Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

Diario da Central Park

L'ospedale da campo dentro Central Park è una ferita al cuore dell'immaginario. Non più passeggiate, concerti, spettacoli: il luogo simbolo di New York è diventato la metafora di un'emergenza che è più solo un'immagine

I numeri del coronavirus negli States sono impressionanti: si stanno superando i 4.000 morti. Più di quelli dell’11 settembre. Una tragedia di portata epocale che sembra, come da noi in Lombardia, essersi accanita nello Stato e nella Città di New York, che conta più di 76.000 casi. Il governatore Andrew Cuomo – in un comunicato video di circa un’ora durante il quale ha annunciato anche la positività del fratello, il giornalista CNN Chris Cuomo – ha spiegato la sua strategia per combattere il virus, basandola su due principi generali: la prima linea degli ospedali che devono essere in grado di reggere alla grande domanda di posti letto e disporre di strumenti per la terapia intensiva e la necessità di rimanere a casa. A questo proposito è sceso anche sul piano personale parlando del rapporto con il fratello “my best friend” proprio per reiterare la necessita dell’isolamento che può frenare i contagi.

Il governatore ha anche sottolineato l’importanza di avere criteri nazionali che uniformino le misure restrittive e i vari istituti ospedalieri, pubblici e privati, coordinandoli tra di loro sia sul piano delle linee guida che su quello degli equipaggiamenti. E proprio riguardo alle necessità di acquisire questi ultimi, dalle mascherine ai ventilatori, si è soffermato sulla mancanza di coordinamento non solo tra stati, ma anche tra di loro e la F.E.M.A. (Federal Emergency Management Agency), l’istituto governativo che svolge l’equivalente della Protezione civile. Tutti insieme competono per l’acquisto dei macchinari, creando un caos di cui non c’è bisogno e ritardi nella loro consegna. Il governatore ha auspicato pertanto un decisionismo dai criteri più uniformi, perché il segreto ber battere questo virus, ha affermato più volte, è riuscire a prevenirlo, ad arrivare prima di lui. Ed è una gara dura che si potrà vincere solo se saranno bene organizzati e coordinati gli sforzi di tutti.

Certo, vedere un ospedale da campo montato a Central Park è una coltellata al cuore. Dà proprio il senso di un’emergenza senza precedenti. I militari in tuta mimetica, tipica delle operazioni di guerra, tra la 97esima Street Transverse e la Quinta Strada, nel cuore di Manhattan, hanno messo in piedi 14 tende con 68 posti letto che saranno dotate di 14 ventilatori. Ospiteranno i pazienti dell’ospedale Mount Sinai. È uno spettacolo surreale. Vedere quel parco, simbolo dell’America dove si conclude la famosa maratona annuale, dove si sono succeduti i concerti, tra gli altri, di Elton John, Simon & Garfunkel, Diana Ross e Andrea Bocelli, a cui John Coltrane ha dedicato un pezzo intitolato Central Park West e dove molti film famosi sono stati girati, a cominciare da Colazione da Tiffany, adesso adibito a ospedale è un dolore tremendo.  Quel parco dove ogni anno si tiene il New York Shakespeare Festival, e ogni estate ci sono spettacoli gratuiti con famosi attori del cinema e del teatro cambia la sua natura e diventa un campo di battaglia.

Confesso che assieme alle strade deserte della grande mela, tutte le immagini che arrivano da altre città degli Stati Uniti mi hanno provocato un’emozione talmente forte che all’ultima, proprio quella di Central Park, sono scoppiata in un pianto dirotto. In un bel libro del 2003 intitolato Davanti al dolore degli altri (Regarding the Pain of the Others), l’ultimo scritto poco prima di morire, Susan Sontag ci mise in guardia sull’intormentimento che le immagini, lei si riferiva principalmente a quelle di guerra, possono provocare, rendendoci apatici, indifferenti, immuni a una condivisione del dolore, immuni a quella simpateticità tra esseri umani che ci rende tali. Quella stessa a cui proprio negli stessi termini Adam Smith, famoso per la «mano invisibile del mercato» (oggi invece caratteristica del virus mortale) della sua Ricchezza delle Nazioni ci incoraggia proprio come esseri umani in un’opera erroneamente troppo trascurata la Teoria dei Sentimenti Morali.

Purtroppo, l’inondazione delle immagini, le troppe voci che intervengono, il carattere monotematico ancora troppo improntato al sensazionalismo rispetto all’informazione che presentano i media, tutti e ovunque, non incoraggiano a sviluppare sentimenti e comportamenti attivi di solidarietà, ma solo una sorta passività impotente, di onanismo della commiserazione. Io avverto l’emergenza di questo momento, oltreché come condivisione di sentire anche come bisogno di agire per recuperare comportamenti propositivi in difesa di certi valori. Si è creato qualcosa che tenta di scalzare la memoria di quello che siamo e di quella che è la nostra identità. In questo senso bisogna resistere.

Per quanto riguarda l’America che fa parte del mio sentire profondo, avverto il trauma di una cultura popolare vibrante ferita al cuore, simbolo di libertà proprio attraverso le sue mille contraddizioni che hanno creato nel mondo reazioni diverse e spazi di pensiero anche contrastanti. Si coagulano in rappresentazioni ormai radicate nell’immaginario collettivo di intere generazioni. Cosi in questi giorni mi sono scorse davanti agli occhi molte di esse: i discorsi in tv di grandi leader, le foto delle loro uccisioni, inquadrature di film, flash di grandi manifestazioni popolari, di grandi concerti, di eventi sportivi, quadri e poster di grandi artisti e di mille oggetti che sono diventati simboli di epoche differenti. È come se annegassero tutte dentro a un’emergenza che fa della sofferenza una livella: quest’ultima diviene l’unica protagonista. Una notte penosa in cui tutte le vacche sono nere. E la stretta al cuore è forte.

È vero, questa emergenza ci costringerà a mettere ordine nelle nostre priorità e spero allo stesso tempo a recuperare quel senso di umanità che spesso proprio un proliferare diarroico e continuo delle immagini contribuisce ad attutire.

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