Flavio Fusi
Visite guidate

L’angelo di Deineka

Nella quiete assurda del “campione abbattuto" di Alexander Deineka c'è la sospensione della vita che si fa storia. Il ragazzo che cade dal cielo è un angelo disarmato, impotente a redimere l’umanità, ma capace di indicare un orizzonte futuro

“A Mosca, a Mosca!”, sognavano le tre sorelle di Cechov. A Mosca, a Mosca! Trascorsa la prigionia nella mia ridotta occidentale, il treno dei desideri sbuffa sul binario che porta al lontano Est. Il viaggio non sarà per quando fioriscono i ciliegi, ma certo sarà per quando cade la neve sulla metropoli addormentata, quando le cupole dorate splendono di ghiaccio e la Moscova crepita sotto i ponti di ferro.

È questo il mio prossimo itinerario, simile a tanti altri che ormai si perdono nella memoria. E dunque immagino: dal piccolo Hotel Savoy, proprio dietro il palazzone funereo della Lubianka, mi dirigo – imbacuccato come un mugìk – verso la spianata che conduce alla Piazza Rossa.  Proprio davanti alle mura mi attende il caldo abbraccio della metropolitana e uno sferragliante trasferimento dalla stazione di Ploshad Revolutsii alla splendida fermata Tretiakov’skaya, di fronte alla Galleria Tretyakov.

Qui è il luogo del mio appuntamento, il faccia a faccia con l’opera misteriosa e fatale che ho scelto per risalire alla luce dopo il lungo letargo della quarantena. E bisogna avvicinarsi in silenzio – con il vecchio pavimento di legno che scricchiola appena sotto i passi – a questo grande quadro: The Downed Ace, “Il campione abbattuto”, che Alexander Deineka dipinse nel 1943 nel pieno della grande guerra patriottica contro il nazismo.

Sullo sfondo di rovine e quartieri ridotti in cenere, contro un cielo dove si avvita in fiamme e fumo il velivolo colpito, un giovane pilota tedesco sta per schiantarsi a terra. È l’attimo prima della morte, eppure nell’espressione del biondo protagonista non c’è il terrore, ma il segno di una pace profonda. Sullo sfondo di una tragedia epocale il pittore ritrae un ragazzo che dorme e che forse sogna, e il Dio della guerra si trasforma nell’angelo della storia: un angelo disarmato, impotente a redimere l’umanità, ma capace di indicare un orizzonte futuro.  Non c’è qui la fine della storia, come in ogni narrazione religiosa, ma il segno fortissimo di una forza vitale che non si arrende alla ferocia del secolo.

L’opera – dicono le cronache – non piacque al ministero che l’aveva commissionata e fu giudicata «impropria dal punto di vista ideologico e professionale». Il quadro doveva essere distrutto, come tutto quello che non era gradito ai dignitari di Stalin, ma l’autore riuscì a salvarlo facendolo acquistare per un rublo da un acquirente di comodo.  Anche per questo il Campione mi è più caro: è un sopravvissuto, come in fondo tutti noi.

Ed è un sogno anche la mia futura visita moscovita a questa opera di Deineka: se non altro, perché il quadro è custodito a San Pietroburgo, e solo un caso fortunato – forse una retrospettiva – mi concesse tanti anni fa di ammirarlo nelle sale della galleria Tretyakov. Ma ogni storia personale – e qui si parla di storia – è fatta di intrecci, di labirinti, di illusioni, di porte che non conducono a nulla, di falsi che a volte  si rivelano  più autentici della realtà certificata. E dunque per me The downed Ace resta l’incancellabile capitolo di un intimo e personalissimo diario di Mosca.

Scelgo allora Mosca come mia prossima “stazione” una volta libero dai lacci della quarantena, proprio perché la capitale russa è una città piena di storia. E il mio gesto vale come una piccola, personale protesta contro il mostro invisibile che si è impadronito della nostra vita biologica, privata e sociale.

Perché il virus, la pandemia, la peste, il contagio – o come vogliamo definirlo – è un erpice che scava in profondità e una rete a strascico che cancella la storia della terra e del mare. Un bacillo negazionista che distrugge ogni diversità e la storia di ogni diversità.  Vedete una differenza tra l’ospedale da campo attrezzato nei prati di Central Park e le corsie di un lazzeretto messo su in fretta e furia in qualche cenciosa metropoli africana? La stessa sofferenza, la stessa paura, a volte la stessa morte. E dunque, immaginare la fine della storia è in fondo concepire gli effetti di una pandemia senza fine.

Anche noi, reclusi nel nostro privilegio, siamo imprigionati da oltre un mese in una bolla senza tempo e senza storia. Leggere i giornali, guardare la televisione, navigare in rete: tutto è diventato ripetizione, analisi di una stessa vicenda che ci contiene tutti, vuota di storia e dunque carica in modo insopportabile di retorica. Un vecchio amico, assistito nell’ospedale della mia piccola città, ha la stessa identità del premier inglese Boris Johnson, ricoverato a Londra in terapia intensiva. L’uomo è scarnificato, ridotto alla sua identità biologica. Come raccontare l’infinito uniforme, il ripetersi del sempre uguale?  Se non fosse tragico, sarebbe – ed è – una noia mortale, per noi partigiani della storia.

Dunque: a Mosca, a Mosca! dove ogni via, ogni piazza, ogni chiesa mi parlano di una storia in tumulto: il passaggio dalla palude del socialismo realizzato al wrestling senza regole del capitalismo trionfante. La parete di cemento del Kalzò, dove nella notte del 20 agosto si schiantò un tank della divisione golpista Tamanskaya, la piazza della Lubianka dove fu strappata dal suo basamento l’enorme statua metallica di Feliks Dzerzhinsky, lo spiazzo davanti alla Casa Bianca dove Boris Ieltsin salì sul carro armato per leggere l’atto di resistenza della città, la piazza del Maneggio, dove una folla enorme salutò l’alba di una nuova stagione.

È vero, sono trascorsi trenta anni e la storia si è impantanata nell’eterno presente putiniano. Le vie del centro, dentro l’anello dei giardini, sono piene di ristoranti giapponesi, nel traffico infernale scorrazzano le grandi vetture degli oligarchi, una notte all’Hotel Kempiski piò costare fino a duemila dollari. Mosca è irriconoscibile, mi dicono.

Dunque non troverò la mia vecchia, turbolenta, straordinaria città. Ma la storia procede per vie misteriose e nascoste. Mi basterà percorrere a piedi la lunga, ariosa via Tverskaya, poi voltare a sinistra lungo via Sadovaja e sarò finalmente nella quiete nevosa degli Stagni dei patriarchi. Siederò su una panchina solitaria e mi verranno a trovare gli angeli di una storia visionaria eppure profondamente vera: «nell’ora di un caldo tramonto primaverile apparvero presso gli stagni Patriarsie due cittadini…».

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