Giuliano Compagno
Domani un ricordo a 110 anni dalla morte

Un Flaiano a Roma

Encomio di Ennio Flaiano, intellettuale mittel-abruzzese che aveva colto il segreto di Roma e guardava tutto e tutti, non già dall’alto in basso (era troppo acuto per le vanterie), ma da est a ovest, in placida attesa. Aspettando la vita

È stata, la sua, una vita piena di riconoscimenti con un grande fallimento in mezzo, a cinquant’anni appena compiuti. Ennio Flaiano non aveva concepito Un Marziano a Roma in forma di drammaturgia, bensì di racconto dall’ironia un po’ amara finito a pernacchie, come accadeva nelle commedie italiane. Geniale quanto il suo autore, vi si fantasticava di un marziano che, all’alba degli anni Sessanta, fosse atterrato nei pressi di Villa Borghese stimolando la curiosità e l’affetto della gente capitolina. Al principio Kunt aveva goduto di infinite attenzioni, era stato ricevuto da chiunque contasse e amato più di Pedro Manfredini. Ma un brutto giorno – che a Roma arriva sempre – l’indifferenza avrebbe preso il sopravvento, e con essa un sentimento menefreghista, disincantato, spernacchiante appunto… Quel marziano aveva fatto il suo tempo.

Del profondo significato di quella circostanza non volle tener conto Vittorio Gassman, che negli anni Sessanta era il teatrante più pagato e acclamato d’Italia, tanto da ritenere che ogni azzardo gli sarebbe stato concesso. Non a Milano, dove montava il fastidio nei riguardi di una società molle e sfaccendata e di una Capitale che, piuttosto che lavorare e dormire, vegliacchiava tra caffè, spogliarelli e paparazzi. E benché Federico Fellini, grazie ai suoi due film più celebri, avrebbe celebrato il declino di quella Roma là, lo strappo vero ebbe luogo al “Lirico” di Milano dove, il 23 novembre del 1960, un pubblico inferocito respingerà la sfida di un Mattatore, che il successo, stavolta, aveva mal consigliato.

Quell’episodio non fu un fatterello ma il segno di una cesura culturale che, di lì in poi, avrebbe marcato una difficile relazione tra città inassimilabili e tra persone, al massimo, turiste tra loro. Milano e Roma si divisero allora e, con ciò, gli italiani che più o meno in quell’epoca terminavano il loro compito comune e solidale di ricostruire una nazione già barcollante e poi disfatta dal fascismo, dal badoglismo e dal saloismo. Da tutto e da tutti. E dire che Ennio Flaiano, a Roma, ci era arrivato proprio nell’ottobre del 1922, dodicenne che era, con il candore della sorpresa a coglierlo mentre seguiva con lo sguardo l’andare e venire dei gerarchetti e dei popolani.

«Confesso che ero così inebriato dalla libertà raggiunta, che mi era sufficiente, come al carcerato libero, l’aria fuori della galera per sentirmi me stesso e libero; e non mi ponevo altri problemi. Come me molti altri della mia generazione hanno sentito questo fiato dolcissimo. Bisogna tener conto che parlo di uomini che, all’epoca della Liberazione, avevano più di trent’anni, non venticinque, non venti; cioè avevano passato tutto l’arco della giovinezza nella mortificazione più assoluta, senza poter scrivere. Non ci era possibile perché non c’erano i mezzi di comunicazione di massa, non c’erano i giornali, le riviste. Non c’era, tutto sommato, neppure il cinema, per non parlare del teatro. Per esprimersi c’era un solo modo: vivere».

L’approccio di Flaiano a questo mondo nuovo fu insieme coraggioso e umile. L’apparenza ci consegna un uomo un po’ schivo, che tende a smarcarsi dai meccanismi sociali più soffocanti e, nonostante questo, partecipa ogni tanto a quei minimi riti senza mito che Roma celebra quasi ogni sera. Era quel che avveniva: incontrarsi casualmente da Canova, da Rosati, al Caffè Greco, al Café de Paris… e mettersi vagamente in gioco tra maldicenze, benedizioni e astruserie sperimentali che per nulla toccavano i numi tutelari della famiglia letteraria romana. Ciascuno stava a vigilare il proprio territorio: vi era il centro di Moravia, zona attiva sin dal 1929 (e guai a entrarvi senza apposito permesso…); vi erano le periferie “bazzicate” e narrate da Pasolini a seconda delle sue ire e dei suoi fremiti; vi era il circuito delle Femmes de Lettres che gareggiavano, sempre vincendo, con la stanchezza di coloro ai quali, in origine, avevano ispirato prose e versi, ma che oramai…

