Leopoldo Carlesimo
Cronache dall'Italia sospesa

Quattro cani per strada

«Si chiamano Dic, Duc, Fac e Fer e sono quattro evasi. Stamattina alle sei, complice la sorveglianza insolitamente lasca del canile municipale, hanno approfittato di una gabbia lasciata sbadatamente aperta e sono fuggiti»

Immagini di Roberto Cavallini

Per le strade deserte vagano quattro cani. Nessuno di loro lo sa, ma da qualche giorno una misteriosa epidemia infuria in città. I nostri quattro s’aggirano per quartieri desolati, insolitamente silenziosi. Saracinesche abbassate, negozi chiusi. Davanti ai pochissimi esercizi commerciali aperti rade file di umani attendono, ben distanziati, il loro turno. Parecchi di loro indossano una specie di museruola. Tutti hanno espressioni preoccupate, vigili. Si guardano intorno inquieti, come cercassero di capire dov’è la minaccia, da quale parte riceveranno il colpo.

I nostri sono reduci da un’avventura. Si chiamano (nomi di fantasia) Dic, Duc, Fac e Fer e sono quattro evasi. Stamattina alle sei, complice la sorveglianza insolitamente lasca del canile municipale, conseguenza delle numerose assenze disseminate dal contagio, hanno approfittato di una gabbia lasciata sbadatamente aperta e sono fuggiti.

Duc è un grosso bastardo di pelo lungo, somiglia un po’ a un incrocio tra un maremmano e un lupo, ha un’aria da duro e avanza deciso un paio di metri avanti agli altri, la coda dritta, il labbro teso, capace d’arricciarsi al minimo segnale. È forte, impulsivo, un po’ corto di cervello, sempre pronto a mostrare i denti; in mancanza del bastone degli uomini ha bisogno di molti consigli per rigar dritto e non cacciarsi nei guai.

Dic è un giocherellone pieno di pelo, genere bobtail pezzato, ogni momento dimena la coda. Si fida dei suoi simili e per questo di quando in quando rimedia qualche morso, ne porta addosso i segni, dalle orecchie rosicchiate fino alla coda mozza; si fida anche degli altri animali e perciò è guercio d’un occhio, per essersi avvicinato troppo festosamente a un gatto; come se non bastasse si fida degli uomini, quindi ne conosce molto bene il piede. Lui se ne frega e continua a fidarsi.

Fac è un castrato. Come molti eunuchi ha la zucca fina, è lui il dritto, la mente del gruppo. E’ un bastardello di pelo corto, un po’ simile a un bracco italiano, ma di taglia più piccola, e ha guidato lui i compagni attraverso il varco della gabbia, fino al cancello del canile e alla libertà.

Fer è una cagna già avanti negli anni ma ancora piacente, anche se ormai ha almeno una decina di gravidanze alle spalle. Conosce la vita e sa che non bisogna prendersela qualunque cosa accada. In ogni fatto, per quanto brutto, cerca sempre quel po’ di buono che contiene, e ce lo trova in tutti, nessuno escluso. Sa che tra poco sarà nuovamente in calore (tra l’altro, è quasi primavera) quindi si chiede con chi s’accoppierà stavolta. Lei lo farebbe volentieri con tutt’e tre, anche con Fac se lui potesse. È sempre stata una cagna generosa.

Poniamo che la città sia Roma (ma non è essenziale, ognuno è libero di ambientare la storia dove vuole) e i nostri quattro stiano risalendo Via Merulana, da San Giovanni verso Santa Maria Maggiore. Si trovano grossomodo all’altezza di Largo Leopardi e della nota panetteria-caffè Panella. Sono all’incirca le undici del mattino e Via Merulana è praticamente deserta.

E’ dall’alba che vagano per la città, hanno avuto tutto il tempo per arrivare dalla periferia fino in centro godendosi la libertà riconquistata, il piacere di vagabondare senza vincoli né controlli, senza barriere, senza divieti, fuori dalle anguste gabbie in cui sono stati rinchiusi finora. L’unica cosa che gli manca è un po’ di verde. Hanno provato a cercare un campo, degli alberi, un prato su cui correre. Macché. Villa Celimontana, davanti alla quale sono passati, è chiusa, il parco di Colle Oppio pure, persino i giardini di Piazza Vittorio sono sprangati.

“Beh, pure se hanno chiuso tutto, prima o poi troveremo bene un varco,” dice Fac.

“Ma che fine avrà fatto tutta la gente?” Chiede Dic. È l’unico a cui dispiaccia vedere così pochi umani in giro.

“Meno ne circolano, meglio è,” gli risponde Duc, guardandosi aggressivamente intorno. “Lo sai che siamo degli evasi, probabilmente dei ricercati. Che stiano alla larga, non s’avvicinino. Se solo ci provano a riacchiapparmi, stavolta piuttosto che farmi prendere…”

In quel momento un umano un po’ diverso dagli altri s’avvicina alla coda che alcuni di loro, ben distanziati e ciascuno con la sua mascherina in faccia, stanno facendo davanti al supermercato dirimpetto a Palazzo Brancaccio. Questo umano è un po’ strano perché non porta né mascherina né guanti. Inoltre è spettinato, chiunque lo giudicherebbe piuttosto sporco, indossa un cappottaccio lacero, pantaloni sbrindellati, ha le unghie luride ed è scalzo.

