Simone Dell’Ariccia
La vita al tempo del Coronavirus

La casa dopo il virus

La pandemia, l'isolamento e la "reclusione" in casa hanno cambiato in modo radicale il nostro modo di vivere gli spazi interni ed esterni. Ecco perché, da domani, gli architetti dovranno imparare a progettare in modo diverso

L’architetto ha il compito di concepire un progetto interpretando il carattere sociale di un determinato luogo. Questo è il frutto maturo di un’eredità di lungo periodo, di comportamenti e fattori culturali, che sono influenzati dal clima, dalla tradizione, dalla politica, e da tutti quegli elementi che condizionano attivamente, ma non per questo coscientemente, la società. Ritengo quindi opportuno interrogarsi sul modo in cui la pandemia di COVID-19 muterà il carattere della nostra società, tenendo conto che il ritorno alla normalità, che tanto attendiamo, non sarà effettivo, in quanto la nostra mente e le sue percezioni saranno mutate assieme al nostro modo di abitare.

Per iniziare a delineare questo nuovo modo di abitare è importante comprendere come la situazione attuale stia contribuendo a modificare il carattere sociale dei luoghi in cui viviamo. Da una parte viviamo il fallimento di un sistema capitalistico, che ha svelato le sue ali di cera, dall’altra vi è la rinascita di una coscienza collettiva di generale fragilità. Questo fa sì che quel bisogno di aggregazione, parte integrante dell’essere sociale, venga sovrastato dalla volontà di sopravvivenza individuale. L’aggregazione e l’incontro, temi centrali della progettazione, dovranno quindi confrontarsi con questo nuovo sentimento, senza tradire il loro scopo. La progettazione dovrà trovare soluzioni nuove che permettano al cittadino di continuare a utilizzare i luoghi predisposti all’incontro, tenendo conto del suo rinnovato sentimento e accompagnandolo verso lo scambio con l’altro. Ciò che ci si chiede, a questo punto, è se sarà anche opportuno progettare questi luoghi, pensando ai momenti in cui il loro utilizzo richiedesse una maggiore distanza sociale.

La risposta degli stati nazionali, per la gestione della pandemia da Coronavirus, è stata la messa in quarantena dell’intera popolazione. Questo fattore sarà responsabile di una profonda cicatrice su ciò che abbiamo definito carattere sociale. La segregazione che stiamo vivendo, ad esempio, sta trasformando la nostra concezione di ciò che definiamo casa. Anche se non per tutti, il perimetro abitativo è diventato l’unico spazio sicuro. Il sentimento di “sentirsi a casa” in questo momento diventa fattualmente pratico. Per queste ragioni la libera interazione tra gli individui, anche attraverso strumenti tecnologici, è tale solo quando ci troviamo fisicamente all’interno delle nostre abitazioni. Il modo di vivere lo spazio abitativo ha perciò subìto una mutazione necessaria. In molti luoghi, l’abitazione è uno spazio pensato prevalentemente per farvi ritorno alla fine della giornata, quindi un’architettura che ruota attorno alla zona notte. In questo momento di segregazione, una dimora progettata in tal modo non è sufficiente per il nostro benessere. Questo ha bisogno di spazi in cui poter vivere e fare, come uno studio, un terrazzo, la cucina, spazi che possono fornirci benessere senza la necessità di cercarlo altrove. Inoltre, la segregazione che stiamo vivendo, ci sta accompagnando verso la riscoperta di quei luoghi della collettività, come i cortili, la terrazza condominiale, gli androni, che di rado sono stati pensati per la quotidianità. La progettazione dovrà quindi confrontarsi con questi spazi, fornendogli maggiore vivibilità.

Un altro cambiamento si avrà nel ruolo e nell’idea di città. Le grandi metropoli, ricche di opportunità, che da tempo hanno smarrito il legame col cittadino, sono diventate luogo del contagio. Se tra il XIX e il XX secolo con il processo dell’urbanesimo l’uomo migrava all’interno delle città, oggi la realtà sta cambiando. Con l’evoluzione tecnologica dei trasporti e con la crescente possibilità di smart working (che sta vivendo in questi giorni un rapido sviluppo), le persone non dovranno necessariamente vivere all’interno delle metropoli, che stanno diventando sempre più costose e affollate. Affollamento che verrà percepito, almeno nell’immediato futuro, in maniera differente sia a livello architettonico che urbanistico.

Naturalmente ad accompagnare questi fattori puramente sociali l’architettura si dovrà confrontare con un’inevitabile crisi economica e quindi con l’impoverimento dei budget progettuali. A questo proposito, dovremo forse trarre insegnamento da quelle architetture che già si sono confrontate con differenti crisi economiche, e che sono state in grado di produrre risultati interessanti.

Superata questa emergenza sanitaria, la società avrà il compito di ristabilire il benessere, e anche l’architettura dovrà cercare di perseguire quest’obiettivo, che è lo scopo di ogni buon progetto. Il benessere deve continuare a essere il fulcro della progettazione, ricordando che questa non deve mai essere né solo pratica né solo estetica, e che queste componenti non dovrebbero mai competere, bensì giustificarsi a vicenda, collaborando, per migliorare la vita dell’uomo.

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Accanto al titolo, “La città futurista” di Antonio Sant’Elia

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