Lidia Lombardi
Cronache dall'Italia sospesa

Secondo il dpcm

«Accendo il pc e ripercorro i comunicati stampa di decine di eventi annullati, «in ottemperanza al dpcm…». E intanto fioccano i video skype di cantanti pop che improvvisano nel salotto di casa...»

Immagini di Roberto Cavallini

Dalla finestra, davanti alla tazza di caffellatte scuro – primo ineludibile approccio alla giornata – i fiori bianchi del susino e quelli rosa del pesco sullo sfondo del cielo azzurro sono il primo iato del memorabile giovedì 12 marzo 2020, quando l’Italia si è fermata per decreto. Esplode la primavera e non so se prendere la vitalità della natura come un controsenso mentre un misterioso virus minaccia l’esistenza di tutti o come una speranza che possiamo farcela a ricostruire il futuro. Vorrei indugiare perché appuntamenti non ce ne sono, la notte è stata guastata dai pensieri dopo l’annuncio a tarda sera del premier e nell’insonnia ho ascoltato il mio corpo, attenta a quell’impercettibile dolore in gola nel deglutire, ma no, non è niente, ieri ho fatto appena due starnuti.

Invece bisogna muoversi, raggiungere il supermercato perché il frigo è quasi vuoto dopo quattro giorni di autoreclusione. In macchina con il modulo del ministero dell’Interno compilato per specificare che sto andando a fare la spesa. In un supermercato più grande di quello abituale, così ci sarà più spazio, penso. Là alle 8,30, le persone in fila con i carrelli, molti in guanti e mascherina, sono silenziose e rispettose degli ingressi contingentati. Rassegnati tutti meno la giovane dietro di me, che dopo aver sbuffato («Ma questa fila non scorre?») gira i tacchi e va via. E però il sole mitiga la noia dell’attesa: «Meno male che c’è, pensi se dovessimo stare qui sotto l’ombrello», sorride la signora davanti  ed è l’avvio di un dialogo a distanza regolamentare che cerca il bicchiere mezzo pieno. Davvero da goderseli questi minuti al sole, pur nel piazzale squallido del supermarket, perché poi ci chiuderemo a casa.

È dentro le quattro mura che non rinuncio a qualche altro raggio affacciandomi al balcone. E mi danno fastidio, laggiù sul marciapiede, le due mamme ciarliere che mandano avanti il gruppetto di quattro ragazzini, meta un piccolo parco a poche decine di metri. I bambini sciamano ma poi si avvicinano l’un l’altro, troppo, mostrandosi i giocattoli. Le signore, affiancate, parlano del più e del meno, in quei soliti scambi colloquiali fatti di luoghi comuni. Ai quali anche ora non si riesce a sottrarsi, perché il chiacchiericcio stordisce e fa passare il tempo che non si è capaci di riempire con alternative desuete e ormai controcorrente. Come il silenzio.

Accendo il pc e ripercorro i comunicati stampa di decine di eventi annullati, «in ottemperanza al dpcm…». E intanto fioccano i video skype di cantanti pop che improvvisano nel salotto di casa, le locandine di offerta in streaming di film d’autore (campeggia quella della Cineteca di Milano) o di spettacoli teatrali (dal Biondo di Palermo Pamela Villoresi offre gratis su Youtube la messinscena di Frida Kahlo). Fino alla ecumenica iniziativa del ministro Franceschini che lancia “Italiachiamò”, raccolta fondi per l’emergenza sanitaria. Nella maratona in streaming di diciotto ore in cambio delle offerte si regala cultura – testimonianze dal mondo della scienza, dell’arte, dell’innovazione – e anche un giro virtuale nei musei e nelle mostre allestite e impossibilitate a essere visitate, come quella epocale nelle Scuderie del Quirinale dedicata a Raffaello. Allora ripenso all’incongruenza che mi ha sorpreso qualche giorno fa, quando ancora l’Italia non era tutta nella morsa dell’annichilimento. «La cultura è vita» diceva il 26 febbraio Beppe Sala, il sindaco di Milano, sollecitando i vertici del Governo a consentire la riapertura dei musei di Milano. «Con la cultura non si mangia» sentenziò invece un altro lombardo, il Giulio Tremonti da Sondrio (Sala è milanese doc) in qualità di ministro dell’Economia del quarto governo Berlusconi. Era il 2010, la frase lapidaria era rivolta all’allora responsabile del Collegio Romano, Sandro Bondi.

Milano, Milano… Faccio due telefonate, ad amiche che vivono lì e che non sento da qualche mese. È da giorni che voglio contattarle, con un po’ d’ansia. Chissà come stanno, e come stanno i loro cari, non più giovani, come me. Comporre il numero del cellulare lo si fa con un po’ di batticuore, succedeva lo stesso, penso, durante la guerra, quando si spediva una lettera a persone amiche delle quali non si avevano notizie. Stiamo bene, mi dicono subito. Ma mi squarciano due realtà impressionanti. Una è psichiatra, lavora in ospedale, ha 64 anni e una patologia al cuore che tiene sotto controllo. «Sai, non mollo. E però i miei pazienti, i malati mentali, possono soffrire l’emergenza sanitaria con reazioni che è impossibile tenere a bada restando a distanza di sicurezza o celati da tuta, guanti e mascherina. La percepirebbero come un rifiuto per loro insopportabile da parte del medico che li ha in cura. Ma a me, se prendo il coronavirus anche facendo i turni di pronto soccorso, chi assicura che potrò usufruire di un respiratore?».

L’altra amica ha il marito malato di Alzheimer, che tiene in casa, aiutata da un badante. «È ancora più difficile la quotidianità. Piange tutto il giorno perché ha perso i suoi riferimenti, il fratello medico come lui che veniva a trovarlo tutte le mattine, l’uscita per andare in chiesa e dal giornalaio. Oggi mi ha scambiata per sua madre…».

Mi affaccio alla finestra, è il tramonto. All’esterno del palazzo che ho di fronte, uno del complesso dell’Istituto Don Orione alla Camilluccia – ospita nei suoi edifici giovani mutilati, una Rsa, un ambulatorio di riabilitazione, e negli spazi verdi campi sportivi ora deserti – stanno attaccando un grande telo bianco dove i ragazzi ricoverati hanno dipinto l’arcobaleno che sale da due nuvole sotto la scritta “Tutto andrà bene”. È l’hashtag della speranza ai tempi del coronavirus. In fondo al viale alberato di cipressi e pini, benedice Roma dall’alto di Monte Mario la Madonnina dorata. Un gigantesco ex voto sistemato là dopo la guerra, nel 1953, per ringraziare dello scampato scontro finale tra tedeschi in ritirata e Alleati arrivati nella Capitale. Tutto è andato bene, si tirò un sospiro di sollievo allora. Ce lo diremo di nuovo – mi consolo mentre cala il buio – sia se abbiamo fede, sia se teniamo come faro la ragione, sia soprattutto se ci adattiamo alla pazienza e alla responsabilità di cittadini.

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