Danilo Maestosi
Piccola rivoluzione nell'istituzione romana

La Macro élite

Chiusa rapidamente l'esperienza di Giorgio De Finis, il Macro si affida a un curatore trendy e in carriera: Luca Lo Pinto. Riapertura ad aprile, nel segno di una vecchia avanguardia: quella dell'immaginazione preventiva

Archiviato, con molti ipocriti complimenti ma probabilmente nessun rimpianto, l’esperimento di Giorgio De Finis, il Macro di Roma, passato sotto la direzione di Luca Lo Pinto, presenta ufficialmente quello che dovrebbe essere il proprio futuro per i prossimi tre anni.

La prima novità, di sostanza, è l’aumento del budget a disposizione: dai 400 mila euro messi a disposizione di De Finis, ai 700 mila assegnati al nuovo direttore. Un piccolo scarto di fondi, che diventa significativo perché certifica la cambiale di fiducia e di potere assegnata alla nuova guida più del bando di concorso con il quale è stato scelto. A differenza di De Finis, insediato con un incarico ad personam dell’assessore Luca Bergamo, anomalo e molto criticato dai suoi compagni di giunta grillini, che però ha reso più semplice ignorare la promessa di un rinnovo dopo l’anno di collaudo e sbarazzarsene, nonostante le cifre lusinghiere che poteva esibire a bilancio: 330 mila 777 ingressi, 5382 eventi,1010 artisti direttamente coinvolti. La seconda novità, apparentemente di facciata, fotografa in modo ancora più radicale la svolta culturale e politica in cabina di regia che a nostro avviso segna il passaggio di consegne. Il Macro perde l’appellativo di Asilo, luogo aperto al confronto non solo tra gli operatori del mondo dell’arte ma all’intera città, alle spinte di cambiamento, alle comunità e alle voci espresse dal territorio. Troppo scomodo, incontrollabile questo offrire ribalte e microfoni alle realtà più critiche ed emarginate. Il complesso di via Nizza torna ad essere un museo, anche se un museo in crisi d’identità. Ribattezzato da un nuovo logo, studiato da un esperto di comunicazione e pubblicità: l’immagine simpatica e ammiccante di un polipetto, che allarga in ogni direzione i suoi tentacoli e dovrebbe offrire un richiamo rassicurante al grosso pubblico, con cui tutti i presenti alla conferenza del varo, dall’assessore Bergamo alla soprintendente Marini Clarelli, dal presidente del Palaexpo Cesare Pietroiusti al neo direttore Luca Lo Pinto, giurano di voler stabilire un dialogo privilegiato. E da un sottotitolo criptico che sembra puntare in direzione opposta: museo per l’immaginazione preventiva. Una citazione che, ci si può scommettere, non agevolerà certo il contatto con una platea di non addetti. E può essere spiegata solo rileggendo una vecchia e complessa storia che risale a mezzo secolo fa.

È il marchio di fabbrica coniato nell’Italia postsessantottina che sognava l’abbattimento della società borghese e un nuovo regno dell’arte emancipata dalle lusinghe del mercato. Parto di tre autori provenienti dalle seconde file dell’avanguardia di allora: Franco Falasca (poeta e scrittore) Maurizio Benveduti e Tullio Catalano, entrambi pittori ed entrambi morti qualche anno fa che, per smuovere le acque e imprimere un nuovo corso al sistema dell’arte, battezzarono con quel nome, rimasto a intitolare anche un libro, una sorta di ufficio pubblico di collocamento e promozione di idee, performances e opere rivoluzionarie.

Il progetto attecchì generando altri gruppi gemelli e riscuotendo consensi e adesioni da altri artisti di movimento. Il più noto dei quali fu Fabio Mauri. Tra gli eventi cui Mauri partecipò ci fu l’affissione per le strade di Trastevere, tra gli altri, di un manifesto posticcio a doppia immagine scollegata: la prima su un tema scientifico la seconda con la foto di un cinese. Lo stesso Mauri espresse a operazione finita più di un dubbio sulla capacità comunicativa di quel messaggio. Dall’ufficio per l’immaginazione preventiva nacque una fioritura di filiali e di iniziative, sostenuta in partenza dall’interesse di gallerie prestigiose, come l’Attico e la Salita, e dal sostegno di critici innovatori e aggiornati, come Achille Bonito Oliva e Filiberto Menna. Sponde che poi, con le fughe laceranti degli anni di piombo, l’avvento del postmoderno e del riflusso, la consacrazione di Arte Povera e Transavanguardia come uniche eccellenze italiane dell’ultimo Novecento, si fecero sempre più tiepide, fino al distacco. L’ufficio dell’immaginazione preventiva chiuse i battenti nel ’79.

