Raoul Precht
Castelporziano/2

Johannes e Volker

«Mi prese subito in simpatia, Johannes, o sotto la sua ala protettrice, per così dire, mi parlò di Natascia, la compagna di viaggi e bevute ed esaltazioni cui aveva dedica­to una poesia che avrebbe voluto leggere quella sera»

Riassunto: il romanzo segue le avventure di un giovanissimo traduttore chiamato a occuparsi dei poeti tedeschi presenti al Festival di Castelporziano. Nella puntata precedente, il protagonista è stato convocato all’albergo Enalc di Ostia e ha conosciuto il primo dei poeti che tradurrà, Johannes Schenk.

* * *

Ma non precorriamo i tempi. La conversazione con lo scono­sciuto, che veniva da Berlino e si chiamava Johannes, prese il suo corso, lui volle sapere dei miei studi, io più che altro dei suoi viaggi, perché emerse subito che Johannes era un grande viaggiatore e anzitutto un marinaio, o viaggiatore in quanto marinaio, e questo produceva su di me, uno dei pochi giovani romani che neanche sapevano nuotare e che quindi di fronte al mare si sentivano irrimediabilmente a disagio, un certo fa­scino, accompagnato dallo stordimento che sempre ci coglie quando non riusciamo a misurare pienamente quello che ci separa davvero dalla vita di un altro, di un estraneo, vita di cui siamo chiamati a ricostruire il percorso in base a qualche limi­tato elemento, niente di definito, anzi il più delle volte una sensazione assai indeterminata che dovremmo cercare di ri­comporre in un’immagine organica, e questo difficilmente rie­sce, ragion per cui non posso negare che quei lacerti della vita di Johannes, così come me l’andava raccontando in quel po­meriggio assolato, non mancavano di affascinarmi e anche un po’ d’inquietarmi, come sovente succede quando non com­prendiamo appieno la portata di quanto ci viene narrato, e Johannes peraltro saltava di palo in frasca, da un continente all’altro, da una donna fatale all’altra, senza premurarsi di se­guire un ordine cronologico o semplicemente logico, come se il semplice fatto di essere stato, o di essere tuttora, chissà, un marinaio, lo autorizzasse a prendersi delle libertà poetiche e narrative di cui non doveva render conto né al lettore dei suoi versi né all’interlocutore di un pomeriggio. Io lo ascoltavo, né potevo fare molto di più o di diverso, mi mancava ancora un anno al diploma, e a parte un viaggio a Londra e qualche spo­stamento in Germania a trovare i parenti – viaggi di rara noia e ripetitività – non potevo opporgli granché sul piano della vita vissuta, mi sembrava anzi già molto che stesse ad ascol­tarmi fingendo interesse, ma forse era solo per il sollievo di aver trovato finalmente qualcuno che parlava la sua lingua, qualcuno che non fosse uno dei colleghi, Erich, Gerald o Vol­ker, con cui doveva aver già esaurito gli argomenti da trattare, anche se poi ebbi modo di notare che almeno con l’ultimo, suo coetaneo, esisteva già una certa sintonia o perfino compli­cità, forse si conoscevano da prima, attivi com’erano entrambi sulla scena berlinese, mentre la stessa cosa non poteva dirsi per l’anziano Erich e soprattutto per Gerald l’austriaco, che in quei tre giorni e notti di follie avrebbe fatto vita a parte, più riservata e introversa. Mi prese subito in simpatia, Johannes, o sotto la sua ala protettrice, per così dire, mi parlò di Natascia, la compagna di viaggi e bevute ed esaltazioni cui aveva dedica­to una poesia che avrebbe voluto leggere quella sera, o la sera successiva, a seconda del programma di cui ancora non si sa­peva nulla, “Trattoria da Dante”, s’intitolava, e confidava mol­to, disse, nelle mie doti di traduttore, per rendere al meglio l’atmosfera di Venezia, la liquida umidità che gli sembrava ben rispecchiata in quello pseudoalbergo da quattro soldi, disse ridendo, “Natascia e io abbiamo visitato