Roberto Verrastro
A proposito di “After Isis”

Il puzzle Iraq

Seth Frantzman, commentatore del Jerusalem Post, analizza la situazione in Medioriente dopo la sconfitta dell'Isis. E conclude che la chiave di volta della crisi è nel destino del curdi e della loro terra

La guerra all’Isis è finita senza una chiara vittoria, ma l’Iran ne è uscito rafforzato, osserva Seth Frantzman, analista della politica mediorientale per il Jerusalem Post, nella prefazione del suo volume After Isis, “Dopo l’Isis. L’America, l’Iran e la battaglia per il Medio Oriente” (Gefen Publishing House, 386 pag., 17,97 euro, ebook 8,97 euro). Quanto è accaduto nella guerra allo Stato islamico dell’Iraq e della Siria proclamato il 29 giugno 2014, ha riguardato anche le aspirazioni dei curdi, sfociate nel 2017, al termine dell’attacco all’Isis in Iraq, in un referendum sulla loro indipendenza. E Frantzman rievoca opportunamente il detto che «i curdi non hanno amici se non le montagne». Il 26 settembre 2017, il giorno dopo il referendum, i curdi apparivano uniti: il 93 per cento dei 4,5 milioni di elettori si era espresso a favore dell’indipendenza. Ma l’Iran si era infiltrato in Iraq usando partiti suoi alleati, come aveva usato Hezbollah in Libano. E quel 26 settembre, al primo ministro iracheno Haider al-Abadi giunse la richiesta del parlamento di inviare l’esercito a Kirkuk, provincia dell’Iraq settentrionale detenuta dal 2014 dai peshmerga curdi, guerriglieri il cui nome significa «coloro che affrontano la morte».

A Kirkuk c’era più di un motivo per affrontarla: nove miliardi di barili di petrolio nel sottosuolo, il quattro per cento delle riserve mondiali. E il ruolo decisivo in quella contesa fu svolto dal generale iraniano Qasem Soleimani, ucciso lo scorso 3 gennaio da un attacco missilistico statunitense che ha centrato la sua auto all’aeroporto di Baghdad. «Sfruttando il loro potere sul ministero dell’Interno a Baghdad, l’Iran e Qasem Soleimani erano stati in grado di progettare una specie di colpo di Stato a Kirkuk: un accordo segreto per fare uscire i peshmerga, senza quasi alcuno spargimento di sangue», scrive Frantzman. L’organizzazione Badr di Hadi al-Amiri, che aveva servito al fianco degli iraniani nella guerra contro l’Iraq degli anni Ottanta, era diventata infatti un baluardo contro l’Isis in Iraq, prendendo le redini del ministero dell’Interno e facendo della polizia un’efficace unità di combattimento, che si sommava ai 100mila uomini delle Forze di mobilitazione popolare, per lo più sciiti dell’Iraq meridionale che, nel novembre del 2016, divennero un’istituzione paramilitare irachena ufficiale, diretta da leader come Abu Mahdi al-Muhandis, eliminato anch’egli a gennaio nello stesso attentato a Qasem Soleimani.

Nell’autunno del 2017, Donald Trump e il segretario di Stato allora in carica, Rex Tillerson, che aveva esperienza come petroliere nella regione curda, pensavano ancora di poter allontanare Baghdad dall’Iran in direzione di legami più stretti con l’Arabia Saudita, che aveva snobbato l’amministrazione di Barack Obama, impegnata nell’accordo sul nucleare iraniano, ma aveva riposto le sue speranze nell’era Trump, considerando inoltre Israele sempre più come un alleato per via della crescente potenza iraniana, che è stata un risultato dell’Isis. Il partito Ba’ath di Saddam Hussein era stato guidato da arabi sunniti, emarginati a favore dei curdi e degli sciiti in seguito all’invasione statunitense del 2003. L’Isis era emerso dalle prigioni statunitensi in Iraq, arruolando ex militanti baathisti e volontari stranieri, e sfruttando la Siria in preda alla guerra civile come base per consolidarsi:«Il caos in Siria ha contribuito a nutrire l’Isis, permettendogli di raccogliere le forze per l’invasione dell’Iraq». E il regime sciita di Teheran è stato uno dei principali beneficiari del caos lasciato in Iraq dagli estremisti sunniti.

