Loretto Rafanelli
Montale degli “Ossi” in tedesco

Il perfetto traduttore

Diciannove poesie nella traduzione di Giancarlo Scorza, poeta, artista, intellettuale poliedrico scomparso nel 1987. Un lavoro con un surplus di valore, un’opera nell’opera, capace di «penetrare nel sacro recinto» di un’altra scrittura, con «familiarità e intuizione ricreatrice»

Ci pare oltremodo preziosa la riflessione che il noto critico Gualtiero De Santi compie riguardo il lavoro di traduzione di Giancarlo Scorza su diciannove poesie tratte da Ossi di seppia di Montale (nella foto vicino al titolo, immortalato da Ugo Mulas, ndr). Ciò non solo perché ne indaga le modalità e i criteri teorici con grande acume, ma soprattutto perché coglie l’occasione per approfondire sapientemente la questione antica e sempre attuale del tradurre. E anzi vorremmo dire che il saggio di De Santi va ben oltre alla questione specifica dello Scorza traduttore, per divenire un puntuale studio e una ricca indagine su come si possa volgere in altra lingua un testo poetico. Questione come si sa spinosa perché, ci avverte De Santi, rispetto al magma infinito della scrittura in versi è indispensabile avere un orecchio particolare, diciamo una dote ulteriore, in quanto la poesia è profondamente avvolta in un continuo segreto, e si staglia in un illimitato labirintico spazio.

De Santi peraltro nel suo articolato saggio che introduce il libro Montale tedesco. Giancarlo Scorza traduce Eugenio Montale, Archinto Editore, sa che non siamo, con Scorza, di fronte a un ‘semplice’ traduttore (figura chiaramente nobilissima a cui, in generale, non possiamo che indirizzare una sincera ammirazione, per l’impegno enorme profuso e non sempre riconosciuto, essenziale però per uscire dagli angusti cortili provinciali), ma a una persona che è artista e intellettuale dalle poliedriche, ricchissime sfaccettature, per quanto un poco confinato nella sua Pesaro. Scorza fu infatti: poeta (però di una sola plaquette, con 14 poesie, uscita nel 1966, dal titolo emblematico: Stagione inutile, in un numero esiguo di copie, quasi a «volersi nascondere»), narratore, incisore e pittore di grandi qualità, abilissimo bibliotecario, informato su tutte le pubblicazioni, anche internazionali, presso la prestigiosa Oliveriana di Pesaro. E appunto traduttore. Ma traduttore con una ‘sostanza’ tutta sua, perché come dice De Santi: «Nella sua esperienza del tradurre correva anche il trasporto della propria creatività, specie se trattenuta nel riserbo, verso uno specchio nel quale giungesse a registrarsi la porzione segreta dell’esistenza e dell’esistenza personale. Un’esperienza, la sua, nondimeno dilatata, trasfusa in una pagina a fronte la cui scrittura rispetto all’originale era di necessità gracile e dove la redazione d’arrivo poteva apparire una sorta di sottotesto che non subiva l’originale, mantenuto in un certo qual modo a distanza».

Quindi scrittura creativa avverte De Santi, quella, diciamo noi, che ha un surplus di valore e che fa della traduzione un’opera nell’opera. Perché se la traduzione è l’inoltrarsi verso uno spazio amorevole, di complicità, d’intesa, eppure proprio per questo porta con sé una differenza, necessaria e per questo viva, come dice Benjamin: «nessuna traduzione sarebbe possibile se la traduzione mirasse alla somiglianza con l’originale», in particolare quando c’è quella ‘lingua distinta’ che è la poesia o certa prosa. E Scorza questa linea la sviluppa applicandosi a figure decisive del Novecento: da Robert Musil, a Heinrich Böll, da Hans-Jürgen Heise, a Rilke e Celan. E sulla traduzione di questi autori, e su Montale, egli resterà fedele a tale criterio, ponendo il discorso «entro il magma cretoso dell’esistenza». Ma certo alcuni di questi sono anche suoi ‘padri’, soprattutto Rilke, che, dice De Santi «fornisce la naturale saggezza di una estetica nelle mediazioni formali», mentre Montale «permette di inquisirsi in estenuanti esami di coscienza (sulla scrittura, sul senso del vivere, sull’immane fluire del tempo e delle cose)», e inoltre con lui «non si dà mediazione ma rimangono sempre aperti il conflitto, la contraddizione».