Dante”, cominciava la poesia, continuò, tirando fuori da una tasca sformata della giacca un libretto nero pubblicato a Berlino da Wagenbach, l’editore dei poeti alternativi, parlava di un Dante che gestiva, pensa un po’, una trattoria per poveri a Cannaregio, non il sommo poeta, dunque, ma non faceva nulla, anzi al contrario bisognava, leggendo, fare una pausa dopo il primo verso e mantenere l’ambiguità il più a lungo possibile, col pubblico romano avrebbe funzionato, ne era sicuro, e io gli diedi ragio­ne, l’idea che Dante potesse anche essere un altro Dante, un Dante qualsiasi, un oste della malora, mi divertiva, pensavo ai miei amici del classico che ne sarebbero stati moderatamente sconvolti, e poi la poesia continuava parlando di vino torbido e spaghetti arrossati, ma sì, avrebbe funzionato benissimo, adesso ne ero convinto anch’io, senza riserve, e proprio men­tre ci scambiavamo le nostre idee sui vari Dante che occupano l’immaginazione, fummo raggiunti da un altro membro della sparuta delegazione, il suo amico Volker, diverso da Johannes come Dante il poeta da Dante l’oste o come l’acqua dal vino, un suo coetaneo leggermente più alto e magro, quasi segali­gno, con i capelli biondi corti e curati, l’aria aristocratica, il viso affilato e attento quanto quello di Johannes tendeva inve­ce alla rotondità e alla placida contentezza. “Ecco il nostro poeta politico,” disse Johannes a mo’ di presentazione, e Vol­ker abbozzò un simulacro d’inchino, lui il poeta moderata­mente noto e affermato (ma almeno pubblicato) a me, sempli­ce traduttore praticante, e occupò poi uno spicchio di sole ac­canto a noi, dove Johannes, notai, con la sua mole proiettava l’ombra, il posto migliore da scegliere, quindi, o senz’altro il più protetto. Parlavamo di Dante, disse Johannes, e poi conti­nuò, recitando, “di Dante che ci versa ancora da bere e porta / a quel vecchio là una scodella di minestrone”, lo declamò in tedesco, senza perdere l’occasione di domandarmi come avrei reso l’atmosfera di estrema semplicità con cui sbeffeggiava qualunque tentazione aulica, e mi resi conto che Volker, senza partecipare al nostro dialogo, era però al tempo stesso molto interessato alle mie risposte, mi studiava con attenzione, senza l’immediata e aprioristica simpatia di Johannes, ma come se dovesse valutare quanto fossi in grado di conquistarmela, la sua simpatia, con quale rapidità e prontezza, perché anzitutto di questo si trattava, di un rapporto di lavoro che ai suoi occhi sarebbe durato tre giorni e per il quale bisognava muoversi nella direzione giusta, con il giusto passo, pena un inutile spreco di risorse ed energie. Intanto intorno a noi la scena si animava progressivamente, c’era un certo fermento, qualche giornalista dei grandi quotidiani cominciava ad arrivare, ad avvicinare poeti e organizzatori per assicurarsi dichiarazioni e interviste, qualche volto più o meno noto mi sembrò di rico­noscerlo, anche se non avrei saputo accoppiarlo a un nome o cognome ben definito, e anche i miei nuovi amici cominciaro­no a guardarsi intorno con maggiore interesse, pensando forse che, malgrado le apparenze, erano pur arrivati nel posto giu­sto, per tre giorni quello sarebbe stato o si sarebbe autoconsi­derato il fulcro del mondo letterario, di cui poi anche giornali e riviste di casa loro avrebbero parlato, sebbene il ritorno alla realtà debba essere stato deludente, visto che a parte un artico­lo dell’eterno Spiegel e un trafiletto sulla conservatrice FAZ, la Frankfurter Allgemeine Zeitung, la loro presenza sarebbe passata nell’insieme abbastanza inosservata perfino in patria, sono le piccole o grandi disillusioni che fanno parte del mestiere di scrittore, ma tant’è, in quel momento dovettero avere come me l’impressione che qualcosa stesse succedendo, che