Rosa Tommasi
La quarantena a Parigi

L’alba a Notre-Dame

In Francia, prima delle 10 e dopo le 19, è consentito passeggiare rispettando il “distanziamento sociale”. Così, da una prospettiva inedita, è possibile entrare nei segreti di una città che alimenta continuamente il suo mito

Sin dalla prima volta che ho visitato questa città, nel lontano 2004, ne sono rimasta rapita; da allora ho sempre desiderato trascorrere un periodo di vita a Parigi, e a settembre si è presentata l’occasione di dare forma a questo sogno. «Assistente d’italiano presso il liceo “La Bruyère” di Versailles»: così recitava un’email che avevo ricevuto qualche mese prima. Carica di promesse e di incognite, sono approdata sulla rive gauche della Senna e mi sono trasferita in un piccolo appartamento nel V arrondissement, a pochi passi da quella cattedrale di Notre-Dame che ancora porta su di sé le ferite dell’incendio di un anno fa.

In effetti, gli imprevisti non hanno tardato a presentarsi sugli ampi boulevards della Ville Lumière: a dicembre il lungo e interminabile sciopero che ha bloccato tutti i mezzi pubblici, e tre mesi dopo, quando la grève si andava esaurendo e un ritorno alla normalità sembrava finalmente possibile, ecco una complicazione molto più lunga e tormentata dello sciopero, qualcosa che qui nessuno voleva vedere inizialmente, ma della cui gravità siamo stati costretti a prendere atto giorno dopo giorno. Il diciassette marzo, armata di pazienza e rassegnazione, mi sono preparata ad affrontare il confinement imposto in Francia da quello che abbiamo imparato a conoscere come il virus Covid-19. Si tratta di una quarantena singolare, parzialmente diversa rispetto a quella di altri Paesi europei, perché qui esiste una sorta di “coprifuoco”: dalle 10:00 alle 19:00 si può uscire esclusivamente per comprare beni di prima necessità, tuttavia sia prima che dopo questo orario è possibile uscire per fare una passeggiata di un’ora al massimo, purché si resti nel raggio di un chilometro dalla propria abitazione.

A quel punto, ho scoperto di dover parafrasare in una versione più prosaica ma sicuramente più attuale un verso del caro Giorgio Caproni: «Chi va a Parigi, va a casa» per me stava inopinatamente diventando «Chi va a Parigi, sta a casa». Inizialmente ho accettato di buon grado di rimanere nelle mie stanze, un po’ per pigrizia e un po’ per paura, al riparo dai rischi che si possono incontrare all’esterno. Le giornate si sono quindi trasformate in settimane di interminabile attesa.

Una sera però, dopo aver guardato con indolenza l’ennesimo passante attraverso la finestra, mi sono fatta coraggio e ho deciso che – nel rispetto delle regole vigenti – l’indomani sarei andata a vedere l’alba a Notre-Dame. L’ho fatto, e quella che doveva essere l’eccezione di un giorno, si è poi trasformata in abitudine, un rito quasi necessario per continuare sentirmi parte integrante di questa bellezza perduta o dimenticata, per creare un senso di continuità tra il prima e il dopo, per non rassegnarmi passivamente a quest’inusitata interruzione. Da quel giorno, due volte a settimana mi sveglio alle 6.00 in punto, esco di casa che è ancora buio e divento una sorta di flâneuse solitaria per le vie dell’Île de la Cité e dell’Île de Saint-Louis, senza nessuna brulicante folla metropolitana da osservare, ma soltanto con un paesaggio intatto da assaporare con lo sguardo.

Sin dalla prima uscita mi sono resa subito conto che la quarantena non aveva spento il mio amore per questa città ma lo aveva trasformato in un modo particolare, rivitalizzandolo: si trattava solo di trovare nuove vie per consentirgli di esprimersi. Ogni volta mi soffermo a guardare quei luoghi – solitamente meta ambita del turismo di massa – come per la prima volta, e in effetti, in un certo senso, è come se li scoprissi per la prima volta. Mi meraviglio nell’osservare le torri di Notre-Dame, che ho visto migliaia di volte, ma che adesso, in questa quiete assoluta, assumono un’altra configurazione, appaiono sotto un nuovo aspetto: quelle pietre che sono lì da sempre a comporre una «vasta sinfonia» – come la definì Victor Hugo – quasi ti rassicurano, perché sprigionano quella sensazione di eternità che è così in contrasto con la labilità degli eventi presenti. A poco a poco mi lascio trasportare da tutte le sfumature dell’alba, dallo sciabordio regolare delle acque della Senna, al canto degli uccelli sugli alberi in fiore, fino al volto della luna che inizia a farsi sempre più evanescente – e all’improvviso ho l’impressione di abitare in un quadro di Monet.

Un aspetto caratterizzante, forse il fil rouge, di queste passeggiate mattutine lungo il fiume è il silenzio. Si tratta di una quiete che mi permette di sentirmi in perfetta sintonia con il paesaggio naturale e urbano che mi circonda: è una sensazione meravigliosa e del tutto inedita, perché in condizioni di normalità la parola silenzio non fa parte del vocabolario di una capitale europea. La quarantena mi ha permesso di riscoprire e incontrare aspetti della città che ignoravo o che avevo dimenticato; del resto, come scrive Balzac, «Parigi è un vero e proprio oceano. Gettatevi la sonda, non ne conoscerete mai la profondità». La scorsa settimana, in una delle mie consuete promenades mattutine, rigorosamente scortata da germani e cigni che si stanno progressivamente rimpadronendo dell’Île de la Cité, sul pacifico quai aux Fleurs mi sono imbattuta in un palazzo di stile haussmanniano sorto su quello che nel 1118 – molto tempo prima dell’opera di sventramento voluta da Napoleone III – aveva visto nascere l’amore tra Eloisa e Abelardo. Proprio ieri, invece, recandomi in place des Vosges, ho guardato dall’esterno la casa di Victor Hugo e ho scoperto che, poco distante da questa dimora borghese, precisamente al numero 11, esiste una colonna che contiene la firma del romanziere francese Restif de la Bretonne, che nel diciottesimo secolo amava incidere il suo nome sui muri di tutta Parigi.

Spesso mi sono interrogata sul motivo che mi spinge a intraprendere queste passeggiate all’alba e mi sono accorta che sono diventate per me davvero vitali. La sensazione che trasmettono è quella di una rinascita, non solo dello spirito ma anche del corpo; per me si tratta davvero di un risveglio che mi permette, nonostante l’isolamento, di sentirmi ancora parte della città, delle sue strade, dei suoi colori, di sentirmi davvero parigina: dopotutto «essere parigino non vuol dire esserci nato, ma esserci rinato» (Sacha Guitry). Per un’ora ho la possibilità di respirare un’aria nuova, più leggera e meno inquinata, dentro un’atmosfera che è in grado di infondere un ottimismo insperato nell’anima. Come diceva sempre Hugo «respirare Parigi conserva l’anima», e in fondo è proprio di questo che abbiamo bisogno, ora più che mai. Il bisogno di sentirci vivi, la necessità di lasciarsi sorprendere, anche solo per un istante, da una città che è un po’ come una bella addormentata in attesa di un principe che potrà risvegliarla.

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Le foto sono di Rosa Tommasi

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