Filippo La Porta
Cronache dall'Italia sospesa

La decrescita infelice

«Ci aggiriamo per le nostre città come anime erranti, sapendo che non possiamo toccarci. Quando il poeta latino Stazio nel Purgatorio dantesco abbraccia Virgilio, un altro fantasma come lui, stringe soltanto l'aria. E ne viene rimproverato»

Immagini di Roberto Cavallini

Leggo che è stato chiuso a Lourdes per il virus lo spazio delle “acque miracolose”. A me pare un evento simbolicamente più potente di tutta la bibliografia sulla obsolescenza del fatto religioso nella modernità. Anche i credenti sperano in un vaccino, non nel miracolo.

«Peste. Le cose che gemono di essere separate» (Albert Camus, Taccuini, 1944)

Giravo stamattina per una Roma spettrale, come evacuata, svegliato all’alba dal canto rumoroso degli uccellini. Le giornate, prive di scadenze e appuntamenti, scivolano tutte uguali, niente distingue, che so, il lunedì dal martedì. Perfino inutile segnarli. Ho immaginato le giornate dei detenuti. La vita diventa un fluire indifferenziato, amorfo. In ciò un poco somiglierebbe alla morte. Anzi, a pensarci bene, somiglia a un dopo la morte. Camminando ho pensato, per un attimo, che forse siamo già tutti morti. Ci aggiriamo per le nostre città come anime erranti, sapendo che non possiamo toccarci. Quando il poeta latino Stazio nel Purgatorio dantesco abbraccia Virgilio, un altro fantasma come lui, stringe soltanto l’aria. E ne viene rimproverato.

Tutto ciò mi rimanda a uno dei sogni più belli che io abbia fatto (due o tre anni fa). A Roma, in una luce primaverile appena un po’ satura, mi trovo con i miei genitori, davanti a un antico caffè. Sembriamo felici. Chiedo a mia madre: “Mamma, non è che siamo già tutti morti?”. E lei sorridendomi: “Certo…”. Allora ho capito che “essere vivi o essere morti è la stessa cosa”, come diceva Pasolini – riprendendo una massima indiana – nel suo La terra vista dalla luna. Non è un pensiero che debba necessariamente deprimerci. Anzi, potrebbe allargare la nostra visione, metterci in contatto con una dimensione altra, meno ovvia delle cose.

La cosa più bella che abbia letto in questi giorni è sulle scatole piene di mascherine che i cinesi hanno donato all’Italia: «Siamo onde dello stesso mare, siamo foglie dello stesso albero, siamo fiori dello stesso giardino» (mentre le nazioni dell’Unione Europea, che ama esibire le proprie radici cristiane, si tengono strette le loro mascherine!). Ormai si impone una coscienza di specie (anche se in quanto tale la “coscienza di specie” non esiste: la coscienza è solo individuale. . . però si tratta di una “finzione” utile), e diventa ormai matura una Costituzione della Terra. Chi ha più in animo oggi di dichiarare “Prima gli italiani”? Rileggiamo la Ginestra di Leopardi.

«La peste accentua la separazione. Ma il fatto di essere uniti non è che un caso prolungato nel tempo. La regola è la peste» (Albert Camus, Taccuini, 1943)

Fuani Marino, scrittrice napoletana di 40 anni pubblicata da Einaudi, ha scritto che «Stiamo sacrificando come imprescindibili cose come la socialità e l’economia di un paese in nome degli over 75». Un commento degno di Goebbels. Ma dal suo punto di vista ha ragione. In un senso astrattamente utilitaristico difendere – come ha fatto il nostro governo, pur con tanti impacci – non la vita ma la vita più debole, più precaria, quella degli anziani, dei malati, degli scarti, delle persone improduttive potrebbe non essere una scelta del tutto “razionale”. Appunto: si danneggia l’economia, e dunque gli interessi della maggioranza. Ma ciò sottolinea ancor più il carattere arbitrario, meravigliosamente gratuito, di ogni scelta morale, fondata su un sentire ancor prima che su dei principi. La pietà precede la giustizia e la innerva.

«Peste. Non si può più godere del grido degli uccelli nel fresco della sera – del mondo com’è» (Albert Camus, Taccuini, 1943)

Nei blog tutti propongono liste interminabili di libri da leggere, pensando forse che la quarantena potrebbe durare, che so, un anno. Speriamo di no! Almeno suggerite, vi prego, solo dei racconti e non Guerra e pace, anche solo per scaramanzia! Ma soprattutto è evidente il narcisismo di queste liste: non vedono l’ora di dirci che loro sanno tutte le letture giuste, da Boccaccio e Defoe, da Camus (da cui pure ho prelevato alcune citazioni) a Saramago e Crichton. Anzitutto: sono a favore di consigli di lettura anonimi! E poi: davvero in questi giorni vogliamo rimpinzarci di letture? Speso leggere impedisce di pensare. Perché non limitarsi a meditare, senza scadenze né oggetti precisi, a non affrettarci a riempire il vuoto?

Inoltre: anche lavorare, pur con tutto il tempo a disposizione, a anzi proprio per questo, non è per niente facile: anzi diventa una impresa ardua. Richiede molta autodisciplina.

Un amico mi dice, quasi euforico, che la pandemia ce l’ha mandata la provvidenza. Il fisico Marcello Cini mi confessò 20 ani fa che, da marxista, sperava non nella rivoluzione proletaria ma in una moderata “catastrofe”, per far rinsavire l’umanità. Ora, che il mondo si fermi per un po’ non può che fargli bene. Le anatre nei canali veneziani, le città senza traffico, lo spazio domestico, e più raccolto, degli affetti, il rallentamento dei ritmi forsennati delle nostre esistenze. Ok, ma è una decrescita non “felice”, piuttosto angosciata e dal piglio punitivo. La pandemia distrugge le basi stesse della socialità, della “convivialità” cara a Ivan Illich. Come godere oggi delle cose minime, dei piaceri frugali? Posso rinunciare ai consumi superflui e a tanti spostamenti non necessari, ma non a vedere gli amici e ad abbracciarli, ad ascoltare musica dal vivo o al caffè di Testaccio dove mi piace osservare gli altri e scrivere. Insomma noto in giro quasi un estetismo della catastrofe, una inconscia identificazione con l’aggressore benché animata da buoni propositi (la disposizone buddhista a “usare” la sventura).

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