fossimo al centro di un girone dantesco dedicato a tutte le vanità del mondo, col suo bel corredo di gazzettieri e scribacchini, e non aumentava solo la gente intorno a noi, aumentavano anche le loro ombre, e con quelle il minimo di frescura che creavano, e pian piano, il pomeriggio avanzando lento, con un venticello sottile proveniente dal largo che l’appoggiava, il fatto di essere lì fuori dall’albergo si faceva stranamente sempre più gradevo­le. Intanto Johannes mi aveva dato il testo delle sue poesie e io cercavo di raccapezzarmici, ma i miei riferimenti poetico-letterari erano decisamente diversi, non dico che fossi rimasto a Schiller o Goethe, ma di recente avevo letto Celan e ne ero rimasto davvero colpito, in ogni caso da tutti loro mi aspettavo una poesia più sottile e allusiva e anche più difficile da rende­re, lo ammetto, mentre i versi di Johannes non consentivano quasi mai doppie interpretazioni, erano semplici come lui, li­neari, brani di prosa spezzettati, con una bella alternanza d’ipotassi e paratassi, qualche accostamento inconsueto, ma poco di più, versi pacati, discorsivi, il cui effetto derivava dal non cercarne alcuno, e fra me e me pensavo, beh, se è tutto qui me la posso cavare, e cominciavo ad acquisire scioltezza e magari anche un minimo d’insolenza, come se non avessi fatto altro in tutta la mia breve esistenza che tradurre poesia, ignaro com’ero delle micidiali trappole che può celare agli occhi dell’incauto, ma lì almeno di trappole non mi pareva proprio che ce ne fossero, si sarebbe visto in seguito con Volker, Erich e soprattutto con l’ostico Gerald, di cui mi era stato det­to da Gustavo, il mio oscuro mentore, tutto il male possibile, versi incomprensibili, aveva sibilato, privi di qualunque nesso fra significato e significante, sprovvisti di senso, ma poi si sa­rebbe visto, l’incontro con Johannes per il momento mi dava fiducia nei miei mezzi, l’austriaco, inteso come lingua, poteva avere qualche variante ma in fondo era la stessa cosa, dunque perché preoccuparsi in anticipo, l’avrei domato. Volker ci os­servava intanto divertito, il declamante e rubizzo poeta sem­pre più eccitato e il traduttore curioso che non accennava a fermarne la foga, finché intervenne per sollecitare l’amico a fare una pausa, lasciar respirare il povero ragazzo, lasciar par­lare anche lui, fosse pur solo per qualche minuto, perché non era mica giusto che si mettesse in quel modo sotto la luce dei riflettori e non ne uscisse più, i riflettori (presunti) e ancor più la luce da essi prodotta essendo un bene comune, da centelli­nare e condividere, santo egoismo!, che un poeta possa arriva­re a tanto pur di promuoversi, lo rimproverò scherzoso, gli sembrava davvero inconcepibile, o forse era un colpo di quel sole romano e al tempo stesso marittimo che l’aveva già tra­mortito? Rise Johannes, fece un gesto regale all’amico come a dirgli: accomodati pure, il pubblico è tutto tuo, ritirò la pancia dentro il suo costume da marinaio e si tolse persino il cappello mettendo in mostra i capelli biondicci e lunghi incollati dal sole, mentre Volker commentava soddisfatto che in definitiva avevano lo stesso editore, Wagenbach appunto, avevano pub­blicato nella stessa collana e dovevano aver diritto quindi agli stessi privilegi e alla stessa attenzione da parte del traduttore, e io li guardavo incuriosito da quella pantomima, da quella tea­trale presa in giro della suscettibilità dei letterati, ma c’era an­che qualcosa di realistico nello scherzo, non erano poi troppo lontani dal vero, visto come tanti altri, in quei giorni e soprat­tutto in quelle serate, si sarebbero presi sul serio e fatti quasi malmenare dalla folla inferocita, che di tutto aveva voglia sal­vo che di profeti autoproclamati e sacerdoti dell’ortodossia poetica.

