diverso, mi mancava ancora un anno al diploma, e a parte un viaggio a Londra e qualche spostamento in Germania a trovare i parenti – viaggi di rara noia e ripetitività – non potevo opporgli granché sul piano della vita vissuta, mi sembrava anzi già molto che stesse ad ascoltarmi fingendo interesse, ma forse era solo per il sollievo di aver trovato finalmente qualcuno che parlava la sua lingua, qualcuno che non fosse uno dei colleghi, Erich, Gerald o Volker, con cui doveva aver già esaurito gli argomenti da trattare, anche se poi ebbi modo di notare che almeno con l’ultimo, suo coetaneo, esisteva già una certa sintonia o perfino complicità, forse si conoscevano da prima, attivi com’erano entrambi sulla scena berlinese, mentre la stessa cosa non poteva dirsi per l’anziano Erich e soprattutto per Gerald l’austriaco, che in quei tre giorni e notti di follie avrebbe fatto vita a parte, più riservata e introversa. Mi prese subito in simpatia, Johannes, o sotto la sua ala protettrice, per così dire, mi parlò di Natascia, la compagna di viaggi e bevute ed esaltazioni cui aveva dedicato una poesia che avrebbe voluto leggere quella sera, o la sera successiva, a seconda del programma di cui ancora non si sapeva nulla, “Trattoria da Dante”, s’intitolava, e confidava molto, disse, nelle mie doti di traduttore, per rendere al meglio l’atmosfera di Venezia, la liquida umidità che gli sembrava ben rispecchiata in quello pseudoalbergo da quattro soldi, disse ridendo, “Natascia e io abbiamo visitato Dante”, cominciava la poesia, continuò, tirando fuori da una tasca sformata della giacca un libretto nero pubblicato a Berlino da Wagenbach, l’editore dei poeti alternativi, parlava di un Dante che gestiva, pensa un po’, una trattoria per poveri a Cannaregio, non il sommo poeta, dunque, ma non faceva nulla, anzi al contrario bisognava, leggendo, fare una pausa dopo il primo verso e mantenere l’ambiguità il più a lungo possibile, col pubblico romano avrebbe funzionato, ne era sicuro, e io gli diedi ragione, l’idea che Dante potesse anche essere un altro Dante, un Dante qualsiasi, un oste della malora, mi divertiva, pensavo ai miei amici del classico che ne sarebbero stati moderatamente sconvolti, e poi la poesia continuava parlando di vino torbido e spaghetti arrossati, ma sì, avrebbe funzionato benissimo, adesso ne ero convinto anch’io, senza riserve, e proprio mentre ci scambiavamo le nostre idee sui vari Dante che occupano l’immaginazione, fummo raggiunti da un altro membro della sparuta delegazione, il suo amico Volker, diverso da Johannes come Dante il poeta da Dante l’oste o come l’acqua dal vino, un suo coetaneo leggermente più alto e magro, quasi segaligno, con i capelli biondi corti e curati, l’aria aristocratica, il viso affilato e attento quanto quello di Johannes tendeva invece alla rotondità e alla placida contentezza. “Ecco il nostro poeta politico,” disse Johannes a mo’ di presentazione, e Volker abbozzò un simulacro d’inchino, lui il poeta moderatamente noto e affermato (ma almeno pubblicato) a me, semplice traduttore praticante, e occupò poi uno spicchio di sole accanto a noi, dove Johannes, notai, con la sua mole proiettava l’ombra, il posto migliore da scegliere, quindi, o senz’altro il più protetto. Parlavamo di Dante, disse Johannes, e poi continuò, recitando, “di Dante che ci versa ancora da bere e porta / a quel vecchio là una scodella di minestrone”, lo declamò in tedesco, senza perdere l’occasione di domandarmi come avrei reso l’atmosfera di estrema semplicità con cui sbeffeggiava qualunque tentazione aulica, e mi resi conto che Volker, senza partecipare al nostro dialogo, era però al tempo stesso molto interessato alle mie risposte, mi studiava con attenzione, senza l’immediata e aprioristica simpatia di Johannes, ma come se dovesse valutare quanto fossi in grado di conquistarmela, la sua simpatia, con quale rapidità e prontezza, perché anzitutto di