Pier Mario Fasanotti
A proposito di "Lessico femminile"

Scriversi donna

Sandra Petrignani dedica un bel saggio alla scrittura femminile. Da Woolf a Ginzburg, da Yourcenar a Morante a tutte le altre: che cosa segna di sé, in un romanzo, l'immaginario femminile? E che cosa lo rende diverso da quello maschile?

Lo scrittore russo Vladimir Nabokov (noto soprattutto per Lolita) scrisse due volumi sulla letteratura e in essi cita soltanto una donna: Jane Austen. A una lettera di elogio e incoraggiamento, rispose così: «Non mi piace Jane e, in realtà, sono prevenuto contro tutte le scrittrici. Appartengono a un’altra categoria». Più o meno allineato con narratore di Pietroburgo è il cecoslovacco Milan Kundera (diventato famoso per L’insostenibile leggerezza dell’essere), che confessò di non essere mai sfiorato dalle donne che scrivono. Altra categoria, dunque. Ma quale categoria? Quella dell’eresia? Prese di posizioni così tranchant non possono che rimandare all’ipotesi di scarsa sensibilità artistica o di ignoranza bella e buona. La domanda che viene subito dopo è la seguente, e, aggiungo io, la più lecita: c’è una differenza tra scrittore uomo e scrittore donna? La risposta la si trova, e così ben articolata, nel saggio di Sandra Petrignani, Lessico Femminile (Laterza editori, 177 pagine, 18 euro).

L’autrice, senza dubbio tra le più raffinate nel panorama editoriale italiano, passa in rassegna, in dieci capitoli, lo sguardo che le scrittrici rivolgono a sé, agli uomini, ai figli, alla madre, al mondo. Il libro è anche occasione, per coloro che hanno ancora pregiudizi, di scoprire il valore e la bellezza espressiva di scrittrici spesso accantonate perché il loro «non è un lavoro per donne».

Da stroncare immediatamente l’accostamento tra rigido femminismo e scrittura femminile. Nina Berberova, di San Pietroburgo come Nabokov (entrambi si trasferirono negli Stati Uniti) afferma: «Amo me stessa, ma fino a un certo punto». È un’indicazione di percorso, spiega la Petrignani, tanto è vero che in un altro passo la russa diceva: «Devo conoscere me stessa e, dopo essermi conosciuta, correggermi». Frase che ricorre un po’ troppo raramente negli outing maschili. Secondo l’autrice le donne che scrivono hanno semplicemente un atteggiamento diverso di fronte a ciò che le circonda: «Non è delle donne lo sguardo globale, totalizzante. Le donne sono inclini alla concretezza». Incuriosita da questa diversità – sulla quale sono più che leciti i dubbi – Sandra Petrignani la approfondisce in una sorta di mosaico, frutto di una documentazione straordinaria.

Dicevamo dei capitoli dei quali è formato il libro. Si comincia con La casa. E giustamente, perché una scrittrice raramente non la menziona, quale suo spazio particolare e anche come culla della sua libertà. La baronessa Karen Blixen passò 18 anni in Kenia (le servì per scrivere La mia Africa), per poi tornare nella sua Danimarca, a pochi chilometri dal Castello di Amleto. «Per la donna, l’ambiente conta di più che per l’uomo, perché per lei non è un insieme casuale, esterno, ma un ampliamento del suo essere». È come se il tanto desiderato focolare domestico divenisse anche il focolare letterario. Annotava Martin Amis nella sua autobiografia: «Gli uomini sono in grado di non badare all’ambiente che li circonda, le donne no. Ogni donna è la sua casa e viceversa».

Una scrittrice napoletana che purtroppo non è così nota come meriterebbe, Fabrizia Ramondino, nel suo Star di casa, descrive amorevolmente la sua vera abitazione, che era poi della nonna (Ramondino si trasferì nei pressi di Gaeta): «…accrescevano l’impressione di vivere all’interno di una grande conchiglia le forme architettoniche: archi, volte, nicchie scavate nelle pareti, la scala a chiocciola che univa le stanze al tetto, come una spirale tra terra e cielo e che pareva il centro o anima della casa, le arcate sulla loggia, quasi il bordo ondulato di una valva». Pagine potenti sulla casa, scrive Petrignani, le si incontra leggendo Gita al faro di Virginia Woolf che, altrove insisterà sull’importanza delle cose contenute dentro («Questa casa spiega molte cose», scriverà dell’abitazione familiare, non amata). Una stanza tutta per sé non per niente è un saggio di Virginia, luogo dove l’arte femminile (sua sorella fu brava pittrice) rivendica spazio e autonomia rispetto a un certo vanitoso esclusivismo maschile. La casa è anche, spiega Petrignani, «una nave che protegge o che fa naufragio. Tradizionalmente al timone c’è un uomo con la pipa in bocca, mentre a custode e a polena quasi sempre una figura femminile». In altre opere della Woolf si rimarca «come sia invisibile il lavoro delle donne nel peso del mondo» (parole, queste, della Petrignani). Marguerite Yourcenar sosteneva: «La mia personalità è come la mia casa, apertissima». Petrignani però avverte che non c’è da fidarsi del tutto perché all’autrice delle Memoria di Adriano «piaceva dare di sé un’immagine forte e libera, non sempre aderente alla verità della sua vita interiore, indossava per gli altri non una, ma una serie di maschere»,