Fu a questo punto, durante il nostro scambio di convenevoli o gioco delle parti, che arrivò finalmente anche Gustavo, il ger­manista, in un certo senso il mio committente, visto che un suo amico o complice dirigeva la rivista su cui sarebbero ap­parse, nella traduzione del sottoscritto, le poesie dei quattro moschettieri nonché un mio pezzo critico o articolo o nota polemica o corsivo, chissà, di cui ancora non si era parlato affatto, sull’esperienza di quei tre giorni e quindi sul festival nel suo complesso. Gustavo era l’unico germanista, credo, che gravitasse intorno al gruppo di gioiosi cialtroni dal quale tutta l’iniziativa aveva avuto inizio, e sebbene come cialtrone non temesse la concorrenza di nessuno, avvertiva vagamente l’esigenza di affermarsi e di scalare con una certa rapidità la piramide universitaria per arrivare prima possibile a quella cat­tedra che era già toccata a suo padre, a suo nonno e a gran parte della famiglia allargata, un grandioso progetto di lungo termine e di vasta portata, perseguito da generazioni, al quale perfino un ragazzino come me poteva, entro certi limiti, con­tribuire, non fosse che come modesto strumento, anche se io mi sentivo tutt’altro che tale, ero anzi interessato a quel mon­do e lusingato di essere stato chiamato a farne parte, e quando parlo di mondo non mi riferisco esclusivamente all’esperienza di quei tre giorni e notti, ma ai contatti con le case editrici, le riviste, i quotidiani, con tutto il sottobosco brulicante intorno alle istituzioni che in qualche modo producono, diffondono o riciclano cultura. Si presentò tutto affannato, Gustavo, per farsi perdonare il ritardo biascicò qualcosa sulla difficoltà di parcheggiare la macchina, disse anche che era stato fermato da altri colleghi poeti (già, perché anche lui, a tempo perso, poe­tava), colleghi peraltro inviperiti visto che stavano girando in tondo da ore alla ricerca di un albergo che non compariva da nessuna parte, su nessuna cartina, e di cui del resto nessuno sembrava sapere nulla, ed era tutto vero, purtroppo, chi aveva cercato di arrivare contando sulle proprie forze, senza farsi venire a prendere dagli organizzatori, privilegio, questo, che d’altronde era stato riservato ai soli stranieri di un certo peso, si era smarrito, aveva finito per vagare nell’afa e tra le mosche per ore, al telefono ovviamente non rispondeva nessuno, non risponde mai nessuno quando serve, e alla fine non rimaneva che rassegnarsi e andare a farsi un gelato, sperando d’incontrare prima o poi qualcuno che fosse in grado di dare un’indicazione pertinente o non troppo impertinente, insigni letterati ridotti insomma al rango di vagabondi peripatetici senza fissa dimora, benché la stanza nel famoso albergo fosse stata loro confermata con tanto di telegramma e un letto fre­sco dovesse quindi aspettarli in un qualche remoto angolo dell’universo, e il nostro, Gustavo, aveva quindi perso un mucchio di tempo elargendo suggerimenti a questo e a quello, sulla strada da percorrere, sugli incroci da ignorare e da onora­re, sul modo migliore e più sbrigativo per trasformare quel pomeriggio cominciato malissimo in una serata trionfale. Solo dopo essersi scusato in lungo e in largo e aver raggiunto l’assoluta certezza che malgrado tutto gli ospiti non ce l’avevano con lui, Gustavo si spinse a chiedere degli altri due, degli austriaci, i più illustri del quartetto, mostrando implici­tamente che erano proprio questi, cioè gli austriaci, a interes­sarlo veramente, Johannes e Volker potendo essere ridotti fa­cilmente al rango di comprimari, perché non c’era nulla da fare, la stella del più anziano, Erich, era in quel momento in grande ascesa, aveva appena pubblicato un libro di poesie d’amore che era stato addirittura un best-seller, e inoltre era presente sulla scena letteraria, e soprattutto politica, con delle prese di posizione forse discutibili ma sempre originali che ne avevano fatto lo spauracchio delle forze conservatrici, di cui metteva sempre più in risalto le connivenze, se non materiali, almeno