questo si trattava, di un rapporto di lavoro che ai suoi occhi sarebbe durato tre giorni e per il quale bisognava muoversi nella direzione giusta, con il giusto passo, pena un inutile spreco di risorse ed energie. Intanto intorno a noi la scena si animava progressivamente, c’era un certo fermento, qualche giornalista dei grandi quotidiani cominciava ad arrivare, ad avvicinare poeti e organizzatori per assicurarsi dichiarazioni e interviste, qualche volto più o meno noto mi sembrò di riconoscerlo, anche se non avrei saputo accoppiarlo a un nome o cognome ben definito, e anche i miei nuovi amici cominciarono a guardarsi intorno con maggiore interesse, pensando forse che, malgrado le apparenze, erano pur arrivati nel posto giusto, per tre giorni quello sarebbe stato o si sarebbe autoconsiderato il fulcro del mondo letterario, di cui poi anche giornali e riviste di casa loro avrebbero parlato, sebbene il ritorno alla realtà debba essere stato deludente, visto che a parte un articolo dell’eterno Spiegel e un trafiletto sulla conservatrice FAZ, la Frankfurter Allgemeine Zeitung, la loro presenza sarebbe passata nell’insieme abbastanza inosservata perfino in patria, sono le piccole o grandi disillusioni che fanno parte del mestiere di scrittore, ma tant’è, in quel momento dovettero avere come me l’impressione che qualcosa stesse succedendo, che fossimo al centro di un girone dantesco dedicato a tutte le vanità del mondo, col suo bel corredo di gazzettieri e scribacchini, e non aumentava solo la gente intorno a noi, aumentavano anche le loro ombre, e con quelle il minimo di frescura che creavano, e pian piano, il pomeriggio avanzando lento, con un venticello sottile proveniente dal largo che l’appoggiava, il fatto di essere lì fuori dall’albergo si faceva stranamente sempre più gradevole. Intanto Johannes mi aveva dato il testo delle sue poesie e io cercavo di raccapezzarmici, ma i miei riferimenti poetico-letterari erano decisamente diversi, non dico che fossi rimasto a Schiller o Goethe, ma di recente avevo letto Celan e ne ero rimasto davvero colpito, in ogni caso da tutti loro mi aspettavo una poesia più sottile e allusiva e anche più difficile da rendere, lo ammetto, mentre i versi di Johannes non consentivano quasi mai doppie interpretazioni, erano semplici come lui, lineari, brani di prosa spezzettati, con una bella alternanza d’ipotassi e paratassi, qualche accostamento inconsueto, ma poco di più, versi pacati, discorsivi, il cui effetto derivava dal non cercarne alcuno, e fra me e me pensavo, beh, se è tutto qui me la posso cavare, e cominciavo ad acquisire scioltezza e magari anche un minimo d’insolenza, come se non avessi fatto altro in tutta la mia breve esistenza che tradurre poesia, ignaro com’ero delle micidiali trappole che può celare agli occhi dell’incauto, ma lì almeno di trappole non mi pareva proprio che ce ne fossero, si sarebbe visto in seguito con Volker, Erich e soprattutto con l’ostico Gerald, di cui mi era stato detto da Gustavo, il mio oscuro mentore, tutto il male possibile, versi incomprensibili, aveva sibilato, privi di qualunque nesso fra significato e significante, sprovvisti di senso, ma poi si sarebbe visto, l’incontro con Johannes per il momento mi dava fiducia nei miei mezzi, l’austriaco, inteso come lingua, poteva avere qualche variante ma in fondo era la stessa cosa, dunque perché preoccuparsi in anticipo, l’avrei domato. Volker ci osservava intanto divertito, il declamante e rubizzo poeta sempre più eccitato e il traduttore curioso che non accennava a fermarne la foga, finché intervenne per sollecitare l’amico a fare una pausa, lasciar respirare il povero ragazzo, lasciar parlare anche lui, fosse pur solo per qualche minuto, perché non era mica giusto che si mettesse in quel modo sotto la luce dei riflettori e non ne uscisse più, i riflettori (presunti) e ancor più la luce da essi prodotta essendo un bene comune, da centellinare