«La casa dentro. La casa materiale» scriveva l’altra Marguerite francese, la Duras (nella foto), la quale parlava della casa come di «un’impresa pazzesca», dove trattenere gli uomini e i figli, dove «raccogliere il loro smarrimento, distoglierli dallo spirito d’avventura, di fuga, di cui sono dotati dall’origine dei tempi». Natalia Ginzburg (si rammenti che Sandra Petrignani ha recentemente scritto una sua biografia, La corsara) avvertiva forte il bisogno di mantenere linda la casa (particolare esaltato nella raccolta di racconti Mai devi domandarmi). Natalia detestava il disordine e la sporcizia. In uno di quei racconti scrive di un’anziana signora che «era, da giovane, disordinata e pigra; invecchiando, le è venuta la mania dell’ordine, e una sorta di torvo amore per i lavori domestici…». Spiega l’autrice: «Torna l’idea che per una donna la casa è un po’ una tana, un po’ è focolare, il centro di qualcosa che costituisce una comunità, un gruppo da difendere, figli da proteggere ed educare: pulire la casa, come salvaguardia da tutto ciò che è brutto e sporco nella vita…».

Dentro una casa ci sono molte cose. E Cose è il secondo capitolo del saggio della Petrignani, dove confessa: «Sempre più spesso mi trovo a riflettere sul fatto che il pensiero delle donne è inseparabile dalla materialità delle cose, dall’urgenza della vita». Consigliava Henry James: «Osserva senza tregua». E così faceva la Ginzburg, tanto è vero che in un suo libro ricorda il passaggio per strada di un carretto con sopra uno specchio, e lo specchio rifletteva il cielo, e questo brandello di vita le diede il senso della felicità e la voglia di scrivere.

L’americana Joyce Carol Oates, in Storia di una vedova, racconta di un giorno in cui torna dall’ospedale dove è ricoverato il marito, e prima di riposare e farsi una doccia, vaga per casa e la illumina tutta, e prima di ogni altra attività personale si dice: «No, prima devo pulire». Ci sono le piccole cose cui badare. «E – aggiunge Petrignani – come definire banali e “insignificanti“ certi gesti quotidiani se hanno questa voce (si riferisce alle pagine della Oates, ndr)? Davvero niente è troppo piccolo e insignificante quando viene messo a fuoco dalla comprensione di uno scrittore». Ci sono poi i piccoli avvenimenti. Marguerite Duras vide un giorno su un muro bianco la morte di una mosca. Segue l’agonia fino alla fine: «…nel momento in cui la guardavo, a un tratto, erano circa le tre e venti del pomeriggio, il rumore delle elitre è cessato. La mosca era morta. Quella regina, nera e azzurra… poi  la morte se n’è andata verso altri cieli, altri pianeti, altri luoghi».

Poi, ovviamente, ci sono gli amori. Inventati e non. Sono focose le parole che scrive Edna O’Brien (nella foto), anche quando la sua storia sentimentale finisce: «…la lingua a cui piaceva succhiare, gli occhi mascalzoni, il sorriso, le vene sulle guance, la voce pacata…». Le risulta spaventoso «aggrapparsi al niente». Quando venne intervistata dal coetaneo cinquantenne Philip Roth sul New York Times, Edna ebbe modo di fare il punto: «Attrazione e desiderio sessuale scaturiscono non dalla consapevolezza ma da istinto e passione, e in quanto maschi e femmine sono radicalmente diversi: l’uomo detiene più potere e maggiore autonomia. È una questione biologica. Il desiderio femminile è ricevere lo sperma e trattenerlo, mentre quello maschile è darlo e, nel darlo, consuma se stesso, così di conseguenza si ritrae… il risultato è, da una parte, il risentimento della donna che si sente abbandonata, sia pure per breve tempo, dall’altra il senso di colpa di lui nell’allontanarsi, soprattutto per un suo innato bisogno di autodifendersi e ritrovarsi, un modo di riaffermare se stesso». Secondo la scrittrice «l’intimità è dunque solo relativa», e più avanti confessa di essere sempre «soggetta alla sindrome di Heahtcliff e di Rocester (personaggi di Cime tempestose di Emily Brontë e di Jane Eyre di Charlotte Brontë , ndr): l’eccitazione sessuale è in me legata, in gran parte, a dolore e separazione».