Altri accoliti, più decisi e politicamente motivati, come Carlo Romeo, in quegli anni attivo a New York, resistettero più a lungo, riemergendo in una Biennale del ’94: una valigetta chiusa contenente messaggi fatti circolare e raccolti nei Balcani dilaniati, esposta del padiglione spagnolo su «fideiussone» di Cesare Pietroiusti, che oggi guida il Palaexpo.

Una pagina, a torto o a ragione dimenticata, che circola come una chicca da com’eravamo nell’ambiente elitario e autoreferenziale dei curatori e dei critici d’arte. Nella sua lunghissima carrellata di incontri, l’antropologo De Finis, gli ha giustamente – la memoria è sempre più tesoro da coltivare – dedicato un siparietto, ospitando l’unico superstite di quell’esperienza, ma in un cartellone che affiancava reduci delle avanguardie e artisti di tradizione attivi in quegli stessi anni. Luca Lo Pinto, curatore in carriera (nella foto), ne ha fatto addirittura il tema fondante del nuovo progetto di museo. Dal Macro Asilo come cassa di conoscenza e risonanza dei movimenti di trasformazione della città, ad un museo che torna a battere strade per addetti ai lavori: l’unica rivoluzione che l’arte sembra permettersi in questa riconversione per cavalcare la contemporaneità è riconoscersi in una rivoluzione solo simulata, in nome dell’immaginazione preventiva e già sconfitta (ancor meglio «prevenuta»), che ridà centralità alla casta e ai riti concettuali dei sacerdoti del contemporaneo, alle postazioni spossessate dei curatori e delle riviste specializzate da cui sono partite le critiche più astiose al Macro Asilo.

Due mondi contigui ai quali rivendica appartenenza e sembra promettere complicità, con un linguaggio di tormentate e a volte oscure metafore, il curriculum di Luca Lo Pinto: un quarantenne in carriera di profilo internazionale che per quattro anni ha lavorato alla Kunsthalle di Vienna, ha firmato mostre importanti, cataloghi e monografie di grandi autori, e vanta tra i suoi titoli glamour la fondazione di una rivista specializzata «Zero», che gode nell’ambiente di solida reputazione. Il modello, al quale fa riferimento la sua ristrutturazione del Macro, è proprio quello a rubriche di una rivista. I temi impaginati con dosaggi intrecciati, gli spazi riorganizzati e titolati come in un progetto editoriale multimediale a tre dimensioni.

Nella vecchia ala, il primo piano offrirà le proprie sale alla rivisitazione di figure irregolari del passato più o meno recente made in Italy che si sono misurate in modo interdisciplinare con i linguaggi di poesia, teatro, cinema, danza, design o a monografie ispirate alle modalità dell’improvvisazione musicale di singoli autori riletti da più punti di vista. Il secondo piano sarà riservato ad esplorare territori di confine come la musica da camera, il graphic design, l’editoria come strumento che alimenta la sperimentazione artistiche. In una quarta sala, ribattezzata come palestra, gli autori scelti dal curatore saranno invitati ad esporre e testare opere o progetti ancora incompiuti o in embrione.

Nell’ala ridisegnata da Odile Decq, la grande sala a elle sarà occupata da monografie di autori di spicco del panorama italiano e internazionale e da collettive a tema. Anche qui il criterio guida è dare risalto a figure inclassificabili e trasversali che si muovono su più versanti. L’auditorium a cicli di incontri in collaborazione con istituzioni cittadine, accademie, fondazioni. Gli altri spazi a laboratori, con particolare attenzione ai bambini.

La sensazione è che quello che Lo Pinto propone sia una sorta di immersione totale nel caos di contaminazioni, sconfinamenti, narrazioni concettuali che ispira l’arte di oggi. Ma ne smussa il potere di incidenza sociale, perché la assoggetta alle regole e alle mode di un presente senza futuro, le impone di adeguarsi con qualche intemperanza a come va il mondo. Né offre conferma il trattamento che Lo Pinto riserva alla collezione del Macro, custodita nei depositi dell’interrato: 1200 opere. L’idea non è di rimetterle in vista con una mirata rotazione, ma di riesporle in fotografia – più che immaginazione preventiva, questa sembra rassegnazione. E non ne compensa l’effetto sconsolante l’intenzione espressa da Lo Pinto di aggiornare la raccolta del Macro dando risalto ad altre opere di autori giovani ancora non entrati nel circuito museale.

Il 24 aprile il Macro riaprirà con una mostra che dovrebbe, come un editoriale, dare concretezza alle intenzioni del nuovo curatore. Poi ad ottobre la riapertura a pieno regime.

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