e condividere, santo egoismo!, che un poeta possa arrivare a tanto pur di promuoversi, lo rimproverò scherzoso, gli sembrava davvero inconcepibile, o forse era un colpo di quel sole romano e al tempo stesso marittimo che l’aveva già tramortito? Rise Johannes, fece un gesto regale all’amico come a dirgli: accomodati pure, il pubblico è tutto tuo, ritirò la pancia dentro il suo costume da marinaio e si tolse persino il cappello mettendo in mostra i capelli biondicci e lunghi incollati dal sole, mentre Volker commentava soddisfatto che in definitiva avevano lo stesso editore, Wagenbach appunto, avevano pubblicato nella stessa collana e dovevano aver diritto quindi agli stessi privilegi e alla stessa attenzione da parte del traduttore, e io li guardavo incuriosito da quella pantomima, da quella teatrale presa in giro della suscettibilità dei letterati, ma c’era anche qualcosa di realistico nello scherzo, non erano poi troppo lontani dal vero, visto come tanti altri, in quei giorni e soprattutto in quelle serate, si sarebbero presi sul serio e fatti quasi malmenare dalla folla inferocita, che di tutto aveva voglia salvo che di profeti autoproclamati e sacerdoti dell’ortodossia poetica.
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Restai ancora un po’ lì con loro a conversare, ricordo che m’interrogarono divertiti sulle altre mie esperienze di diciottenne, in gran parte scolastiche o comunque legate alla scuola, come ad esempio la rappresentazione del Mockinpott di Peter Weiss che avevo organizzato e diretto nell’aula magna della scuola, coordinando uno sparuto drappello di compagni di classe innamorati del teatro, dopo che con un altro coetaneo volontario me l’ero anche tradotta in italiano, quella commedia, non senza qualche difficoltà per renderne il tono grottesco, poi dopo lunghe e serissime prove in marzo eravamo andati in scena quattro o cinque volte nell’arco di un paio di settimane e in aprile l’avevamo addirittura esportata in un altro liceo romano, dove avevamo dovuto adattare luci e scenografia, ma l’esperienza era stata esaltante, nulla a che vedere certo con il megaspettacolo che si annunciava sul palcoscenico montato sulla spiaggia quella sera, ma insomma era stato pur sempre un momento emozionante, e anch’io, benché un po’ defilato in quanto regista, e come qualunque regista dev’essere, ero montato sulle tavole del palcoscenico proprio all’inizio della rappresentazione per leggere a mo’ di prologo un testo tratto da uno dei due libri autobiografici di Weiss, non ricordo più se era Abschied von den Eltern o Fluchtpunkt, ma questo potrei facilmente verificarlo se non fossi così pigro e i volumi di narrativa tedesca non si trovassero su un altro piano della mia casa, una dimora troppo grande e quindi dispersiva, del resto non è che la cosa abbia poi grande importanza, ero semplicemente riuscito a trovare nella neanche troppo vasta produzione dell’autore un passo, apparentemente avulso dalla commedia, che però mi era sembrato prestarsi a fornirne una specie di glossa o avvertenza o interpretazione preventiva, e l’avevo tranquillamente usato, così come in un libro ci si serve dell’introduzione, per preannunciare agli astanti i contenuti dello spettacolo. Con una lettera proveniente da Stoccolma, dove viveva ormai da molti anni, l’autore si era anche premurato di inviarci la sua benedizione, genuinamente lusingato dal fatto che, senz’alcuna imbeccata da parte degli insegnanti, alcuni alunni di un liceo tedesco all’estero avessero scelto proprio una sua pièce per provare l’ebbrezza dell’esperienza teatrale, anche se, al di là dell’interesse per il testo, bisogna ammettere che la scelta era caduta su quella commedia anche, se non soprattutto, per motivi pratici, trattandosi di un’opera che pur avendo un protagonista, il signor Mockinpott, appunto, metteva in scena un numero abbastanza elevato di personaggi, senza che agli stessi fossero