Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

Chiamatelo panico

Supermarket presi d'assalto, centralini dei pronto soccorso intasati, medici che si proteggono con le buste dalla spazzatura: imbrogliati da Trump, gli americani non sanno come affrontare la pandemia

Alla domanda del giornalista della CNN Anderson Cooper se si possa prevedere nel paese l’andamento del coronavirus, il dott. Anthony Faucci immunologo e direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) che in questi giorni ha spesso contraddetto il presidente Trump, ha risposto: «You don’t make the timeline, the virus makes the timeline», chiarendo una volta per tutte che è impossibile prevedere la tempistica e le oscillazioni di questa malattia. Ormai negli Stati Uniti conta già 65.000 contagiati e 900 morti. Lo Stato di New York, al momento il più colpito, solo mercoledì ha avuto un picco di 30.000 persone positive al tampone, mentre la California che conta 2.500 contagiati e 53 deceduti e che si aspettava di vedere raddoppiati i casi circa ogni 6 giorni, invece ha oggi dichiarato, per bocca del suo governatore, che raggiunge questo picco invece ogni 3 o 4.

La situazione è molto seria ed è destinata a peggiorare. Gli americani che in questi ultimi venti anni hanno dovuto affrontare il trauma delle Torri gemelle, la crisi del 2008 assieme alle molte guerre che hanno combattuto nel mondo, all’inizio hanno forse sottovalutato questo strisciante nemico invisibile e apparentemente non eclatante. Anche a causa delle affermazioni di Trump che, con il suo comportamento superficiale, tronfio e poco rassicurante, ha contribuito a far sentire gli americani da soli a dover affrontare un nemico di cui ancora non comprendono appieno la portata e l’aggressività. Adesso si trovano in un’emergenza senza precedenti che certo non è gestita bene ai vertici, eccetto dal dott. Faucci che giornalmente redige e comunica il suo bollettino senza fare sconti, con calma e professionalità, mettendo in guardia contro la pericolosità di questo virus. Una vera situazione di guerra, soprattutto per medici e infermieri che oltre a orari infernali, in alcuni ospedali di New York, come abbiamo visto alla CNN, sono costretti a coprirsi con i sacchetti della spazzatura per proteggersi dal virus.

Un senso di sconcerto sembra aggredire gli americani in generale, ottimisti, sempre pronti a ricominciare e a fare tesoro delle esperienze anche quelle più traumatiche come l’11 settembre. Adesso però e diverso. Lisa Daniel insegnante di matematica in pensione a Chicago fa un paragone interessante: «L’11 settembre ha cambiato il nostro paese per sempre, ma questa pandemia cambierà il mondo per sempre. Il nostro modo di vivere, di consumare in eccesso, la nostra dipendenza in molti prodotti manifatturieri dalla Cina ci costringerà a compiere dei cambiamenti epocali nei nostri comportamenti che neanche l’11 settembre era riuscito a modificare. È paradossale, ma mi viene da dire che forse sarà questo virus, e non certo Trump, a fare grande l’America di nuovo se sapremo modificare il nostro modo di produzione e cosa produrre. Dopo quell’evento traumatico eravamo determinati a lottare contro un nemico che conoscevamo che ci aveva colto di sorpresa e aggredito. Qui lottiamo contro un nemico invisibile. C’è grande incertezza sulla sua durata e perfino su un suo possibile ritorno; non si riesce a comprendere cosa lo uccida o lo danneggi veramente. È assolutamente necessario trovare un vaccino. Tutto ciò crea in molti, e anche in me, un senso di ansia, di paura, di sconcerto e anche di panico per qualcosa che non si conosce. Inoltre non essendoci nessun criterio standard per tutto il paese, alcuni stati hanno messo in atto procedure di chiusura totale, mentre altri ancora no. Il che crea una pericolosa promiscuità che certo non aiuta a sconfiggere il virus».

Nessuno si sente sicuro e si è creata una psicologia della paura che mai come prima porta ad un’isteria collettiva: si manifesta con gli assalti ai supermercati in cerca, oltreché di beni di prima necessità, di mascherine e di guanti, con chiamate terrorizzate ai centralini dei pronto soccorso e con comportamenti di ostilità e di risentimento nei confronti degli altri, contribuendo a rinforzare la paura e amplificando un ciclo che si alimenta da solo. Il circo mediatico inoltre con la disponibilità continua di informazioni tiene vivo l’interesse della gente in uno stato di iper-osservazione che non fa che perpetuare se stesso. La gente guarda sempre la tv anche perché è costretta rimanere in casa, ed essendo il soggetto del dibattito monotematico, non fa che ascoltare e vivere ciò come un’oscura minaccia senza fine.

Gli stati emozionali, si sa, compromettono la percezione del rischio. Cosi la paura di una catastrofe come un attacco terroristico è avvertita in modo molto più minaccioso. Con il coronavirus invece la percezione del rischio è complessa, perché la malattia è ancora in evoluzione, liquida, inafferrabile. E questo senso di mancanza di controllo può rendere i comportamenti della gente imprevedibili e facilmente preda del panico. È come se ancora non si fosse afferrata fino in fondo la pericolosità di questo virus. L’incertezza inoltre lascia spazio a false aspettative che, come afferma l’epidemiologo Adam Kucharski su The Guardian «spesso possono portare a un comportamento che amplifica addirittura la trasmissione della malattia».

La comunicazione viene usata per confermare quello che si pensa già. La memoria gioca scherzi pericolosi, incoraggiando a credere cose che si leggono ripetutamente, si ferma al presente, va a cercare informazioni che convalidino solo quello che già si crede, porta a ricordare cose che suscitano emozioni forti più di quelle che invece non lo fanno. Come in una sorta di Alzheimer si ferma al presente; è incapace di compiere operazioni complesse che rimandano al passato e che possono fornire l’occasione di far riflettere su chi siamo davvero. Invece, come ci esorta Nicola Fano su Il Foglio nell’articolo La peste di Macondo «dovremmo annotare il senso di tutto questo che ci sta capitando per ricordarcelo dopo quando sarà finita… Quello che conta è il livello di comunicazione che si riesce a garantire in questo modo, ossia quel filo rosso che lega la memoria alle opportunità future». Perché solo così si potrà ripartire con il piede giusto, affrontando davvero quello che saremo diventati dopo questa terribile esperienza e compiendo i necessari passi per cambiare realmente l’indirizzo delle nostre vite.

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