Giuliano Compagno
Un racconto ritrovato dopo 23 anni

Innocua la memoria

«Gli indiani credono che dopo alcuni anni i morti ci lascino per intraprendere la loro strada definitiva. È un pensiero per una metà felice, per l’altra affliggente. Almeno ricordassi, di quaggiù, futili episodi che ci prendevano attenzione»

Scendendo dal sagrato della solita chiesa dove speriamo di incontrarci a intervalli regolari, ho posato lo sguardo sui polsini della camicia e mi sono reso conto di non indossare un capo adatto alla tua commemorazione. Non ho provato imbarazzo. Il disegno era a righe larghe bianche e rosse e mi ha fatto pensare alla nostra maglia e alla nostra squadra, che si chiamava Nike. Quel nome te lo avevamo suggerito Antonio e io perché avevamo appena iniziato il ginnasio e ci era stato spiegato che Nike, in greco, significava Vittoria.

Avevo desiderato crescere alla svelta per appartenere a una squadra di calcio in cui pure tu giocassi. Ogni sabato incontravamo un’altra formazione di dilettanti ma noi eravamo la Nike, vincevamo quasi sempre… Spesso segnava il nostro centravanti, Michele Belardinelli, bravissimo, il più delle volte su passaggio di Ugo Rhò, che portava baffi e occhialetti anni Cinquanta e si stava dannando per passare Fisica 1 a Ingegneria. Io non ero granché come difensore. Tu mi coprivi sulle palle alte e se il mio avversario diretto era troppo sgusciante, eppure nessuno contestava la mia presenza perché tu eri il nostro capitano e giocavi come Armando Picchi, il libero della grande Inter che era morto di tumore a 36 anni. Eri una sicurezza, al contrario di me che ero svagato, talmente svagato che mi prendeste in giro una settimana di fila perché avevo segnato con un tiraccio da venti metri e non me n’ero nemmeno accorto. Semplicemente ero rientrato di gran corsa nella mia zona difensiva, poco avanti alla tua.

Chissà perché lo spazio di una chiesa mi riporta sempre a un campo sterrato di calcio e al freddo di certi miseri spogliatoi che, per anni, avremmo frequentato e, appena cambiati, raccoglievamo tremila lire l’uno per il parroco del Cristo Re, mettevamo in un borsone gli orologi, le catenine e i portafogli, e affidavamo tutto ad Antonello, che faceva la cronaca della partita con un registratore.

C’è tutto il peso di una speranza che è necessaria, oggi, nel pensare a cose spensierate. D’altronde questa chiesa ci rimanda sempre indietro: i suoi affreschi ingenui, un decoro di quartiere che poco a poco invecchia, il passaggio di persone rimaste semplici.

Non abbiamo tue notizie da dieci anni. A parte il tuo riposo pacifico, poiché non immaginiamo altro, di giusto. A parte la memoria, che tu sapevi usare con gentile astuzia e che da tempo ti è inutile, tanta è l’eternità dalle tue parti. Gli indiani – così mi aveva detto un’amica – credono che dopo alcuni anni i morti ci lascino per intraprendere la loro strada definitiva. È un pensiero per una metà felice, per l’altra affliggente. Almeno ricordassi, di quaggiù, futili episodi che ci prendevano attenzione. Ti aiuto? Ti ricordi di un meraviglioso gol di Anastasi? Io mi ricordo di “Valpreda libero!” e che Valpreda era un tipo tristissimo. Ti ricordi che una volta mi togliesti un piatto con Asso Kappa e Donna, mentre io avevo Asso Kappa e Jek? Imparai cosa fosse un contro-bluff. Io però mi ricordo che non sei mai riuscito a insegnarmi a nuotare e che ti battevo a scacchi per un pedone. Ti ricordi il FAL e di quando ti innamorasti di una ragazza con un vestito rosso fragola? Pensa che io mi ricordo ancora del tuo viaggio a Heidelberg da cui tornasti con la barba lunga…

Siamo andati a bere un caffè. C’erano alcuni amici e ognuno ti evocava alla sua maniera, in modo da evocare quel se stesso che era stato. Avrei voluto dire che stavamo celebrando un distacco, invece ho chiesto a Carlo notizie di Tommaso, perché l’atmosfera si era caricata di un’allegria inconsueta, quasi fosse normale, per noi, salire e scendere da un altare, distinguere tra i fiori più adatti a una cappella, descrivere brevi e rare malattie.