Sandra Petrignani, a proposito di Cime tempestose, ricorda che la protagonista Catherine confida alla sua governante due tipi di amore: per il marito Edgard, indubbiamente opaco, e per il selvaggio Heathcliff, totalizzante. L’autrice di Lessico femminile annota acutamente che i sentimenti descritti sono su due piani di realtà differente. Da una parte l’uomo protettivo e rassicurante, dall’altra quello che fa scoppiare «una grande passione fantasmatica che incarna la perfetta sintonia con il proprio spirito, ma impossibile a viversi se non nell’esaltazione dell’attimo, di natura distruttiva perché eccessiva, abnorme». Heathcliff è insomma il maschio assoluto. Possibile compagno di vita ma solo dopo la morte.

Le donne hanno frequenti turbamenti. La Ginzburg parla di «pozzo oscuro in cui cadono». E questo precipitare, spiega la Petrignani, «è dovuto a motivi sentimentali, per insicurezza, perché non si piacciono, perché pensano di non piacere agli altri, perché si sentono brutte, perché non riescono a dimenticarsi di se stesse». Non ce la fanno a identificarsi col proprio lavoro, suggerisce Natalia, «mentre gli uomini lo fanno benissimo. Il motivo è atavico». Ne può nascere un’altalenante ossessione molto ben narrata da Annie Ernaux (francese, Premio Strega Europeo) in Passione semplice: «…appena udivo la voce di A., la mia attesa infinita, dolorosa, gelosa evidentemente, si vanificava alla svelta…. e avevo l’impressione di essere stata pazza e di ritornare subito al normale. Ero colpita dall’insignificanza, in fondo, di quella voce e dall’importanza smisurata ch’essa aveva nella mia vita». Fantasia e passione: ricordate Rossella  O’Hara di Via col Vento? Quando muoiono l’uomo desiderato e la donna che questi alla fine ha scelto, lei confessa: «Non è mai esistito, se non nella mia fantasia… ho fatto un bel fantoccio e me ne sono innamorata…».

Interessante notare che anche la spiritualissima Simone Weil (nella foto), «intransigente e lapidaria» secondo la Petrignani, afferma: «Amiamo qualcuno, cioè amiamo bere il suo sangue». Siamo dinanzi a un «totalitarismo amoroso». E che cosa è lei per lui? Prendiamo la Lolita di Nabokov, di cui s’innamora perdutamente il professor Humbert Humbert (37 anni). Questi confessa a proposito della sua ninfetta: «La mia vita fu maneggiata dalla piccola Lo in modo energico e sbrigativo, come se fosse un aggeggio privo di sensibilità del tutto separato da me… non era preparata a certe discrepanze fra la vita di una ragazzina e la mia… io ostentai un supremo candore e lasciai fare…».

Un’altra fonte di complicanza è il rapporto tra madre e figli. Tenerissimo è il tono cui Marguerite Duras pensa al figlio che ha in grembo: «Era comunque separato da me. Io mi prestavo a lui perché lui si facesse. La sua carne era immersa nella mia, i suoi scatti, la sua freschezza, la sua collera di animale sottomarino che si dibatte per arrivare alla superficie, all’indipendenza. La sua indipendenza era nel mio profondo, talmente imperiosa e nuda che io stavo come dilaniata dalla verità. Ecco il sentimento della virilità nella maternità». Scrive la Petrignani che di madri dolorose, madri adoranti, madri indegne si parla nelle pagine di Elsa Morante (in competizione con sua madre). Senza dubbio il personaggio-madre più conturbante è nella sua Storia, poderoso romanzo – lontano, aggiungo io, dalle frequenti e semplificanti geometrie di Moravia, suo marito – che ritrae la disgraziata povertà e la solitudine disperata della protagonista Iduzza la cui ragione di vita è il figlio Useppe, in una Roma slabbrata dalla guerra. Tra i due c’è un rapporto simbiotico, un’abnegazione dolorosamente totale.

Infine la vecchiaia, il tempo che castiga le donne. «Detesto l’asprezza della vecchiaia» diceva Virginia Woolf: «la sento stridula, acida». Pochi giorni prima del suicidio guardava dalla finestra le donne sedute sulle panchine e, ricordando il monito di Henry James, si ostinava a osservare «l’avvicinarsi della vecchiaia… la voracità… il tuo stesso avvilimento, così facendo diventa utile. O così spero…». Un’operazione dolorosa dalla quale voleva trarre il miglior vantaggio: «Voglio affondare con la bandiera spiegata». E affondò davvero in un fiume.

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