ideali, con certo neonazismo di ritorno, in parole po­vere era un autore allora molto in vista, seguito da un pubbli­co variegato ma fedele, su posizioni molto vicine a quelle dei gruppi extraparlamentari che in quegli anni avrebbero fatto più volte scalpore, insomma a Erich si guardava come a un autentico personaggio, già per la sua storia di ebreo fuggito ancora adolescente in Inghilterra, fuggito per l’esattezza dopo che del padre, condotto via dai nazisti per un interrogatorio, gli era stato restituito solo il cadavere, ed era infatti subito do­po, nel maggio 1938, che il diciassettenne Erich era scappato prima in Belgio, poi a Londra, dove avrebbe fondato un grup­po di pronto intervento, la Emigrantenjugend, che gli avrebbe consentito di far emigrare in Inghilterra anche sua madre, in­sieme a decine di altri oppositori minacciati dalla dittatura. Un personaggio, appunto, da sempre nell’occhio del ciclone e sot­to il fuoco dei riflettori, meno metaforici di quelli di cui scher­zavano poco prima Johannes e Volker e dunque molto più interessanti per Gustavo che un po’ di luce riflessa, sospetta­vo, l’avrebbe gradita, era questa la finalità principale della sua partecipazione alla kermesse, diventare uno dei punti di riferi­mento, se non il punto di riferimento, di questi scrittori, che in seguito a lui si sarebbero rivolti per farsi studiare e tradurre in Italia, con cui avrebbe intrattenuto epistolari da conservare e pubblicare alla loro morte – sempre augurandosi che il critico, essendo più giovane, sopravvivesse ai creatori –, che lo avreb­bero ringraziato pubblicamente per i suoi sforzi, che magari l’avrebbero a loro volta tradotto e fatto conoscere nei paesi di lingua tedesca, ma per il momento non si può dire che avesse esordito particolarmente bene, Johannes e Volker non sem­bravano troppo impressionati, e quanto ai due rimasti dentro al sedicente hotel, Gerald ed Erich, chissà cosa si stavano di­cendo, chissà se già sparlavano di lui e del suo ritardo, non c’era modo di saperlo se non andandoli a stanare, ed è la ra­gione per cui Gustavo ci lasciò quasi subito e sparì dietro la porta a vetri, all’inseguimento della reputazione perduta, e penso che sia stata davvero solo la buona educazione a impe­dire ai due poveri poeti abbandonati nella calura di dire ad alta voce quello che – ne ero sicuro – stavano pensando, magari non esattamente con le stesse espressioni mentali, ma in una comunanza d’idee che non mi avrebbe stupito.

Restai ancora un po’ lì con loro a conversare, ricordo che m’interrogarono divertiti sulle altre mie esperienze di diciot­tenne, in gran parte scolastiche o comunque legate alla scuola, come ad esempio la rappresentazione del Mockinpott di Peter Weiss che avevo organizzato e diretto nell’aula magna della scuola, coordinando uno sparuto drappello di compagni di classe innamorati del teatro, dopo che con un altro coetaneo volontario me l’ero anche tradotta in italiano, quella comme­dia, non senza qualche difficoltà per renderne il tono grotte­sco, poi dopo lunghe e serissime prove in marzo eravamo an­dati in scena quattro o cinque volte nell’arco di un paio di set­timane e in aprile l’avevamo addirittura esportata in un altro liceo romano, dove avevamo dovuto adattare luci e scenogra­fia, ma l’esperienza era stata esaltante, nulla a che vedere certo con il megaspettacolo che si annunciava sul palcoscenico montato sulla spiaggia quella sera, ma insomma era stato pur sempre un momento emozionante, e anch’io, benché un po’ defilato in quanto regista, e come qualunque regista dev’essere, ero montato sulle tavole del palcoscenico proprio all’inizio della rappresentazione per leggere a mo’ di prologo un testo tratto da uno dei due libri autobiografici di Weiss, non ricordo più se era Abschied von den Eltern o Fluchtpunkt, ma questo po­trei facilmente verificarlo se non fossi così pigro e i volumi di narrativa tedesca non si trovassero su un altro piano della mia casa, una dimora troppo grande e quindi dispersiva, del resto non è che la