Alberto Fraccacreta
Cronache dall'Italia sospesa

Ci salverà la lingua

«I problemi linguistici sono gli ultimi e più infimi problemi di questi giorni. Non si combatte un virus con la lingua, ma con il coraggio dei medici. Eppure, in un certo modo — un modo del tutto imperscrutabile — la lingua può salvarci»

Immagini di Roberto Cavallini

Sulla scrivania ci sono Paolina Leopardi (lettere), Proust e McCarthy. Riguardo agli ultimi due, probabilmente non si possono mettere insieme autori così lontani: la sinuosa dolcezza e l’eleganza di Marcel, il ruvido stile siliceo, al feldspato di Cormac. Infatti, al secondo non piace per nulla il primo, lo reputa un autore «inutile» (sta decisamente esagerando!).

Paolina mi guarda con il suo aspetto osseo, il labbro superiore assente. Cosa cerchi, Paolina? Sei sempre sul punto di dire qualcosa, una mezzafrase, un borbottio… Forse venerava il fratello (come Marianna Montale venerava il suo “Genio”). Giacomo scrisse un’ode per le sue nozze, ma lei non si sposò più (era promessa a un tipo di Sant’Angelo in Vado, nel contado di Urbino). Restò sola, tradusse dal francese. Tradusse anche la biografia di Mozart. Era una dama cortesissima.

Urbino è completamente sola, ne sono certo. Ho visto le foto di alcuni militari in piazza, e sembra stia tornando — come spesso accade nei frangenti d’emergenza — la potenza rivelatoria di una poesia. Vittorio Sereni, Soldati a Urbino, in Frontiera (1941). Dalla lirica si capisce per altro benissimo dove transitò il poeta luinese: «Queste torri alte sulla memoria/ nell’ora dolce dei bastioni […] mentre al vento oscillano le lampade/ bisbiglia un portico in ombra». Ebbene non ci si può sbagliare: l’incontro, il punto di confluenza tra via Matteotti e corso Garibaldi. Lì si vedono i torricini alti sulla memoria, il bastione di Santa Caterina, le lampade oscillanti del teatro, il portico bisbigliante di — appunto — corso Garibaldi. Straordinaria, la precisione di un poeta! Eppure adesso chi guarda quelle cose se non la poesia? Nessuno cammina, nessuno svolta da via Saffi verso i bastioni. Nessuno sta guardando la testa spelacchiata della Cesana. Nessuno risale la strada acciottolata tra i bastioni. Nessuno osserva la mobilità immobile del Mausoleo dei Duchi incastonato nel paesaggio. Se nessuno osserva, qualcosa esiste?

Nella brulla campagna di San Severo, città matria alla quale sono tornato da Urbino nel solco dell’emergenza, le gazze sono furbissime. Rubano il pasto ai gatti, che restano imbambolati sul selciato. Il pastore abruzzese sonnecchia. Le tortore sono sempre in allarme. Gli olivi hanno uno sguardo indulgente, dimesso. Forte odore di terra fragrante. La primavera vuole scoppiare, lo leggo dall’inturgidirsi del cachi. Leggo anche (ma non nel libro della natura) queste parole: «rosticcio», «crescione», «pervinca». Non le vedo in campagna, ma le sento. Anche se non le osservo con esattezza, mi pare che queste parole esistano.

I problemi linguistici sono gli ultimi e più infimi problemi di questi giorni. Non si combatte un virus con la lingua, ma con il coraggio dei medici e degli infermieri e con il sacrifico delle istituzioni e dei cittadini. Con la solidarietà, il lavoro, il rispetto delle regole, l’amore per il prossimo. Eppure, in un certo modo — un modo del tutto imperscrutabile — la lingua può salvarci. Almeno accompagnarci. Pensiamo a Cino da Pistoia (alias Guittoncino): la sua Selvaggia dei Vergiolesi, in fuga dai guelfi nel castello di Sambuca Pistoiese, morì prima di lui. E dove la cercò Cino? Era invisibile ormai. Meglio cercarla nel mondo assonante, meglio cercarla nella lingua: l’«ellera selvaggia». («Muterei in uccello, che ogni giorno/ canterebbe sull’ellera selvaggia»; oppure: «Muterei in uccello, che ogni giorno/ canterebbe sull’ellera Selvaggia»: meravigliosa ambiguità della sintassi!) Certo, un’amata-aggettivo non è la stessa cosa, ma c’è una speranza. Inserire la propria donna in un sintagma vuol dire rimpiangere, ricordare, riportare al cuore. Sei nell’edera. Sei una proprietà, una qualificazione dell’edera. Istituito il parallelismo, viene giù il ponte levatoio sulla realtà esterna.

Siamo in quarantena ma la lingua circola indisturbata. È impossibile mettere in quarantena una lingua. Può persino risorgere dalle sue ceneri come l’araba fenice. Ma la quarantena no. Il latino è un idioma che, volens nolens, circola ancora. Le parole sono sempre alle nostre calcagna. Ci seguono, ci toccano, ci scrutano dentro, da dentro, ne siamo preda. Ogni frazione d’istante pensiamo a una parola o a tante messe insieme. La lingua è un’amica fidatissima a cui vogliamo bene o con la quale bisticciamo perché non dice esattamente la verità. Ma forse tutto questo è troppo poco: noi siamo linguaggio, è una delle armi della nostra salvezza (non la più importante, una soltanto). Fa sì che, nonostante le difficoltà, anche da casa, in solitudine, con un foglio in mano e nient’altro, possiamo comunicare. Per cui restiamo a casa: leggiamo, scriviamo, ascoltiamo la lingua.

Sempre per tornare ai poeti del Due-Trecento: Cavalcanti rivolge il pensiero a Mandetta («accordellata istretta»), mentre incontra due «foresette». Alla fine dello scambio di battute, il poeta ingiunge alla «ballatetta», cioè alla stessa ballata scritta da lui, quasi fosse una persona, di andare alla Daurade di Tolosa, affinché possa incontrare la sua donna. «Vanne a Tolosa, ballatetta mia,/ ed entra quetamente a la Dorata,/ ed ivi chiama che per cortesia…».

Quanto sarebbe utile oggi una «ballatetta»! Ci vorrebbe, tra gli altri, l’hashtag: #inviamounaballatetta. Perché, meglio e con più vigore di Skype o di Google Meet, vada dalle persone che amiamo, da chi non possiamo incontrare, da chi non abbiamo mai incontrato. E allora, forza, corri ballatetta! Leggera e piana, va’!

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