Baldo Meo
A proposito di “Ora tocca all’imperfetto”

I tempi di Viviani

Il senso del sacro, il passaggio nella morte, il dolore, il mistero del mondo, il dio tanto più presente quanto più negato, il corpo, la distanza della natura sono i temi portanti della nuova raccolta poetica di Cesare Viviani

Ultimo capitolo di una opera complessa, prismatica e in continua evoluzione, Ora tocca all’imperfetto (Einaudi, pagg.118) costituisce una nuova tappa di un percorso poetico, quello di Cesare Viviani, caratterizzato dalla pazienza dell’indagine su ciò che all’uomo rimane inconoscibile e da una domanda continuamente riformulata. Un’esperienza poetica che nel corso del tempo è riuscita a coniugare in maniera esemplare naturalezza della scrittura e condensazione del pensiero.

Il libro dichiara fin dal titolo la volontà di misurarsi con la fragilità e l’incompiutezza della condizione umana, che il poeta accetta nella sua totalità, consapevole che ogni gesto, ogni minimo evento rimanda al tutto, significa il tutto. Consapevolezza che trova corrispondenza nella concezione unitaria del discorso poetico anche laddove la sua scrittura si muova per segmenti separati, per avvicinamenti successivi, per sfaccettature inaspettate, in un’architettura che va componendosi poesia dopo poesia e libro dopo libro. E non è un caso allora che, come sottolineato dalla critica, quelle che appaiono come parti in sé conchiuse siano in realtà un unico organismo, brani di un’unica composizione.

Anche in Ora tocca all’imperfetto quelle che all’inizio del libro possono presentarsi come poesie a sé stanti, frammenti, eventi afferrati nella loro inspiegabile essenza, via via che si procede nello svolgersi del libro trovano compimento in versi sempre più chiarificatori e, come le tessere di un mosaico, finiscono per comporsi in un più ampio significato.

È Viviani stesso a riferirsi all’opera musiva:

Lasciami in un mosaico dorato,
è solo fuori dalla natura,
in un’esecuzione artistica,
che posso sperare
in un tempo ulteriore.
È sulle lamine preziose e sugli smalti
che posso contare.

C’è quasi un’eco yeatsiana in questo affidarsi all’opera artistica come unica forma di superamento della finitezza dell’esistenza, la possibilità offerta all’essere umano di trovare un “tempo ulteriore”, l’unica risorsa per poter attingere la perfezione. Se l’imperfetto è la condizione umana, l’opera d’arte è la confutazione di questa imperfezione. L’arte come oggetto perenne di fronte all’uomo come soggetto a termine. Quell’arte che ne In una comunità degli animi (1997) Viviani aveva definito “impronunciabile condizione”.

La poesia si misura, in un confronto costante, con il tempo (meglio: la compresenza dei tempi), la dimensione che governa la nostra esistenza, della quale occorre però liberarsi per potere accedere ad altre visioni: quel “conoscere una cosa sola”, che per Viviani costituisce la “grazia tanto cercata”, “il paradiso della speranza”. La via non è quella dell’argomentazione, ma dell’intuizione, sigillata nell’aforisma bruciante (“Perché è oscuro il valore di tutto”) o nel koan enigmatico (“Osservare il colore di petali/o ascoltare notti e di violenza? / Non c’è alcuna differenza).

Sono le epifanie di una conoscenza fuori dalla ragione, fatta di devozione, pazienza, raccoglimento, in cui “la mente diventa/ una conca/ che tutto accoglie”.

Ed è nella contemplazione che il poeta trova la piena accoglienza della vita:

Tra tanto andare e venire
fermati a contemplare,
è un semplice rito,
ma non cambiare nulla,
nemmeno un particolare
– il rito ha la sua precisione –
se non vuoi perdere dentro di te
la vita.

C’è in questi versi il rispetto per “le cose come sono” che proviene dalla tradizione buddista.

La poesia è da tempo in Viviani meditazione sull’esistenza e ricerca di una chiave che possa salvarci dall’aver smarrito il senso dell’esperienza umana.

In Ora tocca all’imperfetto tornano i temi di libri precedenti, due fra tutti: L’opera lasciata sola (1993) e Silenzio dell’universo (2000): il senso del sacro, il passaggio nella morte, il dolore, il mistero del mondo, il dio tanto più presente quanto più negato, il corpo, la distanza della natura. E vi è la riflessione sulla finitudine, “il leggero e rapido transito” nel quale scorre l’umano, che avevamo trovato in Passanti (2002).

La scrittura di Viviani si muove, con una dizione semplice e scarna, tra cesure e spezzettamenti, affermazioni e negazioni, in versi dove l’io è scomparso e rimane una voce che parla al di fuori del mondo, in una continua oscillazione tra tempi e mondi e segni opposti (luce e buio, vita e morte, amore e rinuncia) cui dà figura il cancelletto che “gira sui cardini” spinto dal vento.

Nel personalissimo pilgrim’s progress di Viviani, nel suo perseverante cammino verso la comprensione finale di ciò che rimane oscuro o indicibile si intravedono però barlumi: “dietro ogni cosa che vediamo/ ce ne sta una invisibile/che la sostiene”.  E’ “il segreto che tutti sanno”, una possibile chiave.

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