Giuliano Compagno
Cronache dall'Italia sospesa

Il mondo, vice versa

«Il mondo si è tutto rigirato su se stesso, non è più quello che ti avevano raccontato da bambino, come una larga parabola che partiva dalla punta delle scarpe e saliva fino in cielo, dove ti perdevi»

Immagini di Roberto Cavallini

Ora ti viene il dubbio che sotto le lenzuola, tra l’espressione esausta di Sabina e la sua febbre alta, stesse nascosto un minuscolo segreto. Ora ti stai godendo le prime ore di un’altra giornata. Ti consola il fatto che i due colpi di tosse non fossero secchi e che respiri bene con il naso. Che non hai febbre. Forse stai bene ma questo non significa più nulla perché ormai chi sta bene sta male e vice versa.

Perché il mondo si è tutto rigirato su se stesso, non è più quello che ti avevano raccontato da bambino, come una larga parabola che partiva dalla punta delle scarpe e saliva fino in cielo, dove ti perdevi. E invece ti ritrovi sempre in un mondo vice versa, in cui tutto è il contrario di tutto e tu hai finito per smarrirti. A tradurlo in lingua francese, la parola si spezza: «Il corpo può tremare, temere e lo spirito restar fermo e coraggioso, e vice versa!» sentenziava Balzac. In fondo a te capita spesso così, pensi. Questo pensiero ti coglie nel pieno silenzio di una città inoperosa.

Qui albeggia, mentre laggiù tramonta, e vice versa! E arriva il momento di ricordare che un silenzio altrettanto perfetto si era creato quel giorno lontano in cui eri andato a far visita a tuo padre; lui era disteso e tu seduto, tu eri vivo, lui no. Fu quello uno degli istanti più pieni di senso della tua esistenza, perché in quel tacere di ogni cosa finì per liberarsi, a tempo debito, un pianto così capiente da contenere le memorie e le dimenticanze di voi due, irreparabilmente distanziati. E per la prima volta vicinissimi: vice versa! Eravate a Roma, in luogo neutro e sconosciuto a entrambi, come da giorni ti appare forestiera la città in cui sei nato e che mai si era mostrata semideserta come ieri pomeriggio, mentre vi camminavi scartando a distanza altri pedoni come te, nascosti sotto le sciarpe, coi quali ti salutavi a distanza.

Appena salito in macchina avevi sperato di non imbatterti in qualche pattuglia di controllo, col rischio che chiudesse il negozio verso cui eri diretto. Un timore del genere lo avevi provato quarantadue anni prima, in un altro mese di marzo, quando Roma era pattugliata da camionette e posti di blocco. Aldo Moro era stato rapito, eri con amici, avevate, chi più chi meno, i capelli lunghi, vestivate con un certo disordine, e ovviamente una pattuglia vi fermò, vi fece scendere e procedette, le mani ben visibili sul cofano, a una sommaria perquisizione. Non vi era nulla di cui temere, se non fosse stato per i mitra ciondolanti dai fianchi di quei poliziotti giovani, nervosissimi, allarmati. Si condivideva lo stupore di quella violenza fuori controllo, e però sentivi che i tuoi bei vent’anni di risa, di letture e di amori, quei poveri fanatici assassini senza storia non te li avrebbero mai rovinati.

La differenza era che il Male e il Bene, allora, erano abbastanza separati; potevi anche definirli il Malaccio e il Benino ma in ogni caso esistevano e battagliavano tra loro. Carl Schmitt non era autore di tendenza ma il suo dualismo Amico/Nemico si teneva bene in piedi da solo. E ti saresti divorato i suoi saggi negli anni a venire, prima che egli morisse, quasi centenario: «L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto». A ripensarci, questo tempo che scorre ti appare prevedibile in tutta la sua eccezionalità.

Doveva accadere, e ti prende un po’ di nostalgia per la tua rituale colazione al bar, per il perfetto caffè di Gianni o per un cornetto da Lotti, rimpianto da cui affiora un problema attuale della tua vita pratica. Roba da niente, e te ne vergogni. Da giovedì scorso stai rinunciando al tuo amato espresso, il che è risibile al confronto dei sacrifici di tanta povera gente, di donne e uomini sull’orlo della fine, di tutti gli eroi che si affannano per la salute altrui. Di quegli anziani da cui ci stiamo congedando come se ciò fosse il male minore, mentre meriterebbero una chiesa piena, l’elogio funebre di una figlia o di un grande amico, per quel che di bello avevano costruito e ricostruito dell’Italia, per l’affetto che avevano donato ai loro cari.

Ti tornano alla memoria, quasi in fila, le persone che già sono andate e che per un motivo o per l’altro ti appartenevano. Da una ventina d’anni, più o meno come tutti, possiedi un cellulare da cui non sei mai riuscito a cancellare il numero e il nome di un tuo defunto. Né credi di distinguerti, con questa omissione, dalla varia umanità che conosci, perché nessuno di noi desidera archiviare un essere umano come fosse una pratica notarile. E così nella tua rubrica compaiono tutt’ora mamma, Mario, Jean, Marsha, Renato, papà, e tutti assieme coloro che non ti chiamano e non ti rispondono più.

È strano che la paura non ti abbia afferrato alle spalle, in questi giorni, benché il cuore e i polmoni non siano esattamente le medaglie più luccicanti del tuo organismo. Forse non ci stai pensando, forse il dolore di lasciare le persone che ti amano è un sentimento impensabile. E anche questo è uguale per tutti. Ti sembra che questo volteggiare a ogni costo sulla norma sia un genere di ambizione parecchio triste. Che il cinismo sia ormai un’attitudine consueta e conforme, quasi una pagliacciata.

Pensi che tutto ciò che di umoristico viene pubblicato in questo periodo, dovrà rafforzare, un bel giorno, una cultura e una società in cui le ore della serietà saranno distinte da quelle della ricreazione. E pensi malissimo di chi da anni urla, inveisce, insulta, specula, odia. E non li distingui da coloro che continuano a invitare questa gentaglia in televisione per alzare gli ascolti, pescando nei gusti di un pubblico di analfabeti emotivi. Lasci questi bassi ragionamenti sotto di te.

Il caffè ristretto è un’invenzione, di questo sei certo. Sono quasi le nove, e ti viene da immaginare quante Graphic novel leggerà Irene prima che venga sera. E ti domandi se finalmente visiterai il Giappone, se il progetto per Kyoto si realizzerà davvero e se il titolo Madre resisterà fino al cartellone. I prossimi dati dell’epidemia non saranno positivi ma il silenzio sta vincendo su tutto. Lo senti dentro il cuore. Cominci a scrivere e immagini che tra dieci anni bussano alla tua porta e che una bambina di nome Evgenía, figlia dei tuoi vicini Eirini e Gheorghios, ti chieda: «Mamma vorrebbe sapere se hai un libro di poesie di Ghiannis Ritsos tradotte in italiano». Le rispondi che non lo possiedi e la piccola ti dice che è un vero peccato, perché mamma stava facendo una torta e voleva rileggere una poesia intitolata Solo questo.

Per curiosità la vai a cercare in rete. La leggi. «È un uomo ostinato. A dispetto del tempo costruisce su un fiammifero una città con case, alberi, statue, piazze, con belle vetrine, con balconi, sedie, chitarre, con abitanti veri e vigili gentili». Richiudi un libro che non hai tra le mani. È ammirevole, pensi, essere ostinati.

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