Arturo Belluardo
Cronache dall'Italia sospesa

Diario dell’untore

«Si respira un’aria strana, stiamo tutti lontani uno dall’altro, non ci baciamo, non ci abbracciamo, non ci diamo la mano, la puzza di disinfettante è rivoltante, faccio di tutto per non tossire»

Immagini di Roberto Cavallini

Mia madre ha deciso di farmi morire.
Di diabete o di tumore al pancreas. Secondo lei, sono andato a Vienna per farmi operare e farmelo togliere del tutto.
Mia madre ha novant’anni e sette mesi e vive in un appartamento in affitto di fronte a quello di mia sorella a Padova.
Mia madre mi telefonava più o meno sei volte al giorno, subito dopo essersi svegliata al mattino e al pomeriggio, per chiedere della mia salute. E poi telefonava a Corinna per sapere se ero vivo. E a mia sorella, in ufficio, per dirle che ero morto.
Per questo, il ventotto febbraio, decido di andarla a trovare a Padova, nonostante la prossimità della zona rossa di Vò. Ho avuto molte perplessità, molti dubbi fino all’ultimo.
La stazione di Padova è lucida e deserta, l’atrio puzza forte di disinfettante: io devo avere sviluppato una specie di allergia, perché l’odore di Amuchina mi mozza il respiro e mi fa tossire. E tutti si allontanano guardandomi storto.
L’atmosfera è lunare, non ci sono homeless a dormire nei cartoni, non ci sono neri ubriachi a pisciare contro i muri, non ci sono i gruppetti di Sentinelle del Mattino a pregare sotto i portici alla luce delle candele.
Mia sorella e mio cognato sono abbastanza tranquilli, sono preoccupati per i ragazzi costretti a stare a casa, hanno appena chiuso le scuole, mio nipote non riesce a capire se le lezioni individuali al Conservatorio di Castelfranco continueranno o no. La sera i ragazzi vanno comunque a una festa.

Primo marzo, domenica. Torno a Roma, il treno è mezzo vuoto e ci sono signore barzotte con la mascherina.

Tre marzo, martedì. Porto la mia amica pittrice, Yasmine Elgamal, a vedere il teatro di Sant’Ignazio di Loyola alla Chiesa del Gesù: alle 17.30 in punto ogni giorno, tra musica barocca e preghiere del santo recitate da un nastro registrato, un meccanismo settecentesco fa scomparire una tela dalla Cappella del Santo e fa apparire la statua del fondatore dei Gesuiti in un tripudio di luci e in uno sterminio di pietre preziose. Nell’attesa, sulle panche della chiesa, ammiriamo i vertiginosi affreschi del Baciccio, transfuga a Roma per la pestilenza di Genova, e concordiamo sull’opera fondamentale fatta dai Gesuiti per preservare l’arte e gli artisti, offrendo loro commissioni: riconoscevano che la creatività è ciò che rende l’uomo immagine e somiglianza di Dio. Dietro di noi, due ragazzi si tengono per mano e pregano in una lingua sconosciuta. Indossano la mascherina.

Quattro marzo, mercoledì. Ricevo un Whatsapp dalla mia amica T. Nel fine settimana dovremmo seguire qui a Roma, all’Esquilino, una full immersion di scrittura autobiografica sull’amore. Vorrebbe essere sicura che la full si tenga, visto che le scuole sono state chiuse, ed è preoccupata per il rischio di contagio. Deve venire dalla Campania, andare a casa dei figli, che abitano qui. Segue un fitto scambio di messaggi, full immersion confermata, siamo solo quattro persone e si rispetterà il metro di distanza, la sala verrà accuratamente sanificata.
Mia figlia è furente per la chiusura della scuola, quest’anno ha la maturità e mi chiede il permesso di poter andare comunque a festeggiare i cento giorni a Lavinio, il fine settimana del quindici. Le dico che può andare.

Cinque marzo, giovedì. Alle otto di mattina, mia madre mi telefona chiedendomi perché continui ad andare a lavorare, visto che ho un tumore al pancreas. Stavolta mi incazzo. Ricevo nuovi messaggi da T., non sa se venire o meno, “la situazione è grave. Non è un’influenza e si ammalano persone di tutte le età” mi scrive “non voglio trasmetterti ansia”. Io le rispondo così “Cara T., non mi trasmetti ansia, non ti preoccupare. Né sottovaluto le tue paure, ma già due volte mi sono beccato malattie infettive serie, fuor di presunte epidemie, e una volta ho rischiato pure di morire. Dopo il melanoma dell’anno scorso, ho deciso di prendere la vita come viene, tanto ogni giorno può essere l’ultimo e questa consapevolezza mi rende leggero e a volte felice”.
T. decide di venire alla full immersion.
Nel pomeriggio vengo aggiunto a un gruppo Whatsapp, Sabato cenetta da me!: chiedo di poter portare la mia amica T. L., la padrona di casa, mi risponde che va bene.