cosa abbia poi grande importanza, ero semplice­mente riuscito a trovare nella neanche troppo vasta produzio­ne dell’autore un passo, apparentemente avulso dalla comme­dia, che però mi era sembrato prestarsi a fornirne una specie di glossa o avvertenza o interpretazione preventiva, e l’avevo tranquillamente usato, così come in un libro ci si serve dell’introduzione, per preannunciare agli astanti i contenuti dello spettacolo. Con una lettera proveniente da Stoccolma, dove viveva ormai da molti anni, l’autore si era anche premu­rato di inviarci la sua benedizione, genuinamente lusingato dal fatto che, senz’alcuna imbeccata da parte degli insegnanti, al­cuni alunni di un liceo tedesco all’estero avessero scelto pro­prio una sua pièce per provare l’ebbrezza dell’esperienza teatra­le, anche se, al di là dell’interesse per il testo, bisogna ammet­tere che la scelta era caduta su quella commedia anche, se non soprattutto, per motivi pratici, trattandosi di un’opera che pur avendo un protagonista, il signor Mockinpott, appunto, met­teva in scena un numero abbastanza elevato di personaggi, senza che agli stessi fossero richieste particolari doti attoriali (capacità di lanciarsi in lunghi monologhi, sforzi di memoria, qualità espressive e di dizione, contorsioni equilibristiche, ec­cetera); inoltre, come in molte opere contemporanee, anche in quel caso eravamo liberi di allestire le scene come ci pareva, con le scarse risorse finanziarie a disposizione, e dunque an­che riciclando accessori  carpiti con mille rassicurazioni a geni­tori e parenti, che in scena avrebbero improvvisamente acqui­sito una vita propria, falsa e al contempo più vera, o vera per un lasso di tempo più limitato ma per un numero maggiore di persone, convenute in un certo senso proprio (o anche) per assistere alla rinascita e resurrezione degli oggetti concessi in prestito. Raccontai loro, credo, anche del premio che avevo vinto a sorpresa, davvero non me l’aspettavo, troppo grossa parendomi l’organizzazione, l’Unesco che organizza e patroci­na un premio di poesia aperto a tutti gli studenti liceali della città, figurarsi, e mentre altri nella mia stessa scuola si erano aggiudicati dei premi per le poesie scritte in lingua straniera, a me, al meticcio, era toccato il massimo riconoscimento per una poesia in italiano, una poesia su Treblinka, ricordo, toc­cante e martellante, nell’insieme un po’ ingenua ma ben riusci­ta, ce l’ho ancora da qualche parte, farà parte del Nachlass, del lascito, in letteratura non si è nessuno se non si lascia agli eredi qualcosa d’incompiuto, è per questo che tengo religiosamente da parte tutti questi lavori adolescenziali ai quali sarebbe co­munque impossibile rimettere mano, solo per tenere i cassetti sempre belli colmi e avere una scusa per pubblicare, la scusa essendo semplicemente che nei cassetti non c’entra più niente e che quindi devo liberarmi delle ultime cose, soprattutto se le prime sono così poco smerciabili come sembra ed è. Poi non so di quali altre fandonie ed esagerazioni mi sarò reso respon­sabile davanti a quei due, più mi ascoltavano più ingigantivo, naturalmente, i miei trascorsi e trionfi, o trascorsi trionfi, vo­levo a tutti i costi che mi considerassero come un (più) giova­ne collega e facevo del mio meglio per dimostrare quell’esperienza che non avevo comunque fatto in tempo a maturare (né avrei potuto proprio per ragioni cronologiche, visto che Cronos non si lascia piegare a piacimento), ma loro non sembravano accorgersi dell’inganno, del resto badavo a non spingere l’autocompiacimento oltre i limiti dell’accettabile, prima che potessero domandarsi se non era il caso di ridimensionarmi un po’, magari con qualche domanda a trabocchetto da cui sarebbe emersa la mia ignoranza, che so, delle prassi editoriali, per esempio, o del mercato del libro, avrebbero potuto ridurmi facilmente al silenzio se avessero voluto, ma verso di me erano bendisposti, lo capii subito, s’era creata una corrente immediata di simpatia di cui però non do­vevo approfittare troppo.

