Valentina Fortichiari
Cronache dall'Italia sospesa

Andrà tutto bene

«Ho smesso di ascoltare i numeri del contagio. Ho smesso di maledire gli irresponsabili che ovunque minacciano la salute degli “altri”. Ma chi sono gli altri?  Dove li  incontriamo?»

Immagini di Roberto Cavallini

Forse dovrei aggiungere un punto interrogativo: Andrà tutto bene?

Se ripenso a quel venerdì, un venerdì per sempre memorabile, dal momento che è stato l’ultimo giorno di salvezza, mi vengono brividi e ricordi. Ricordi che sembrano – oggi – remoti, e invece sono vicinissimi. Eravamo ignari, immersi nelle nostre esistenze non ancora travolte da uno tsunami violento. La quotidianità del prima, con le piccole cose banali che si fanno, senza pensare, senza possedere – del futuro – la benché minima idea.

Chi ci pensa al futuro? Noi, oggi. La porzione del nostro futuro, del futuro di tutti noi sulla Terra, è adesso una variabile che mette paura. Chi resisterà? Chi non sarà toccato? Quanti si ammaleranno, quanti soccomberanno?

Ho smesso di ascoltare i numeri del contagio. Ho smesso di maledire gli irresponsabili che ovunque minacciano la salute degli “altri”. Ma chi sono gli altri?  Dove li  incontriamo?

Chiusi nelle nostre case, quante sono le cose che da quel maledetto ultimo venerdì non abbiamo potuto fare? Mille e nessuna. Tanto ora mi sembra insignificante l’agenda, inutilmente fitta di impegni annullati. Non so più chi sono, che nome possiedo. Potrei essere solo un numero. Ho perso una identità definita.

Galleggiando nel silenzio della stanza dove leggo studio scrivo, la misura del tempo si dilata. Quasi non mi accorgo che le giornate si stanno allungando progressivamente, la primavera ha fatto sbocciare piante e colori. Non vedo, non odo rumori, se non il mio respiro, non ho riferimenti nella natura che richiede di stare fuori, all’aperto, con tutti i sensi, ad annusarla nell’aria, a respirarla. A sentirsene parte.

Mi manca l’acqua, mi pare di impazzire. Il mio corpo ha bisogno di stare immerso nell’acqua. Devo galleggiare, devo sentirmi perdere, devo nuotare. Ovunque io possa trovare una pozza d’acqua, devo immergermi. Questa mancanza, questo bisogno si fa impellente, disperato, ogni giorno che passa.  La mia pelle è secca come quella di un serpente.

Non posso guardare negli occhi. Posso sentire voci, al telefono, ma non posso vedere le espressioni. E mi stanca parlare con tutti di un solo argomento.  Sempre lo stesso.

I rumori attutiti della città mi fanno pensare a una sorta di apocalisse. Di tanto in tanto lo sferragliare di un tram in lontananza mi ricorda che almeno il movimento per qualcuno non si ferma. Eppure, la città – Milano –  è spettrale. Le immagini del nostro paese in televisione sono spettrali.

Ma che diamine è successo? Che sciagura ci è piovuta addosso? Nella notte vorrei uscire a gridare.

Che cosa cambierà nella nostra testa, nelle nostre idee, nei sogni, nei desideri? Nei fatti dell’umanità a venire? Perché l’umanità uscirà da questo terremoto completamente diversa. Perché già si scatenano istinti di violenza, di panico, regressioni, follie. Le conseguenze saranno brutali.

Dobbiamo tenerci a distanza di sicurezza. Non ho mai amato la pressione di un corpo estraneo che mi sta addosso e spinge per raggiungere l’uscita, su un autobus, in metropolitana, negli orari di punta. Oggi, se dovessimo spiegare a un bambino che cos’è un orario di punta, non sapremmo come esprimerci. L’umanità se ne sta isolata. Ma dove sono finiti tutti?

Due giorni fa, su un tram lungo come quei trenini delle giostre che si snodano sinuosi su rotaie, due tre persone qua e là, serie, sospettose, accigliate. Ci si guardava come se uno fra noi potesse essere l’untore. E ci chiedessimo: mi passerai accanto, toccherà a me? Ci si guardava le mani, per capire se indossavano guanti, le bocche nascoste dietro inutili mascherine.

Alla sera, puntuale come un tramonto, il suono delle tapparelle della vicina che scendono e chiudono fuori il mondo, paiono ghigliottine pronte a eliminare residui di vita dentro un appartamento da cui non proviene mai altro suono. Altro alito.

Come spiegheremo ai piccoli nati da poco in questa era di follia che cosa ci ha accomunato alle generazioni precedenti che hanno vissuto la guerra? Perché questa è una guerra, ancora più subdola, contro un nemico invisibile. Un nemico che gira tutto intorno a noi, come un fantasma, ne siamo circondati ma non lo vediamo. Come racconteremo le migliaia, le centinaia di migliaia di uomini e donne che muoiono soffocando, come se affogassero nell’acqua? L’ho provato una volta che cosa significa – sott’acqua – rimanere con l’ultima molecola di ossigeno e annaspare per tornare in superficie, in mezzo a un mare mosso che voleva tenermi sotto. Dev’essere così e non ci si può fare nulla. Qualcuno deve pure, qualcuno dovrà pure aiutarci a respirare, santo cielo! Ciò che mi fa paura è non arrivare in tempo, non essere salvata, essere scartata. Io che adoro l’acqua! Ci sarà pure un’anima  buona che mi riporterà a galla? Mi lasciate morire così?

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