Roberto Cavallini
Visite guidate

Poesia del cemento

Nelle immagini metropolitane di Gabriele Basilico c'è una predilezione per il vuoto e l'immobilità che, inevitabilmente, richiama ai nostri occhi i paesaggi assurdi e sospesi delle nostre città in quarantena

Le città deserte, le città d’arte viste come mai si erano potute vedere, ma soprattutto le nostre strade vuote, le strade di ogni giorno, di quartieri qualsiasi, di serrande abbassate, sono le immagini della quarantena che si parano davanti al nostro sguardo ossessivamente, sia se camminiamo per fare la spesa o guardiamo fuori affacciati alla finestra, sia quando per consolarci dalla solitudine ci rivolgiamo allo schermo dello smartphone, alla moltiplicazione delle strade vuote sui social, ai visi deformati dalla fotocamera frontale nelle videochiamate, alle notizie delle morti.

Quel po’ di vita collettiva, (ma sarà stato veramente così?) rappresentata dalle esibizioni canore dai balconi in cui, per una sorta di confusione cromatica, si era associata la speranza di volare nel Blu dipinto di blu ad Azzurro, che è una storia dove il treno dei desideri all’incontrario va, si è dissolta.

È rimasta, sui balconi, qualche annoiata bandiera e strade vuote, ma che vuote non sono.

La sospensione, tra l’apparenza dell’assenza e i segni che indicano una presenza, si rivela attraverso e soprattutto a causa della fissità coatta: non ci si può muovere, se non per pochi metri intorno a casa, non c’è itinerario, non c’è una meta fisica da raggiungere, non c’è storia, non c’è film, c’è l’immagine fissa dello sguardo, come l’occhio del fotografo che si posa  su strade consuete, rivelandone particolari fino ad allora rimasti nascosti o visioni d’insieme da prospettive prima impossibili, si pensi per questo anche alle panoramiche dalle terrazze condominiali.

Per orientarsi, per cercare una chiave di lettura e cercare un confronto e forse un po’ di conforto per l’animo in subbuglio per queste novità della consuetudine, per questa straordinarietà dell’ordinario, per questa apparenza dell’assenza, bisognerà attendere la riapertura della mostra Metropoli, 250 fotografie di Gabriele Basilico (Milano. 1944 – 2013), curata da Giovanna Calvenzi e Filippo Maggia al Palazzo delle Esposizioni di Roma. L’iniziativa è programmata fino al 2 giugno e forse si farà a tempo a visitarla. Altrimenti ci si potrà consolare col catalogo, ma sarà una magra consolazione perché l’immersione visiva, che consentono le gigantografie, non può essere restituita in nessun altro modo.

Ogni fotografia di Gabriele Basilico, non è una immagine a sé, ogni fotografia di Gabriele Basilico è il brano di una lunga storia, la storia della sua ricerca ossessiva sulla città. Ricerca che è stata definita, sembra da lui stesso un anno prima della sua morte, come frutto della sua passione bulimica per il cemento, ma ad osservare l’intero corpus delle fotografie della mostra, sembra che la passione bulimica sia riferibile ad una ricerca di significato attraverso l’esclusione dall’inquadratura della presenza umana. Una ricerca di significato che concentra l’osservazione principalmente sulla stratificazione dei segni del paesaggio urbano.

Basilico appartiene alla generazione fotografica di Luigi Ghirri, di Mimmo Jodice, di Guido Guidi e di coloro che hanno dato vita al progetto Viaggio in Italia (1984), col contributo letterario di Gianni Celati. Loro tutti erano mossi dall’intenzione di ricomporre l’immagine di un luogo, sia dal punto di vista antropologico che geografico, trasformando «il viaggio in ricerca e possibilità di attivare una conoscenza che sia avventura del pensiero e dello sguardo». Già da quel viaggio in Italia Basilico si discosta dai suoi colleghi, scartando l’uso del colore, del piccolo formato, i richiami alla pop art, l’esaltazione del banale, l’escamotage del mosso, ma si concentra sul bianco e nero, sul grande formato, contribuendo con immagini di una Milano spettrale.

Qualcuno ha scritto che Basilico ricerchi in ogni città la sua Milano, forse è vero.