Quella prima sera non rimasi lì, ne sono certo, dovetti tor­narmene a casa, forse avevo da fare, forse il giorno dopo ave­vamo ancora scuola, o eravamo già in vacanza?, bah, mi sfug­gono troppi dettagli, ormai, in ogni caso so che mi persi la violenta, divertente quanto inconcludente contestazione allo scassato establishment letterario italiano, nei confronti di poeti che pensavano ingenui di poter semplicemente leggere i loro componimenti da un palco, seguendo le regole di un reading ordinato anziché la sregolatezza di un happening in piena regola e perpetuando così quella distinzione e separazione dalla pla­tea che sarebbero state al centro delle proteste, certo, non so se meritassero di essere anche al centro, non metaforico, sta­volta, di lanci di bottiglie e di sacchetti pieni di sabbia, a nes­suno giova tanta attenzione da parte del cosiddetto pubblico, ma di certo avevano fatto male i loro conti, e così gli organiz­zatori, ammesso che non fosse tutto voluto, che non si fosse deciso freddamente e in anticipo di sacrificare i poeti locali sull’altare dello scandalo, e quindi della pubblicità, anche se mi sembra che questo avrebbe implicato troppa consapevolezza, troppa fiducia nei propri mezzi, che essi (ossia gli organizzato­ri) non avevano. Della confusione mi sarei reso conto comun­que solo il giorno dopo, ma ancora una volta non devo antici­pare, la prima giornata, malgrado la mia defezione serale, era ancora lunga, e decisi quindi di andare a dare un’occhiata in giro, sulla spiaggia, anche se sapevo che non mi sarei potuto ancora togliere una delle maggiori curiosità, il sopralluogo del grande palco, dieci metri per sedici, che era stato costruito nei giorni precedenti in modo, come si sarebbe visto poi, un po’ approssimativo, ma la cui tenuta in quel momento non sem­brava certo in discussione. Il palco su cui i poeti si sarebbero (o forse ci saremmo) esibiti, non si trovava infatti in prossimi­tà dell’albergo, ma in un altro punto del litorale, e in quel momento non potevo raggiungerlo, feci dunque uno sforzo di immaginazione, chiusi gli occhi e lo vidi, immaginai appunto che fosse ancora vuoto, un palco in potenza, la cui funzione si sarebbe attivata solo quando la manifestazione fosse comin­ciata ufficialmente, per il momento riducendosi a una struttura in legno che a nessuno interessava troppo, tanto che mentre in seguito avrebbero letteralmente fatto a botte per montarci sopra, quel pomeriggio doveva campeggiare ancora tranquillo sulla spiaggia, deserto e libero, salvo per qualche ragazzo con i capelli lunghi e l’aria vorace (come me) che vi si sarebbe av­venturato sopra più che altro per soddisfare la sorpresa infan­tile di poter salire su un simile artefatto, un coacervo apparen­temente inestricabile di tubi Innocenti e assi di legno, occasio­ne che non gli era e non gli sarebbe forse mai più ricapitata, non in tempi brevi, non senza aver ricevuto un’apposita auto­rizzazione di cui invece in quella circostanza si poteva fare a meno, e già questo a pensarci bene era incredibile, la realizza­zione del sogno di un’anarchia incondizionata che a quell’età tutti condividiamo. Avessi potuto farlo, in quel momento mi ci sarei arrampicato anch’io, avrei fatto il giro completo e sarei risceso dall’altra parte, ritrovandomi a non più di dieci metri dalle onde che si frangevano tranquille a riva, un mare calmo come sa esserlo in certe giornate solo il Tirreno, giornate di calma piatta, di stasi, di sospensione delle ostilità nel mondo, o almeno questo è quello che sembra, l’impressione prevalente, magari non è vero niente, e nel frattempo, mentre noi ci pen­siamo, l’ostilità nel mondo si è perfino accentuata, ma il Tirre­no resta insondabile e indifferente, estraneo a tutto. Riaperti gli occhi ritornai poi lentamente verso l’albergo e mi avvidi che il duo che avevo lasciato si era trasformato in un quintet­to, dal momento che a Johannes e Volker si erano aggiunti adesso anche i due austriaci e naturalmente Gustavo, che per tutta la durata della manifestazione (scommisi con me stesso) non avrebbe più commesso l’errore di perderli di vista. Il più anziano, Erich, era in calzoncini corti color kaki e così concia­to, una figura a metà fra scout ed esploratore, aveva un’aria vagamente bavarese più che austriaca; l’altro, Gerald, che co­me avrei scoperto in seguito era sì viennese ma viveva anche lui da anni a Berlino, appariva invece elegantissimo, una