Paolo Petroni
Il giorno della memoria/2

Burocrazia dell’orrore

Stefano Massini ricostruisce il dialogo tra il boia nazista Adolf Eichmann e la filosofa Hannah Arendt che portò alla genesi de "La banalità del male". Una scena teatrale sulla terribile idiozia della sopraffazione

«Il linguaggio, Herr Eichmann, il linguaggio è lo specchio, sempre, di cosa sentiamo davvero», precisa la filosofa e storica ebrea tedesca Hannah Arendt in un colloquio, immaginato da Stefano Massini, col gerarca delle SS responsabile della organizzazione e pianificazione dello sterminio di milioni di ebrei. Le parole rivelano la realtà dei fatti e se si evita di chiamare le cose col loro nome, ma si parla di “evacuazione” e di “soluzione finale”, evidentemente si ha paura di quel che queste cose realmente significano, senza contare che «il male si nasconde dietro il fumo…. Per guardarlo in faccia basterebbe ascoltare, attentamente, come parla. Solo allora vedresti che è una cosa stupida, sì, stupida, lo penso: non ha la forza nemmeno di chiamare le cose per nome».

Questo teatralissimo, dialogo freddo e intenso assieme, si intitola Eichmann – Dove inizia la notte (fandango Editore, pp. 114, 12 Euro) e mette appunto di fronte la Arendt e Adolf Eichmann, durante il processo a quest’ultimo, al quale la filosofa volle assistere, dopo che questi fu rapito in Argentina, dove viveva sotto mentite spoglie, e portato in Israele. Dialogo che si conclude metaforicamente col ricordo della filosofa bambina che chiede dove inizi la notte, e suo padre che le risponde «Quando fa buio il cielo cambia colore tutto quanto, i tuoi occhi non possono fermarlo. Non potranno mai».

La Arendt scrisse allora un celebre saggio su quell’esperienza, intitolandolo La banalità del male, perché vide in Eichmann il burocrate puro che fa meglio che può per guadagnarsi meriti e essere lodato e promosso, non un perverso sadico, ma un ottimo capo organizzatore che aveva un certo distacco da quel che faceva, forse non rendendosi mai conto fino in fondo del male assoluto che aveva permesso si realizzasse. Questo colloquio ora, che vive della perizia, il ritmo, la forza della scrittura di Massini, si ispira proprio ai documenti del processo e agli scritti della Arendt.

Come al processo anche in questo dialogo Eichmann racconta con distacco i momenti salienti della persecuzione, dei rastrellamenti, dei trasporti, dei lager e dello sterminio degli ebrei, riferendo freddamente cose terribili, come la scelta tra l’uso “meno spietato” del gas e le truci, truculente fucilazioni di massa. Il gerarca racconta la propria storia, in cui lei cerca di capire quale è il momento in cui inizia la notte, in cui nasce e prende corpo il male. Lui racconta quanto anzi fece, specie sino a un certo punto, per evitare il peggio, per evitare le uccisioni di massa, per mandare molti nelle fabbriche invece che nei campi, e così via, e come lui non avesse direttamente mai ucciso qualcuno (anzi aveva orrore per la morte, anche degli animali) e come lavorasse in una gigantesca macchina ineluttabilmente ormai messa in moto, dove, se si fosse fermato, qualcun’altro avrebbe subito preso il suo posto. Riferisce, per esempio, della volta che dirottò un treno diretto a Auschwitz su Lodz, dove esisteva un ghetto e non c’era sterminio, e fu aspramente rimproverato e costretto a scusarsi con Himmler, dopo di che non prese più iniziative e si limitò sempre solo a eseguire gli ordini: «L’unico onore è non tradire mai» e «fare quello che va fatto».

Così l’SS accusa la Arendt di avere visto tutto e giudicato da lontano, camminando per i prati di un college di Boston, mentre essere là, nei campi era tutto diverso: «Lei non può pensare che vivere e morire siano la stessa cosa per chi cammina sull’orlo di un baratro… mentre tutti muoiono si è disposti a far tutto pur di vivere». Le parla dell’indifferenza di Dio o della Natura, come la si voglia chiamare, della natura dell’uomo, delle circostanze. «Siccome non mi avete chiuso in un treno e non ho rischiato di morire col gas – replica lei – allora non ho neanche diritto di capire? Io lo devo a quella gente…. devo capire per loro, perché almeno abbia un senso». E non c’è un vero senso in tutto quello che ha riguardato, giorno dopo girono, l’olocausto, tranne il fatto che a compierlo erano uomini normali che svolgevano il proprio lavoro e eseguivano degli ordini superiori, uomini come ognuno di noi. Ed è solo questo, alla fine di un tale intenso dialogo, il senso su cui ognuno deve riflettere, per evitare che il male possa prendere forma per colpa delle circostanze e della miseria umana.

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