richieste particolari doti attoriali (capacità di lanciarsi in lunghi monologhi, sforzi di memoria, qualità espressive e di dizione, contorsioni equilibristiche, eccetera); inoltre, come in molte opere contemporanee, anche in quel caso eravamo liberi di allestire le scene come ci pareva, con le scarse risorse finanziarie a disposizione, e dunque anche riciclando accessori carpiti con mille rassicurazioni a genitori e parenti, che in scena avrebbero improvvisamente acquisito una vita propria, falsa e al contempo più vera, o vera per un lasso di tempo più limitato ma per un numero maggiore di persone, convenute in un certo senso proprio (o anche) per assistere alla rinascita e resurrezione degli oggetti concessi in prestito. Raccontai loro, credo, anche del premio che avevo vinto a sorpresa, davvero non me l’aspettavo, troppo grossa parendomi l’organizzazione, l’Unesco che organizza e patrocina un premio di poesia aperto a tutti gli studenti liceali della città, figurarsi, e mentre altri nella mia stessa scuola si erano aggiudicati dei premi per le poesie scritte in lingua straniera, a me, al meticcio, era toccato il massimo riconoscimento per una poesia in italiano, una poesia su Treblinka, ricordo, toccante e martellante, nell’insieme un po’ ingenua ma ben riuscita, ce l’ho ancora da qualche parte, farà parte del Nachlass, del lascito, in letteratura non si è nessuno se non si lascia agli eredi qualcosa d’incompiuto, è per questo che tengo religiosamente da parte tutti questi lavori adolescenziali ai quali sarebbe comunque impossibile rimettere mano, solo per tenere i cassetti sempre belli colmi e avere una scusa per pubblicare, la scusa essendo semplicemente che nei cassetti non c’entra più niente e che quindi devo liberarmi delle ultime cose, soprattutto se le prime sono così poco smerciabili come sembra ed è. Poi non so di quali altre fandonie ed esagerazioni mi sarò reso responsabile davanti a quei due, più mi ascoltavano più ingigantivo, naturalmente, i miei trascorsi e trionfi, o trascorsi trionfi, volevo a tutti i costi che mi considerassero come un (più) giovane collega e facevo del mio meglio per dimostrare quell’esperienza che non avevo comunque fatto in tempo a maturare (né avrei potuto proprio per ragioni cronologiche, visto che Cronos non si lascia piegare a piacimento), ma loro non sembravano accorgersi dell’inganno, del resto badavo a non spingere l’autocompiacimento oltre i limiti dell’accettabile, prima che potessero domandarsi se non era il caso di ridimensionarmi un po’, magari con qualche domanda a trabocchetto da cui sarebbe emersa la mia ignoranza, che so, delle prassi editoriali, per esempio, o del mercato del libro, avrebbero potuto ridurmi facilmente al silenzio se avessero voluto, ma verso di me erano bendisposti, lo capii subito, s’era creata una corrente immediata di simpatia di cui però non dovevo approfittare troppo.
Quella prima sera non rimasi lì, ne sono certo, dovetti tornarmene a casa, forse avevo da fare, forse il giorno dopo avevamo ancora scuola, o eravamo già in vacanza?, bah, mi sfuggono troppi dettagli, ormai, in ogni caso so che mi persi la violenta, divertente quanto inconcludente contestazione allo scassato establishment letterario italiano, nei confronti di poeti che pensavano ingenui di poter semplicemente leggere i loro componimenti da un palco, seguendo le regole di un reading ordinato anziché la sregolatezza di un happening in piena regola e perpetuando così quella distinzione e separazione dalla platea che sarebbero state al centro delle proteste, certo, non so se meritassero di essere anche al centro, non metaforico, stavolta, di lanci di bottiglie e di sacchetti pieni di sabbia, a nessuno giova tanta attenzione da parte del cosiddetto pubblico, ma di certo avevano fatto male i loro conti, e così gli organizzatori, ammesso che non fosse tutto voluto, che non si fosse deciso freddamente e in anticipo di