Giuliano Compagno
Cucina in quarantena

La piccola abbuffata

Tra Marco Ferreri, Knut Hamsun e lo stracchino, in questi giorni di clausura, pur con i dolori, le morti e una lucina che ancora non si accende, ci si sorprende in un mondo vero dove si mangia in un modo antico, dove ci si annoia, si ricorda, si sogna

Stasera i broccoletti all’agro che ha preparato la signora Corinna sanno di una verdura che potrei girare tutta la città senza trovarla. Loro (i broccoletti) stanno a centro tavola; accanto vi sono un “San Daniele” da agiografia e un figlio del popolo, ovvero lo stracchino di Nonno Nanni. È la cena che Brunella e io consumiamo più volentieri. Ci passiamo qualche fettina di pane e intanto lei mi racconta tante di quelle storie che io fatico a starle dietro. Si appronta minuscole porzioni, come se si nutrisse di sguardi, frasi, espressioni… Ogni tanto annotiamo che ci accomuna la dipendenza da quella vaschetta di stracchino e speriamo che, frequentando i “Nannisti Anonimi”, un giorno usciremo dal tunnel.

Del resto la clausura sta ribaltando qualsiasi scala di sapori. In base a questo capovolgimento la semplicità può diventare una forma di resistenza.

Ad esempio si torna alle scelte di fondo. La preliminare: supermercato o piccolo alimentari di quartiere? Il Super (così, quand’ero bambino, annunciava mia madre sulla porta di casa, carrello al pugno: «Vado al Super!») implica una lunga attesa, un percorso senza sorprese e, nonostante l’impegno, un approccio meccanico e distratto alla mercanzia; ai “Vespri”, l’alimentari della piazzetta omonima, le cose vanno un po’ diversamente: si aspettano due clienti al massimo, dopo di che una vivace signora sarda, che col marito umbro conduce il negozio, propone di sua iniziativa questo o quel prosciutto, questa o quella caciottina, subito elencandone origini, specie e caratteristiche. Da lì in poi sta al cliente farsi valere. E mentre io mi lascio trascinare delle offerte, compro mezzo Friuli e tutto il pantheon campano della bufala, Brunella acquista il giusto senza tralasciare per mezzo secondo quel che era e che rimane il suo personale piano architettonico del pasto a venire. E spenderà un terzo.

Questo esercizio di piccolo godimento allontana da noi, sino a renderli immemorabili, i programmini degli chef di eccellenza che da anni imperversano in tv. Ma sì, quelle scuole di alta cucina dove degli ottimi cuochi, venerati quali guru planetari, impiattano le loro prelibatezze, sempre confondendoci tra cosa sia la tecnica e cosa l’arte e, spesso, abusando di concetti degni di miglior causa. Oggi tutto questo sembra talmente assurdo da restituire al nostro cibo la sobrietà che esso merita e da ridarci il senso intimo di sedere a tavola dinanzi a chi amiamo. Di ascoltare il tempo che passa. E non è banale né scarso il valore di quella pentola (in latino volgare si direbbe picta) perché è l’uso che se ne fa a renderla preziosa.

Non a caso, su ciò che vi si bolle e vi si cuoce, la letteratura novecentesca ci ha lasciato un gioiello insuperabile: «Erano gli anni in cui erravo affamato per le strade di Christiania, quella strana città da cui non riesci a fuggire prima che t’abbia impresso il suo marchio». Sì! Erano gli anni in cui Pontus, giovane scrittore sul lastrico, vagabondava per la vecchia Oslo alla ricerca angosciosa di cibo. Fame valse a Knut Hamsun il Nobel e a noi lettori la sazietà di aver gustato un’opera fantastica. Cent’anni dopo la poesia italiana ci consegnerà i versi quasi ostili di Mangiare, con cui Carlo Bordini canta l’azione ossessiva e ripetuta di un’umanità che non si acquieta mai; al poemetto dello scrittore romano seguirà un esempio luccicante di bel teatro contemporaneo nella potenza di Giancarlo Cauteruccio. Nel 2005 egli metterà in scena il monologo Fame, mi fa fame: «È na malattia da capu, accussì male trattata / ppe mancanza d’ogni grazia, de qualsiasi comprensione / de na picca e gentilezza, de na nticchia d’attenzione».

Difficile negare che entrambe le opere discendano da un film che, nel 1973, aveva suscitato un’eco clamorosa, quella Grande abbuffata che Marco Ferreri aveva diretto da mago, presagendo il futuro crollo psichico degli individui consumatori: «Mangia! Mangia piccolo Michel, mangia! Se tu non mangi, tu non puoi morire!» sussurra Tognazzi a Piccoli imboccandolo di purea “medicamentosa”. È un caso che quattro citazioni su quattro rimandino a una relazione con il nutrimento che appare paranoica, tormentosa, assillante?

Fortunatamente Brunella e io veniamo da epoche e da luoghi un po’ distanti che però, in fatto di cibo, le nostre culture hanno reso simili. E non c’è nulla di strano. Cresciuta nei pressi di una cittadina di provincia, nulla le risulterà più inusuale dell’enfasi gastronomica. Per una sorta di atavica tradizione, la materia prima precede e prevale su ogni sua variabile preparazione.

Le chiacchiere stanno a zero: quei tali broccoletti sono nati buoni, quelle signore tagliatelle sono fatte di certe uova che…  «Alla perfezione si giunge quando non c’è più niente da togliere», non aveva ragione Saint-Exupéry? Ma con tutto ciò cosa c’entro io, che avevo una madre deliziosamente pigra in cucina e un padre che a mangiare un po’ si annoiava? C’entro perché da ragazzino non avrei mai ascoltato il benché minimo dialogo su una certa pietanza o su un ristorante. E non era solo una circostanza famigliare… Era che non si usava. Perché non era di moda? O era la militanza politica ad aver imposto un distacco intellettuale da qualsiasi forma di godimento? O forse non era considerato fine parlare di salami e di zuppe? Io non lo so con certezza ma sento che in questi giorni di clausura, pur con i dolori, le morti e una lucina che ancora non si accende, mi sorprendo in un mondo vero dove si mangia in un modo antico, dove ci si annoia, si ricorda, si sogna. E a me piace.

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Le immagini sono di Roberto Cavallini

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