«È un secolo da Sykes-Picot. Il problema dell’Iraq è che è stato messo insieme senza input curdo e imposto al popolo curdo», ha dichiarato a Frantzman l’esponente del Partito democratico del Kurdistan Kemal Kirkuki, nato nel 1954 e peshmerga dall’età di 14 anni, che fu imprigionato ai tempi di Saddam Hussein. Kirkuki si riferisce al britannico Mark Sykes e al francese François Georges Picot, negoziatori dell’omonimo accordo del 1916 che, al termine della prima guerra mondiale, ispirò le potenze coloniali europee nella divisione dell’Impero ottomano sconfitto, avvenuta disegnando con il righello Stati privi di confini naturali e ignorando l’aspirazione dei curdi all’indipendenza. Ancora oggi quell’accordo è la fonte primaria ma dimenticata dell’instabilità mediorientale. La soluzione per Kirkuki è la divisione dell’Iraq in tre Paesi (Kurdistan, Sunnistan e Shiastan), perché un Iraq unito è sempre un pericolo per le minoranze. E nel 2014 pochi avevano capito che l’Isis significava per queste ultime la pulizia etnica, com’è accaduto ai curdi yazidi di Sinjar, nell’Iraq settentrionale, nei cui campi di sterminio «i capelli spuntano attraverso l’erba che è cresciuta sui corpi e non ci sono investigatori internazionali», nota Frantzman.

In Iraq, il regime iraniano stava cercando di formare il nuovo governo dopo le elezioni del maggio 2018, che avevano visto la lista Fatah di Hadi al-Amiri arrivare al secondo posto, dietro la coalizione guidata dallo sciita Muqtada al-Sadr. Il 16 agosto 2018, il nuovo segretario di Stato americano, Mike Pompeo, annunciò la creazione dell’Iran Action Group, per coordinare la pressione degli Stati Uniti su Teheran. Nell’ultimo dei 27 capitoli del saggio (Una via d’uscita), Frantzman ipotizza ora alcuni scenari. A partire da quello di un «Isis 2.0», che potrebbe riemergere in Iraq e in Siria, utilizzando in Iraq le reti ancora esistenti per svolgere una campagna di attacchi attraverso le aree sunnite e sfidare così le forze di sicurezza irachene, mentre in Siria decine di migliaia di sostenitori dell’Isis, fuggiti da Baghuz dopo la sconfitta del marzo 2019, attiverebbero cellule dormienti in vista di un’insurrezione. Un altro scenario coinvolge gli Stati Uniti, incoraggiati a confrontarsi con l’Iran dai loro alleati chiave: Israele, Arabia Saudita, Egitto, Yemen, Oman, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Giordania e Kuwait.

Gli Stati Uniti sono di fronte a tre opzioni: colpire le strutture militari iraniane in Siria, effettuare attacchi chirurgici contro i gruppi filoiraniani in Iraq o avviare una guerra più ampia all’Iran, che implicherebbe la richiesta di Israele di smantellare il partito-milizia sciita Hezbollah nel confinante Libano, sfidando il timore degli stessi Stati Uniti che un indebolimento dello Stato libanese possa portare nuovo caos nella regione. Per Israele si tratta di un’inversione di tendenza rispetto agli anni di Barack Obama, quando dovette affrontare da solo le minacce iraniane, specialmente il tentativo di Teheran di trasferire missili a Hezbollah. Frantzman non esclude tuttavia un’ulteriore primavera araba che, innescata dalle rivolte in Sudan e in Algeria del 2019, pretenda anche altrove una riduzione dell’autoritarismo, finendo con il mettere sotto pressione i partiti filoiraniani in Iraq, potenziale anticamera di analoghe proteste contro il regime iraniano.

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