Tutto questo bel mondo non scalfiva minimamente la solidità di Flaiano, che era un piccolo borghese di provincia, un fiero pescarese approdato a Roma senza sapere né il perché né il per come di quella casualità. Sebbene adolescente, di quel paesone antico egli coglierà subito una sorta di remota estraneità a cui parteciperà ben volentieri, col passar del tempo apprendendo quale fosse la giusta dose da versare in ogni relazione, umana o professionale che fosse. In tale abilità i romani mancati fallivano regolarmente. Flaiano, invece, stravinse. Egli comprese presto che a “buttarla in caciara” coi romani ci si perdeva di brutto e che a nulla sarebbe mai servita qualsiasi esercitazione mimetica. È così crebbe mittel-abruzzese, traendo da quella bizzarra mescolanza una energia intellettuale clamorosa e guardando tutti, non già dall’alto in basso (era troppo acuto per le vanterie) ma da est a ovest, in placida attesa, ogni mattina, del sorgere di un sole già sorto fuori di sé, per poi scriverne con un pizzico di vantaggio e di arguzia.

Non per caso, probabilmente, il compagno di strada con cui egli più si trovò a suo agio fu Tonino Guerra, di dieci anni più giovane di lui ma a sé coevo e complice per sensibilità ed esperienza di vita. Guerra e Flaiano firmeranno insieme soggetto e sceneggiatura de La Notte, capolavoro di Michelangelo Antonioni e gloria della Nouvelle Vague. La lettera finale, che sbloccherà l’impasse di quella scrittura un po’ faticosa, si dovrà a un guizzo di Flaiano; una uscita dal testo, la sua, una piega di cui egli soltanto poteva essere capace. Guerra ricorderà quel lampo con una stima infinita e a me risulterà commovente essergli dinanzi nel 2010 (per il centenario del nostro) per raccoglierne le confidenze. Non a caso, il romagnolo erediterà dall’abruzzese il “mestiere” da porre al servizio di Fellini e di Antonioni, a conferma della normale attitudine di ogni scrittore poco vanesio: quello di essere un prestatore d’opera. Del resto con quei due registi eccellenti Flaiano non ci convivrà bene, perché Antonioni gli risultava troppo maceroso e inabissato, e perché Fellini gli pareva mondano e superficiale, al punto di non comprendere l’infinito dolore che il suo sceneggiatore provava per il destino amaro della sua figliola Lelé. Un punto di non ritorno che allontanò i due diversissimi genii dell’Italia post-bellica. Di un paese assai poco generoso con i liberi pensatori e ancor meno tollerante verso un letterato post-ideologico, che scherniva le sciocchezze del fascismo e che rimaneva così eterogeneo da rispondere, al giornalista che gli aveva chiesto se fosse iscritto al Pci: «Non posso. Non ho i mezzi!» A sessant’anni di distanza un motto di spirito tanto spiazzante viene giornalmente volgarizzato da politici incommentabili. Anche per questa sua diversità culturale, per quei suoi motti fulminanti e per quelle sue opere lungamente attese e concepite, Ennio Flaiano ce lo teniamo stretto, noi che lo abbiamo amato senza pregiudizi e senza interessi.

Flaiano diceva bene: «La verità fulmina chi osa guardarla in faccia». E per non fargli il minimo torto, ricorderei che la verità di questo meraviglioso scrittore italiano era ancor più ricca e più umana del suo sarcasmo e della sua immensa intelligenza. Esser rimasto un intellettuale inimitabile in una società di epigoni e di replicanti, sarà il culmine perpetuo del suo breve passaggio.

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Domani, 5 marzo alle 21, presso la libreria Eli di Roma, verranno ricordati i 110 anni di Ennio Flaiano con memorie, testimonianze e proiezioni (ci saranno i ricordi filmati di Tonino Guerra e Giovannino Russo). 110: come fosse il voto più alto, con lode, che il pubblico gli tributerà.

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