Flavio Fusi
La morte dello scrittore/1

Fratello Sepulveda

Luis Sepulveda non era solo un narratore molto amato, era il testimone di una stagione drammatica e felice al tempo stesso dell'America Latina. Quella in cui l'Occidente ha (finalmente) scoperto in quel Continente un mondo fratello

Mi succede, con gli scrittori che amo, come con i calciatori. Sono bambino, poi ragazzo, e i campioni che sogno di emulare sono miei fratelli maggiori. Gente come Sivori e Altafini, tanto per dire. Passano gli anni, passano i campionati, e scopro con sorpresa che quelli in maglietta e pantaloncini che corrono sul prato verde sono diventati all’improvviso miei coetanei.

Così – con rispetto parlando – se Bellow e Roth, Gabo Marquez e Vargas Llosa sono miei fratelli maggiori, Luis Sepùlveda è mio coetaneo. Di più: lui è mio fratello gemello, un gemello diverso, nato per caso nel continente australe, in una città al fin del mundo.

Si fa presto a dire “caso”. Il caso muove il pianeta e determina la vita di tutti noi. Per dire: io e Luis, poco più che ventenni, abbiamo vissuto la stessa straordinaria e dolorosa avventura: la caduta e la morte di Salvador Allende insieme all’avvento dei traditori, «iene voraci della nostra storia, roditori delle nostre bandiere», per dirla con le parole di un altro fratello maggiore: Pablo Neruda.

Era il 1973 – 11 settembre – e in Italia quel ragazzo che io ero, quel comunista che ero, manifestava in corteo per Allende e il suo sogno infranto. Nelle stesse ore quel ragazzo, quel comunista che era Luis Sepùlveda, metteva in gioco la sua vita per la stessa causa, nelle strade assediate di Santiago del Cile. Per geografia e per storia, lui era l’originale, io la copia. Gemelli, appunto, separati da un oceano, inconsapevoli l’uno dell’altro.

Poi le nostre strade si sono avvicinate, senza riconoscersi. Avrei potuto incontrarlo, davvero, perché molti cileni inseguiti dagli aguzzini di Pinochet scelsero l’Italia o la Spagna per trascorrere il loro lungo esilio e ricostruire una vita lontano da casa. Luis, con uno scarto a sorpresa che me lo rende più caro, scelse invece la fredda Germania. Dove diventò scrittore, in un continuo corpo a corpo con i ricordi, i sogni, le sue fedeltà e la sua rabbia.

Sono stato un lettore episodico e a volte distratto di questo mio fratello gemello. Sepùlveda era di volta in volta l’incanto dell’infanzia nelle sue storie per bambini, era l’incanto della selva e la passione per la parola scritta ne Il vecchio che leggeva romanzi d’amore. Ma di lui amavo soprattutto le atmosfere urbane e i personaggi che ci somigliavano. L’ombra di quel che eravamo parlava di lui e di noi, del Cile tradito, dell’anarchia dei nonni e del comunismo sognato dei figli, di vinti che mai furono sconfitti. E sempre con la dolcezza e a volte con l’irresistibile umorismo del vecchio orso Mapuche che era diventato nel correre degli anni. La sua prosa leggera era una vela di ironia tesa su acque profonde.

Non diremo una parola sulla malattia che se lo è portato via, e che da mesi si porta via schiere ed eserciti di sconosciuti con le loro storie di vita. Dunque: «Preparami un eufemismo, fratello». – Un che? Chiese il barista. «Un Cuba libre».

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