L’unico dei quattro a capire che si tratta di un mendicante è Fac. Riconosce al volo quella razza d’uomini che gli altri chiamano barboni e che vivono senza un tetto, d’elemosina e d’accattonaggio. Il mendicante s’avvicina, chiede la carità tendendo la mano. Ma gli umani in coda, nascosti dietro le loro mascherine, si scostano diffidenti. “Tenga la distanza!” Gli dice uno. “Non s’avvicini!” Gli dice un altro. “Stia lontano!” Gli grida un terzo, indietreggiando. “Ma io ho fame!” Dice il mendicante. “La mensa caritas, qui a Colle Oppio, fa entrare solo pochi alla volta, per l’epidemia… Ieri non sono riuscito a mangiare… E anche stamane, ce ne saranno cento davanti a me… Come faccio? Dove vado? Se non volete darmi una moneta, compratemi voi qualcosa, quando entrate, mi basta poco, per favore…”. “Ah, pure. Che vuoi ordinare?” Dice uno. “Alla larga, alla larga!” Dice un altro. “Ma anche solo un pezzo di pane,” fa il mendicante. “Vi prego… Ho fame…” Però tutto quel che ottiene, in risposta, è: “La distanza! Tenga la distanza! Chiamo una guardia, se s’avvicina!”

I nostri quattro si fermano a guardare.

“Ma perché trattano quel poveraccio in questo modo?” Dice Dic.

“Eh, che vuoi…” dice Fac. “Sembrano spaventati, sarà per questo…”

“Comunque abbiamo anche noi lo stesso problema di quel poveretto,” dice Fer. “Come faremo a mangiare?”

In effetti nessuno dei nostri ha messo nulla sotto i denti da ieri sera, al canile. Sono affamati.

“Ci penso io,” dice Fac. E chiama a sé Dic e Duc. I tre maschi confabulano un po’ tra loro, poi Fac dà agli altri le sue istruzioni e spiega in dettaglio il piano.

Quando dal supermercato uscì un umano con buste della spesa che a Fac parvero abbastanza gonfie (tra l’altro, per uno strano caso si trattava proprio di uno degli umani che avevano trattato così duramente il mendicante, uno di quelli che con più veemenza gli avevano urlato: “Stia lontano! Tenga la distanza!”) Fac fece agli altri due il segno convenuto e trotterellando disinvoltamente Dic e Duc, uno da una parte e l’altro dall’altra, s’avvicinarono all’uomo, che s’avviava con le sue borse in direzione di Piazza Vittorio.

I primo ad accostarsi fu Dic, festosamente, alla sua maniera. Scodinzolava e offriva inoffensivamente il muso, annusando. “Va’ via, bestiaccia!” Disse l’uomo. “Sta’ lontano, anche se non porti contagio. Pussa via!” E gli faceva gli occhiacci e già protendeva verso Dic uno di quei piedi che il nostro conosceva bene. Quando a Fac, che osservava a distanza la scena, parve che l’uomo fosse sufficientemente distratto da Dic, fece a Duc il segnale convenuto. Duc, con la decisione e la rapidità d’azione che gli sono proprie, s’avventò come una saetta sulla borsa della spesa che l’uomo teneva nell’altra mano (la destra) mentre Dic, con le sue feste e slinguazzate, lo teneva impegnato a sinistra. In un lampo Duc addentò il manico della borsa, la strappò di mano all’uomo e si lanciò in una corsa pazza dall’altra parte della Merulana, verso Colle Oppio. Dic, Fac e Fer lo seguirono, incuranti delle urla dell’uomo che tentò goffamente d’inseguirli.

Quando furono a una certa distanza, al sicuro – erano arrivati all’altezza del parco della Domus Aurea – Duc rallentò e attese che i compagni lo raggiungessero. Tra i denti stringeva una borsa gonfia d’ogni genere di leccornia.

“E adesso?” Chiese Duc a Fac, dopo che l’ebbero raggiunto.

“Adesso cerchiamo un posto riparato e tranquillo dove pranzare,” disse Fac. “Se trovassimo un varco in questa recinzione…” E così dicendo andava annusando qua e là lungo la rete di cinta, cercando il buco.

Mentre erano così in perlustrazione, Fer vide spuntare a un capo di quel tratto di strada, che si chiama Via Mecenate, quello stesso mendicante che gli umani avevano maltrattato davanti al supermercato.

Fer lo guardò. Si trascinava lacero, più malmesso e affamato di loro. Allora Fer andò da Fac e confabularono assieme ai compagni. E mentre Dic, Duc e Fac cercavano il varco nella recinzione del parco, Fer trotterellò verso il mendicante, gli addentò delicatamente la mano e lo guidò pazientemente verso il buco nella rete che, nel frattempo, i suoi compagni avevano trovato.

Penetrarono tutt’e cinque nell’interno – i nostri agilmente, il povero umano con qualche difficoltà – e si trovarono un angolo protetto proprio a ridosso del Centro Culturale Egizio, dove Duc lacerò coi denti la busta. Fer fece equamente le parti e distribuì cibo in abbondanza a tutti. Così i nostri cani evasi adottarono un randagio, anche se era umano.

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