Sei marzo, venerdì. Alle otto meno dieci di mattina, mia madre mi telefona. Non rispondo.
Alle nove meno un quarto, mi telefona L. chiedendomi se mi sembra il caso di portare a casa sua una che viene da una città dove ci sono già tre casi di coronavirus. Le spiego con calma che non mi va di lasciare sola T. e che quindi non andrò alla cena. L. mi replica: “Ma io ci tengo troppo che tu venga, portala pure. Speriamo che lei non ne abbia voglia e resti a casa con i suoi figli”.
Alle 13.26 sul gruppo Whatsapp Sabato cenetta da me! un comune amico scrive: “Arturo perdonami, ma nella città di T. ci sono tre casi. Già trovo abbastanza singolare che si faccia la full immersion e che non sia stata rimandata, ma addirittura portare questa amica mi pare un pelo avventato, non credi?”.
Abbandono la chat.
Alla full immersion si respira un’aria strana, stiamo tutti lontani uno dall’altro, non ci baciamo, non ci abbracciamo, non ci diamo la mano, la puzza di disinfettante è rivoltante, faccio di tutto per non tossire. Parliamo, leggiamo e scriviamo d’amore nel gelo asettico dell’Esquilino.
La sera, andiamo con T. a cena da “Morgana”: il locale è abbastanza pieno, ma mancano diversi piatti dal menu. “Li abbiamo dovuti contingentare” ci spiegano.

Sette marzo, sabato. A Piazza Vittorio i negozi dei cinesi sono tutti chiusi per ferie. “Sono tornati in Cina” ci raccontano “non si fidano di come gli italiani gestiranno l’emergenza virus”. T. è sempre più preoccupata, nonostante la full immersion le piaccia molto: “Hanno trovato Zingaretti positivo al coronavirus!”.
Sento mia figlia, è spaventata, quindici giorni fa ha dato la mano al presidente della Regione durante un incontro con gli studenti. Poi il suo compagno di classe Filippo chiama in Regione e gli dicono di stare tranquilli.
Io e T. andiamo a pranzo da Roscioli, T. mi fa notare che gli inservienti non indossano né i guanti di plastica né le mascherine. In giro per Piazza Vittorio ci sono solo pochi africani ubriachi. Uno piscia platealmente sulla recinzione dei giardinetti.
T. mi comunica che la sera resterà a casa, ad aspettare il figlio di ritorno dalla settimana bianca. Penso alle discussioni in chat con i miei amici e sospiro.
Finita la full immersion, raggiungo Corinna a Monti per vedere la splendida mostra di due amici, Re Barbus e Alessandro Arrigo. Alessandro, un uomo grande e mite, è sconcertato: la sera prima, al vernissage, ha ricevuto insulti a raffica perché ha deciso di inaugurare la mostra nonostante l’emergenza virus. Li salutiamo baciandoli e abbracciandoli.

Otto marzo, domenica. T. mi manda un Whatsapp, non verrà alla full immersion, il figlio è tornato con qualche linea di febbre dalla montagna e lei preferisce rimanere con lui.
Re Barbus e Alessandro Arrigo decidono di smantellare la mostra.
La Lombardia è stata dichiarata zona rossa e con essa la provincia di Padova. Con mia sorella ci scambiamo laconici messaggi. Mia madre non chiama e io non la chiamo.
Dico a mia figlia che non è il caso di andare ai cento giorni a Lavinio con i suoi compagni di classe. Lei è molto delusa, cerca ragguagli su internet e trova l’ordinanza della Regione Lazio con cui si decreta che chiunque sia stato nelle zone rosse dal primo marzo in poi deve comunicarlo al numero verde della Regione e mettersi in quarantena per quindici giorni. “Quindi anche tu, papà”.
Provo a chiamare il numero verde più volte senza esito. Alla fine mi decido a contattare il mio medico curante sul cellulare, nonostante sia domenica. Mi dice che anche se riuscissi a parlare con la Regione non servirebbe a niente, che i tamponi li riservano a chi presenta sintomi, io non ho nemmeno il raffreddore. E che comunque devo stare a casa per una settimana, finché non sono passati i quattordici giorni di quarantena, anche se una settimana l’ho passata già in giro, che mi farà lui l’indomani mattina il certificato.
Avviso subito il mio team leader, che mi dice di non preoccuparmi.

Nove marzo, lunedì. Chiamo in ufficio, mi raccontano che a Lodi è morto un nostro collega di cinquantacinque anni per complicanze cardiache. Io ne ho cinquantotto.
Da noi, è scoppiato il delirio, la signora che fa le pulizie non ha voluto toccare la mia scrivania. Replico che io sto benissimo, ma non so se mi credono.
Mia madre chiama Corinna, dice che ci deve fare un bonifico di mille euro, visto che siamo diventati poveri perché a causa della mia malattia ho perso il lavoro.
Yasmine, la mia amica pittrice, ha deciso di lasciare lo studio alla Magliana. Vive a Ostia con la madre e non si sente di esporla a rischi di contagio facendo su e giù con i treni e gli autobus. Ha fatto scorta di colori e tele prima che martedì chiudano i negozi, dipingerà a casa.
Quando è salita, carica di tele, sull’autobus che porta dalla Magliana al trenino per Ostia, è rimasta colpita dalla somiglianza dell’autista con Tim Roth. Si è seduta accanto a un’altra ragazza e si sono messe a fare a gara a chi attirava per prima l’attenzione del conducente. Quando è scesa al capolinea, Tim Roth le ha sorriso e le ha detto “Ciao”.
“Quanno se tratta de fa’ la zoccoletta, nun me batte nessuno” ride Yasmine.

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