Arturo Belluardo
A proposito de “La Dragunera”

Dragunera appassionata

Linda Barbarino impasta una bella storia di voluttà e desiderio nel cuore della Sicilia. Ma il vero prodigio del suo romanzo d'esordio è la lingua: un dialetto ennese autentico e letterario al tempo stesso

«Rosa Sciandra avrebbe dato qualunque cosa per tornare nella casa di quand’era carusa, per vedere anche una sola delle cuticchie che uscivano dal muro, pietre attaccate col gesso, grattato come se gliel’avessero sputato i topi mentre passiavano sulle pareti tutte gobbe, che quelli, i surgi, salivano ovunque». Questo è l’attacco, selvaggio e grinzoso, de La Dragunera, romanzo d’esordio per Il Saggiatore dell’ennese Linda Barbarino, finalista al Premio Calvino 2019.

Chi è la Dragunera? Una tempesta di vento e acqua che attacca improvvisa i campi e le vigne, ma la Dragunera è anche la bellissima moglie di Biagio Rizzuto, figlio minchione e scomunicato di don Tano e fratello di Paolo, figlio devoto, gran travagliatore e amore impossibile della buttana Rosa.

La Dragunera è una che si capisce subito che è meglio starle lontano, «una strega, coi capelli rizzi e niuri come scursuna nturciuniati». Magara, fattucchiera, e figlia e nipote di fattucchiere.

E come magarìa lanciata dalla Dragunera, si srotola la lingua formidabile del romanzo: lingua pastosa, che fa ci fa sprofondare nei sensi, che ci precipita in un pozzo di odori, spesso sgradevoli, e di sapori che allappano e legano i denti come una pera non matura. I suoni sono quelli stridenti dei campi, di falci da arrotare, di ingranaggi di torchi arrugginiti. I colori, quelli fragorosi della vampa autunnale che invade animi e vagine, in un trionfo drammatico di sesso sudato e appiccicoso.

La scrittrice utilizza il siciliano ennese, una lingua largamente contadina, il dialetto di una delle tante enclave isolane la cui somma non dà un dialetto univoco e unitario: il siciliano di D’Arrigo non è quello di Bufalino, così come il siracusano è lontano anni luce dal palermitano. Per tacere di Camilleri, che il dialetto se lo inventa a memoria. Il siciliano di Linda Barbarino è gutturalizzato, aspro, i topi diventano surgi, mentre altrove sono surci o al massimo surici, usa diddu al posto di iddu. Le parole sono inconsuete, evocative come valìa o strantuliare, o cupunare o vardedda o ancora cuticchie.

E il taglio delle scene è immediato, repentino, un gioco da kammerspiele, da teatro dei pupi, da sala cinematografica parrocchiale alla fine degli anni ’60 con fumo azzurrino di sigarette e mani infilate malandrine sotto le gonne. E l’universo del cinematografo la Barbarino ce l’ha ben presente, quando fa replicare alla buttana Rosa Sciandra lo spogliarello della buttana Loren davanti a un uggiolante Mastroianni in Ieri, oggi e domani di De Sica.

La storia? Storia di rivalità tra fratelli, storia d’amore, di passioni cruente, di stretta derivazione verghiana, l’odore di Lupa aleggia potente tra le pagine della Barbarino. Passione travolgente quella della buttana Rosa Sciandra per Paolo Rizzuto. «C’aveva provato a lasciarlo, a pensare che non era cosa, però appena quello le friscava, sentiva come se l’afferravano da sotto e la tiravano, fino alla bocca dell’anima; una quadarata in testa e aveva solo il tempo di farsi il segno della croce prima di infilarselo nel letto».

«E lei lo sentiva, lo sapeva ogni volta che tutti gli extra fuori dello sfogo di mascolo e tutte le carezze stringevano come ferro filato e lasciavano strisciate di sangue vivo vivo nella carne: “Stringi, tanto se muoio che mi interessa?”. Ed era più bello così dopo che già l’avevano fatto perché poi si taliavano nella faccia e non c’era più la prescia del mascolo che si deve sfogare. Prima di baciarla, l’accarezzava con gli occhi, i polsi ancora fermi e le mani, ma il cuore no, per dove aveva preso il cuore? Lo sentiva battere ovunque, nelle orecchie nelle minne in mezzo alle gambe, ma non lo trovava: e se il ferro filato poi si allenta? Se lui la lasciava e poi lei non moriva e restava sola come da piccola, senza la casa dove era stata da picciridda? “Paolo! Sto ferro filato è doloroso, ma tu stringi, stringi! Muoio o campo che mi interessa? Paolo, stringi!”».

Passione travolgente e repressa quella di Paolo per la cognata, da restare abbabbaloccuto quando appare nella vigna durante la vendemmia, con gli occhi verdi e grandi come due ramarri e le minne che le palpitano sotto una vecchia camicia sformata.

Storia di terra e soldi, di altari sui comodini, di bambine vendute, di fattucchiere, di ingiurie sputate tra fratelli come lame di alliccasapuni in torbidi duelli rusticani. Un olio mischiato a sterco di vacca e passato sulla tela a pennellate larghe, sovrapposte, strati di odio, odore e memoria. Memoria che si sfalda nel pettegolezzo di paese, nel desiderio di una casa che non ci appartiene più, di cui non restano che le rovine, dopo il crollo di un terrazzino.

Ma, aldilà della storia, rivisitazione di topoi letterari già solidi, e quindi forte e ambiziosa nel confronto che propone, sono i momenti di lirica bellezza che rendono appetibile questo esperimento di rinascita georgica, come quando a fine vendemmia «grosse ditate di viola coloravano il cielo» o quando Paolo dà l’addio a Rosa cantando a squarciagola e lei non esce a fermarlo «a dirgli di starsi muto, non adarmare l’opera dei pupi coi vicini, perché in quel baccano, anche lei, il dolore che aveva dentro, lo poteva sbramare più forte».

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