stu­diata eleganza fine Ottocento o inizio Novecento, da esteta. Quando li raggiunsi stava raccontando agli altri dell’ultima scoperta che aveva appena fatto, e cioè che a quanto pareva il numero di poeti e accompagnatori era salito vertiginosamente, molto oltre le previsioni, al punto da costringere gli organizza­tori ad aprire un’altra ala dell’albergo, in precedenza chiusa per disinfestazione, e non poteva fare a meno di domandarsi se la stanza che gli era stata attribuita non si trovasse appunto in quell’ala, considerato l’odore di chiuso e di rancido che vi re­gnava sovrano, constatazione che lasciò sospesa nell’aria come se meritasse di essere approfondita ma in quel momento glie­ne mancasse il tempo, o la voglia. Del resto, gli altri non pote­vano saperne più di lui, nemmeno Gustavo, che pure vantava notevoli entrature con l’università, il comune e chissà quali altre autorità pubbliche, per non parlare degli organizzatori, ma nemmeno lui, ammise, aveva partecipato al gioco dell’attribuzione delle stanze, né disponeva di informazioni più precise che avrebbero potuto confermarlo ai loro occhi nel ruolo di insider e profondo conoscitore dei segreti più se­greti, ragion per cui l’osservazione o commento o forse piut­tosto lamento di Gerald venne accolta da tutti gli altri in quel crocchio con un’alzata di spalle, come pure l’ulteriore consta­tazione che la sua stanza era troppo piccola, la chiave non chiudeva e lo sciacquone non funzionava, come se, vista la situazione, si trattasse tutt’al più di dettagli piccanti, ma senza troppa importanza, l’autentica posta in gioco essendo la so­pravvivenza per ben tre giorni in quella landa infuocata, lon­tano da ogni traccia di civiltà. E anche ignorati da tutti, perché a quell’ora del primo giorno sembrava proprio che in giro per Ostia non ci fosse quasi nessuno, e magari nessuno sarebbe venuto neanche la sera, non lo si poteva ancora escludere, non si poteva escludere insomma il flop o cocente insuccesso di tutta l’avventura, alla quale forse non era stata data abbastanza pubblicità e visibilità sui giornali, fatta eccezione per Lotta con­tinua che aveva e avrebbe pubblicato un supplemento giorna­liero tutto dedicato al Festival, con dichiarazioni dei promoto­ri e interviste a Ginsberg, Ferlinghetti eccetera, ma Lotta conti­nua non la leggevano in molti (in realtà era praticamente illeg­gibile per chiunque), era semmai sui potenti mezzi propagan­distici del Comune che bisognava puntare per assicurarsi un afflusso di pubblico, e sotto questo profilo tutto sembrava ancora racchiuso e sintetizzato in un enorme punto interroga­tivo. Dall’alto della sua lunga esperienza Erich disse che non gli sembrava il caso di drammatizzare o di preoccuparsi, suc­cedeva sempre così, sembrava che la cosa non interessasse nessuno, e poi alla fine la gente veniva comunque, accorreva dai luoghi più disparati e improbabili, soprattutto se si sparge­va la voce e dunque si convincevano del fatto che si sarebbero trovati nel bel mezzo di un Evento, e in effetti, m’intromisi io prendendo il coraggio a due mani – ancora non ero stato pre­sentato agli altri due –, l’evento ci sarebbe forse stato, o me­glio l’avvento, visto che tutti si aspettavano il passaggio me­teorico di Patti Smith che avrebbe cantato gratis per i suoi amici poeti americani e per il pubblico, a questo, almeno, una certa risonanza era stata data, anche se la cosa non era stata confermata ufficialmente, e insomma nessuno sapeva ancora se sarebbe venuta davvero o se non fosse invece una bufala messa in giro scientemente e con abilità dagli organizzatori, o dal suo agente italiano, o magari da quel burlone matricolato di un assessore alla cultura, per creare suspense e un brivido a buon mercato, brivido non di freddo ma di piacere, s’intende, e a un certo punto dell’ultima serata magari le note di Because the Night avrebbero davvero riscaldato e ipnotizzato l’uditorio, non lo si poteva escludere, ma certo sarebbe stato difficile mantenere la sorpresa con tutte le amplificazioni e gli impianti di cui la sua band avrebbe avuto bisogno, non sono certo cose che s’improvvisano, e per il momento almeno non si vedeva traccia di preparativi, disse Gustavo, tranne per la presenza in spiaggia delle casse acustiche che sarebbero servite per ampli­ficare la flebile voce dei poeti ma che sembravano inadatte a un concerto rock.

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