Per questo Scorza nel tradurre Montale segue una strada ‘ribelle’ rispetto alle diverse versioni dei traduttori tedeschi, lodevoli ma ‘normali’, intuendo che non avessero colto quella dimensione sotterranea e profonda, quel tremolio esistenziale e morale, che sono le ‘fondamenta’ della poesia montaliana, per questo si avvia su un cammino diverso, risolto «in una perenne approssimazione al valore». E, ancora, dice con efficacia De Santi: «Era dunque la sua, una figura il cui ruolo doveva incarnare qualcosa di più di un corrente traduttore, nei cui panni, nei panni cioè di un interprète/translator, Scorza mostrava di stare decisamente bene, specie rispetto ad autori (Christian Morgenstern, Ezra Pound, Celan, ma anche Vaché o Bachtin) la cui comprensione richiedeva strumenti che fossero in grado di cogliere, come sosteneva in generale George Steiner, «un complesso aggregato di conoscenze, familiarità e intuizione ricreatrice».

Ecco quindi che Scorza (nella foto) raggiunge la grandezza del ‘perfetto’ traduttore, mettendo un valore creativo aggiunto, così da farne divenire un meta-autore. Quella dimensione che un traduttore di grande intelligenza, oltre che grande poeta, come Andrea Zanzotto, sintetizza così: «Penetrare nel sacro recinto di questa altra scrittura, infatti, comporta di necessità l’orientarsi in un inaudito, davvero “straniero” ordine di linguaggio: in uno spazio altro da quello volgarmente detto del senso comune. Uno spazio, un campo gravitazionale, direi, in grado di distorcere, imprimendovi una curvatura del tutto particolare, la direttrice semantica delle parole che finiscono per avventurarvisi».

Resta da dire di questo interessante libro, che le poesie di Montale tradotte, tratte dalla raccolta Ossi di seppia, ‘escono’ solo ora, postume, per via delle disavventure e delle complicazioni editoriali che hanno ‘accompagnato’ Scorza, e, seppure in numero esiguo, pensiamo siano sufficienti per dare conto di un percorso poetico, quello montaliano, unico. Accanto alle poesie più note (Limoni, Corno inglese, Meriggiare pallido e assorto, Spesso il male di vivere ho incontrato, etc.), ve ne sono altre meno antologizzate, ma ovviamente straordinarie, come ad esempio Valmorbia, di cui di seguito diamo la versione di Scorza:

Valmorbia, discorrevano il tuo fondo

fioriti nuvoli di piante agli àsoli.

Nasceva in noi, volti dal cieco caso,

oblio del mondo.

 

Tacevano gli spari, nel grembo solitario

non dava suono che il Leno roco.

Sbocciava un razzo su lo stelo, fioco

lacrimava nell’aría.

 

Le notti chiare erano tutte un’alba

e portavano volpi alla mia grotta.

Valmorbia, un nome – e ora nella scialba

memoria, terra dove non annotta.

 

Valmorbia, den Lüftchen folgend, durchliefen

deinen Talgrund erblühte Pflanzenwolken.

Weltvergessenheit erhob sich in uns, die

Beute des blinden Geschicks.

 

Die Schüsse schwiegen, im einsamen Tal

rauschte nur der dumpfe Leno.

Eine Leuchtrakete erblühte auf dem Stiel,

leise sanken ihr Tränen in die Luft.

 

Die hellen Nächte waren eine Morgendämmerung,

führten Füchse zu meiner Höhle.

Valmorbia, ein Name – und jetzt im fahlen

Erinnern, Land, wo es nicht Nacht wird.

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