sacrificare i poeti locali sull’altare dello scandalo, e quindi della pubblicità, anche se mi sembra che questo avrebbe implicato troppa consapevolezza, troppa fiducia nei propri mezzi, che essi (ossia gli organizzatori) non avevano. Della confusione mi sarei reso conto comunque solo il giorno dopo, ma ancora una volta non devo anticipare, la prima giornata, malgrado la mia defezione serale, era ancora lunga, e decisi quindi di andare a dare un’occhiata in giro, sulla spiaggia, anche se sapevo che non mi sarei potuto ancora togliere una delle maggiori curiosità, il sopralluogo del grande palco, dieci metri per sedici, che era stato costruito nei giorni precedenti in modo, come si sarebbe visto poi, un po’ approssimativo, ma la cui tenuta in quel momento non sembrava certo in discussione. Il palco su cui i poeti si sarebbero (o forse ci saremmo) esibiti, non si trovava infatti in prossimità dell’albergo, ma in un altro punto del litorale, e in quel momento non potevo raggiungerlo, feci dunque uno sforzo di immaginazione, chiusi gli occhi e lo vidi, immaginai appunto che fosse ancora vuoto, un palco in potenza, la cui funzione si sarebbe attivata solo quando la manifestazione fosse cominciata ufficialmente, per il momento riducendosi a una struttura in legno che a nessuno interessava troppo, tanto che mentre in seguito avrebbero letteralmente fatto a botte per montarci sopra, quel pomeriggio doveva campeggiare ancora tranquillo sulla spiaggia, deserto e libero, salvo per qualche ragazzo con i capelli lunghi e l’aria vorace (come me) che vi si sarebbe avventurato sopra più che altro per soddisfare la sorpresa infantile di poter salire su un simile artefatto, un coacervo apparentemente inestricabile di tubi Innocenti e assi di legno, occasione che non gli era e non gli sarebbe forse mai più ricapitata, non in tempi brevi, non senza aver ricevuto un’apposita autorizzazione di cui invece in quella circostanza si poteva fare a meno, e già questo a pensarci bene era incredibile, la realizzazione del sogno di un’anarchia incondizionata che a quell’età tutti condividiamo. Avessi potuto farlo, in quel momento mi ci sarei arrampicato anch’io, avrei fatto il giro completo e sarei risceso dall’altra parte, ritrovandomi a non più di dieci metri dalle onde che si frangevano tranquille a riva, un mare calmo come sa esserlo in certe giornate solo il Tirreno, giornate di calma piatta, di stasi, di sospensione delle ostilità nel mondo, o almeno questo è quello che sembra, l’impressione prevalente, magari non è vero niente, e nel frattempo, mentre noi ci pensiamo, l’ostilità nel mondo si è perfino accentuata, ma il Tirreno resta insondabile e indifferente, estraneo a tutto. Riaperti gli occhi ritornai poi lentamente verso l’albergo e mi avvidi che il duo che avevo lasciato si era trasformato in un quintetto, dal momento che a Johannes e Volker si erano aggiunti adesso anche i due austriaci e naturalmente Gustavo, che per tutta la durata della manifestazione (scommisi con me stesso) non avrebbe più commesso l’errore di perderli di vista. Il più anziano, Erich, era in calzoncini corti color kaki e così conciato, una figura a metà fra scout ed esploratore, aveva un’aria vagamente bavarese più che austriaca; l’altro, Gerald, che come avrei scoperto in seguito era sì viennese ma viveva anche lui da anni a Berlino, appariva invece elegantissimo, una studiata eleganza fine Ottocento o inizio Novecento, da esteta. Quando li raggiunsi stava raccontando agli altri dell’ultima scoperta che aveva appena fatto, e cioè che a quanto pareva il numero di poeti e accompagnatori era salito vertiginosamente, molto oltre le previsioni, al punto da costringere gli organizzatori ad aprire un’altra ala dell’albergo, in precedenza chiusa per disinfestazione, e non poteva fare a meno di domandarsi se la stanza che gli era stata attribuita non si trovasse appunto in quell’ala, considerato l’odore di