Poco sopra ho affermato che ogni fotografia di Basilico è il brano di una lunga storia, ma al tempo stesso si può affermare che ogni sua singola fotografia sia un lungo racconto. Non è un gioco di parole perché se è vero che il susseguirsi di singole immagini delle metropoli, finiscono per comporre il grande mosaico della “metropoli”, è altrettanto vero che per il modus operandi di Basilico, l’uso di una fotocamera a banco ottico, che deve essere necessariamente posizionata su un treppiede, l’uso di pellicole a lastra delle dimensioni di 10 x 12 centimetri che garantiscono un dettaglio microscopico, l’uso di tempi lunghi di esposizione per garantirsi il massimo di profondità di campo, consentono la realizzazione  di ingrandimenti dove far scivolare lo sguardo dell’osservatore, lungo itinerari arbitrari e puramente soggettivi. Capire l’immagine nel suo complesso, con i suoi punti di fuga, centrali o laterali (non dimentichiamo che Basilico è un architetto) non è difficile, si entra facilmente in quello spazio, ma è quando ci si trova lì in mezzo che si comincia ad essere spaesati e osservando quei luoghi dell’assenza  si comincia a domandare a noi stessi, osservatori, quali vite si consumino dietro le tendine di una finestra dell’ennesimo piano di un grattacielo in terza fila o se ci sia una famiglia a cena nell’appartamento con la finestra illuminata di un palazzo in una periferia qualsiasi e ci si domanderà dove sono andate le automobili che hanno percorso le strade in fondo ai canyon urbani. Perché il banco ottico permette di restituire immagini così ricche di dettagli che neanche il fotografo ha potuto notare al momento della ripresa dove tra l’altro l’immagine, sul vetro smerigliato, gli appare capovolta rispetto alla realtà.

«There’s more to the picture than meets the eye», cantava Neil Young e da qualche anno il neon con quella frase illumina una parete grigia del MAXXI di Roma.

Il percorso espositivo della rassegna si articola in cinque grandi capitoli: Milano. Ritratti di fabbriche 1978-1980, il primo importante progetto realizzato da  Basilico; le Sezioni del paesaggio italiano, un’indagine sul nostro Paese suddiviso in sei itinerari realizzata nel 1996 in collaborazione con Stefano Boeri e presentata alla Biennale Architettura di Venezia; Beirut, due campagne fotografiche per la prima volta esposte insieme, realizzate nel 1991 in bianco e nero e nel 2011 a colori, la prima alla fine di una lunga guerra durata oltre quindici anni, la seconda per raccontarne la ricostruzione; Le città del mondo, un viaggio nel tempo e nei luoghi da Palermo, Bari, Napoli, Genova e Milano sino a Istanbul, Gerusalemme, Shanghai, Mosca, New York, Rio de Janeiro e molte altre ancora; infine Roma, la città nella quale Basilico ha lavorato a più riprese, sviluppando progetti sempre diversi fino al 2010, in occasione di una stimolante quanto impegnativa messa a confronto tra la città contemporanea e le settecentesche incisioni di Giovambattista Piranesi.

Se è vero che Basilico ricerchi in tutte le città Milano, se è vero che nelle 250 stampe c’è quell’elemento comune che si sussume nel titolo Metropoli, è pur vero che Roma si differenzia prepotentemente dalla “Milano in ogni città”, perché la sua storia è insopprimibile e lo è altrettanto iconograficamente, non solo nelle fotografie in cui Basilico si misura con le visioni del Piranesi, ma anche quando egli affronta il massiccio e geometrico razionalismo architettonico.

Più che una immagine specifica, in questa mostra, c’è un pannello, anzi più d’uno – sono i pannelli delle Sezioni del paesaggio italiano – che ci riguardano come osservatori da quarantena, dove l’autore fotografa una moltitudine di edifici solitari, di villette, di capannoni, di centri commerciali, di palazzine, di box, di officine. «Tutte costruzioni modeste, sparse nel paesaggio in modo scomposto, collegate artificialmente da segnaletiche invadenti, tutti frammenti della nostra società e della nostra economia: la famiglia, la piccola impresa, la distribuzione, il negozio, il club, il deposito. Un pulviscolo di manufatti che, specchio dello stato del nostro costume e del nostro modo di produrre, sono cresciuti nell’indifferenza della politica e dell’architettura colta, giungendo letteralmente a scompaginare l’aspetto e la natura del territorio italiano, da nord a sud e in ogni regione».

Speriamo di poter risalire le scale del Palazzo delle Esposizioni in tempo per ritrovarci davanti a quei pannelli che ci faranno riflettere, mostrandoci amaramente un altro genere di lockdown, che era qui prima del Covid-19 e che sarà qui anche oltre la pandemia.

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