Potevi indossare una camicia più seria! Non so chi me l’abbia detto ma io ho pensato: è per stare comodo… da Genova a Roma ce ne vuole! Sono salito in macchina e andavo verso casa ma non andavo verso casa e non ero più io a guidare e a un certo punto tu hai proposto che facessimo tutta Aurelia. Io ero d’accordo. Era il settembre del 1978 e possedevi una 127 blu targata Roma R3, dove avevi fatto installare uno strano accendino a molla che usavamo in continuazione. Quell’auto andava bene, anche se tu la guidavi con accelerazioni un po’ brusche per confermare, da improbabile spaccone, una ripresa “formidabile” per una cilindrata 900; e a strattoni abbiamo attraversato, uno a uno, i paesini della riviera. Abbiamo parlato di noi e della nostra famiglia, degli amici più cari e delle ragazze carine, e ogni tanto tu voltavi l’intero sguardo verso di me, come accade a chi guidi nel mentre dialoga di argomenti stimolanti, e avevi come al solito due occhi grandi e scuri, due occhi che davano una luce rassicurante.

D’un tratto ho smesso di osservare il tuo viso, ho inclinato la testa e ho fissato un buco nel mio cuore come dieci anni fa esatti, quando ebbi la certezza della tua morte. Un segmento di orrore mi ha segnato la fronte perché al volante non c’eri più e lo sterzo ruotava da solo e la leva del cambio era in folle. Io ti ho urlato: Smettila! Pensa a guidare o arriveremo a notte alta! Ti ho domandato se fossi stanco, poi ho preso a parlarti di una ragazza della Balduina che aveva gli occhi grigio chiaro e il naso all’insù. Ci vedevamo ogni tanto e mi piaceva molto; tu mi hai domandato se l’indomani mattina l’avrei sposata e io ti ho risposto di sì.

Superata Livorno ci è venuta fame e abbiamo parcheggiato davanti a una trattoria con un’insegna al neon con su scritto VINO E CUCINA. Abbiamo ordinato dei ravioli, mezzo litro di bianco e un’insalata mista. Poi abbiamo passeggiato fino alla stazione del paese fumando, tu un’MS, io una Milde Sorte. Ci si è avvicinato un tale per chiedere a che ora sarebbe partito il treno per Cecina. Siamo risaliti in macchina. Dall’aria ormai fresca che soffiava dal deflettore, abbiamo sentito entrambi che quella bellissima estate era conclusa.

I miei scarsi impegni universitari erano poco interessanti e non avevo voglia di parlartene. Tenevo con me un libro. L’ho trovato su una bancarella, ti ho detto, guarda com’è strano! Che avrebbe di strano? mi hai chiesto. Non vedi? È un libro al negativo: i caratteri sono bianchi e le pagine sono nere! E allora? Allora niente, si può leggere di notte! Hai insistito affinché ne scorressi qualche brano per te. Ci ho provato ma non era vero che si potesse leggere al buio, però il libro esisteva e si intitolava L’Impossibile.

Alle undici e mezza abbiamo frenato dinanzi a un passaggio a livello nei pressi di Grosseto. Un treno è sfrecciato a gran velocità. È quello per Parigi! hai detto con aria vissuta.

Io sono arrivato a casa e sono ancora convinto che quel treno non andasse a Parigi ma che si fermasse a Torino. Non so dire a che ora rientrammo a Roma quella notte; non potevo sapere, allora, che quello sarebbe stato un viaggio indimenticabile. So soltanto che oggi è un ennesimo pomeriggio di ottobre e che ancora arriva la posta intestata a tuo nome. Mi aggrappo a questa circostanza per dar torto agli indiani. Vale più un “Messaggero di Sant’Antonio” che non un vaticinio di astratta saggezza. Pensa cos’ha di assurdo la vita, Enrico: può anche non cambiare. Io non ho ancora smesso di fumare, i nostri amici hanno gli stessi nomi, la tua Francesca la incontro spesso e ci scambiamo un sorriso, soltanto dieci giorni fa Salvatore, il falegname, quello coi baffoni bianchi, parlava di te al bar…

Ah! Quella ragazza della Balduina con gli occhi grigio chiaro, invece, non l’ho più sposata. Ma il suo volto è identico a dieci anni fa. E il tuo anche, il tuo anche è lo stesso, quando ti pensiamo.

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