Nicola Fano
Una nuova serie di Succedeoggi

Cucina in quarantena

Cucinare pensando (e pensare cucinando). Succedeoggi lancia una nuova iniziativa: ricette che uniscano i sensi al cervello. Per esempio, mai mettere insieme Remarque con Paolo Veronese...

Nella mia casa mi sono ritagliato un percorso da 130 passi. Se allargo le curve intorno alle sedie e al divano, arrivo anche a centocinquanta, ma ci vuole molta concentrazione. Per fare i miei ottomila passi quotidiani devo fare più di cinquanta giri: da ragazzino il gioco che mi piaceva di più, d’estate, era costruire piste di sabbia per le palline di plastica, ma difficilmente facevamo più di dieci/venti giri. Ci saremmo annoiati a morte. In questi giorni mi sembro una mosca che sbatte in un bicchiere. Ma, d’altro canto, non posso nemmeno fermarmi: la bilancia ormai mi lancia segnali oltre ogni livello d’allarme. Camminare, pensare, cucinare e mangiare sono le uniche attività consentite a me come a tutti noi accerchiati da un nemico invisibile che ci sta uccidendo l’intera generazione degli ultimi padri.

È con questa convinzione che Succedeoggi cerca di affrontare l’emergenza: camminare e mangiare in Rete non si può; ma si può pensare e cucinare. Ed ecco perché da oggi il nostro webmagazine pubblicherà alcune – come chiamarle? – ricette che occupino la testa e i fornelli. Perciò abbiamo chiesto ai nostri collaboratori di dare suggerimenti culinari che possano collegare il cervello e i sensi, e che possano essere compatibili con le oggettive difficoltà di approvvigionamento di queste settimane. Le immagini, ogni volta, saranno e sono di Roberto Cavallini; e ne vedrete delle belle!

In quanto tirafili di Succedeoggi, non voglio esimermi da questo compito sicché, per trarmi d’impaccio, mi rifarò alla prima e all’ultima (fin qui) cena che ho cucinato. Mi accompagneranno due miei personali Artusi: Erich Maria Remarque e Paolo Caliari (detto il Veronese). Due cene facili e plausibili in questo tempo strano.

Chi ha letto Niente di nuovo sul fronte occidentale sa che, insieme a Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, è uno dei libri più belli e potenti scritti sulla Prima Guerra mondiale. Vi si racconta di un gruppo di diciottenni tedeschi un po’ idealisti, un po’ vanitosi, un po’ intellettuali che, aderendo al monito di un loro professore che prospetta un radioso futuro agli eroici germanici, vanno volontari in guerra. Il libro, in realtà, è la lunga, costante, terribile sconfessione delle pretese di quel professore; nonché una cronaca dettagliata e quasi impudica nella sua crudezza, della inutilità della guerra, di come essa distrugga la mente di chi le sopravvive nel corpo.

Ebbene, fra le tante magnifiche pagine di questo libro ce n’è una in cui i commilitoni, usciti da una spaventosa avventura di trincea, si lappano una gavetta riempita d’un pastone composto da legumi in barattolo rintracciati in un magazzino abbandonato dal nemico e saccheggiato dai nostri sulla via del rientro dalla battaglia. Voi direte: che schifo di pranzo! E invece no. Remarque sottolinea con maestria la passione e la goduria con la quale i soldati tornano alla vita mangiando, anzi apprezzando in quella condizione disperata ciò che altrimenti sarebbe parso indigesto. Mangiare – dice Remarque – diventa un modo per distogliere lo sguardo dall’orrore e dalla fatica di vivere.

Quando ho letto questa pagina, non ho potuto fare a meno di ripensare al primo pranzo che preparai nella mia vita: avrò avuto quindici, forse sedici anni e, attendato con tre amici di fronte a Le Castella (luogo magnifico dove da poco Mario Monicelli aveva girato il finale dell’Armata Brancaleone) in una assurda giornata estiva di pioggia riversai in una ciotola piselli, fagioli borlotti, fagioli cannellini, lenticchie e ceci in scatola, condendo il tutto con olio e non rammento più quale inutile spezia. Fu una meraviglia per il palato consumare quella schifezza inumiditi in una tenda che, per quanta pioggia dovette prendere in quei giorni di fine giugno, si restrinse strappando le chiusure lampo dell’apertura e, di fatto, costringendoci a rientrare a casa prima del previsto. È da lì che prese avvio la mia malriposta fama di onesto cuoco. Mangiare per dissimulare, appunto.

Ma, per riabilitarmi come cuoco, chiamo in causa Paolo Caliari. Se non siete mai stati al Louvre, corridoio degli italiani, non sapete quale sia la genialità dello storico curatore del museo che in una enorme sala ha sistemato da un canto la Gioconda e di fronte Le nozze di Cana. La Gioconda, oltre a essere un’opera iconica e forse per questo un po’ sopravvalutata, è un oggettino piccolo piccolo sistemato su un altarino davanti al quale si affannano torme di turisti con gli occhi sui propri telefonini flashanti. Basterebbe loro girare le spalle a Leonardo (e molti lo fanno, ma solo per inquadrarsi in un selfie, quindi senza guardare davanti) e vedere uno dei maggiori capolavori della pittura di sempre. Le nozze di Cana (1563, circa sette metri per dieci) è una meraviglia di finzioni: il misero banchetto al quale Cristo garantì adeguata dose di vino traendolo miracolosamente dall’acqua, è trasformato in una sontuosa baraonda di uomini, donne e animali vari affaccendati chi a mangiare chi a suonare, chi a sognare, chi a servire. Un tripudio di ricchezza sia scenografia sia di costumi: puro teatro, insomma. Rappresentazione metaforica, ovviamente. Al centro della enorme tela siede amareggiato Gesù Cristo, presago del suo destino, probabilmente: lo testimonia un servo, giusto sopra di lui, oltre una balaustra, che taglia con vigore un pezzo di carne di agnello. E che sia carne d’agnello è assolutamente certo perché ancora più in alto, sulla destra, due servi conducono al macellaio, su un grande vassoio, proprio un agnello morto pronto da preparare. Insomma, quell’animale sul punto di essere cucinato, per il Veronese è il cuore dell’opera, ciò che trasforma questa festa pagana in un’Ultima Cena divina. Sia pure in modo moderatamente blasfemo: per questo, al suo esordio nel refettorio del convento sull’Isola di San Giorgio, a Venezia, il dipinto suscitò qualche polemica. Ma se la cavò in nome della sua obiettiva meraviglia.

Insomma, se non siete andati al Louvre, andateci ora grazie al sito del museo (https://www.louvre.fr/oeuvre-notices/les-noces-de-cana) e controllate. Dopo di che, in onore di Paolo Caliari e dell’identità italiana, potrete sempre preparavi una piccola porzione di agnello. I francesi lo cucinano anche al pomodoro (gigot d’agneau si chiama la ricetta), ma io lo preferisco fritto. A patto di aver delle costolette non troppo grasse da impanare dopo averle tenute a bagno nel limone per qualche ora. Se poi alla panatura, oltre a pane grattugiato unirete dell’origano, il sapore della carne ne uscirà ulteriormente esaltato. Unica accortezza, non accompagnatelo con la sbobba di legumi descritta in precedenza, altrimenti per la digestione non basteranno nemmeno cinquanta giri da 150 passi.

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Immagini di Roberto Cavallini

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