chiuso e di rancido che vi regnava sovrano, constatazione che lasciò sospesa nell’aria come se meritasse di essere approfondita ma in quel momento gliene mancasse il tempo, o la voglia. Del resto, gli altri non potevano saperne più di lui, nemmeno Gustavo, che pure vantava notevoli entrature con l’università, il comune e chissà quali altre autorità pubbliche, per non parlare degli organizzatori, ma nemmeno lui, ammise, aveva partecipato al gioco dell’attribuzione delle stanze, né disponeva di informazioni più precise che avrebbero potuto confermarlo ai loro occhi nel ruolo di insider e profondo conoscitore dei segreti più segreti, ragion per cui l’osservazione o commento o forse piuttosto lamento di Gerald venne accolta da tutti gli altri in quel crocchio con un’alzata di spalle, come pure l’ulteriore constatazione che la sua stanza era troppo piccola, la chiave non chiudeva e lo sciacquone non funzionava, come se, vista la situazione, si trattasse tutt’al più di dettagli piccanti, ma senza troppa importanza, l’autentica posta in gioco essendo la sopravvivenza per ben tre giorni in quella landa infuocata, lontano da ogni traccia di civiltà. E anche ignorati da tutti, perché a quell’ora del primo giorno sembrava proprio che in giro per Ostia non ci fosse quasi nessuno, e magari nessuno sarebbe venuto neanche la sera, non lo si poteva ancora escludere, non si poteva escludere insomma il flop o cocente insuccesso di tutta l’avventura, alla quale forse non era stata data abbastanza pubblicità e visibilità sui giornali, fatta eccezione per Lotta continua che aveva e avrebbe pubblicato un supplemento giornaliero tutto dedicato al Festival, con dichiarazioni dei promotori e interviste a Ginsberg, Ferlinghetti eccetera, ma Lotta continua non la leggevano in molti (in realtà era praticamente illeggibile per chiunque), era semmai sui potenti mezzi propagandistici del Comune che bisognava puntare per assicurarsi un afflusso di pubblico, e sotto questo profilo tutto sembrava ancora racchiuso e sintetizzato in un enorme punto interrogativo. Dall’alto della sua lunga esperienza Erich disse che non gli sembrava il caso di drammatizzare o di preoccuparsi, succedeva sempre così, sembrava che la cosa non interessasse nessuno, e poi alla fine la gente veniva comunque, accorreva dai luoghi più disparati e improbabili, soprattutto se si spargeva la voce e dunque si convincevano del fatto che si sarebbero trovati nel bel mezzo di un Evento, e in effetti, m’intromisi io prendendo il coraggio a due mani – ancora non ero stato presentato agli altri due –, l’evento ci sarebbe forse stato, o meglio l’avvento, visto che tutti si aspettavano il passaggio meteorico di Patti Smith che avrebbe cantato gratis per i suoi amici poeti americani e per il pubblico, a questo, almeno, una certa risonanza era stata data, anche se la cosa non era stata confermata ufficialmente, e insomma nessuno sapeva ancora se sarebbe venuta davvero o se non fosse invece una bufala messa in giro scientemente e con abilità dagli organizzatori, o dal suo agente italiano, o magari da quel burlone matricolato di un assessore alla cultura, per creare suspense e un brivido a buon mercato, brivido non di freddo ma di piacere, s’intende, e a un certo punto dell’ultima serata magari le note di Because the Night avrebbero davvero riscaldato e ipnotizzato l’uditorio, non lo si poteva escludere, ma certo sarebbe stato difficile mantenere la sorpresa con tutte le amplificazioni e gli impianti di cui la sua band avrebbe avuto bisogno, non sono certo cose che s’improvvisano, e per il momento almeno non si vedeva traccia di preparativi, disse Gustavo, tranne per la presenza in spiaggia delle casse acustiche che sarebbero servite per amplificare la flebile voce dei poeti ma che sembravano inadatte a un concerto rock.
2. continua. Clicca qui per leggere la puntata precedente
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