Alessandro Macchi
Viaggio in tre epoche

Le pietre di Gerusalemme

Riandando indietro nella memoria di vecchi viaggi a Gerusalemme si percepisce come il senso della storia vada perdendosi nel tempo. Non solo nella società, ma anche nei luoghi, nei paesaggi e nelle pietre

Antiche città capovolte. Gerusalemme, sul finire degli anni ‘90 nel mio secondo incontro con la Città, mi apparve una realtà totalmente nuova, un insediamento grande a confronto di quella città storica raccolta in basso nella valle, nelle sue mura, che avevo visitato nel 1965. È un fatto che le città cambiano talmente da essere irriconoscibili: l’antico senso della storia si perde, si diluisce perché svilito dalla nuova vista e i luoghi sono diversi e le parti antiche si rivelano in volumi che paiono essersi ristretti e rimpiccioliti, mortificati come sono i loro significati emozionali. E, come a Gerusalemme, il mutato senso vale per la Città Proibita a Pechino o per l’ex deserto vicino alle Piramidi d’Egitto….

Al mio rientro dall’Etiopia nel 1965 dal cantiere dell’Highway Lekempti Ghimbi, nel tentativo di tregua della mente dopo un’esperienza drammatica, avevo aggiunto al mio giro in Africa una sosta a Gerusalemme. Avevo preso alloggio in un piccolo albergo su un colle nella brezza profumata da cui si ammirava con volo aereo degli occhi tutta la città storica, laggiù, con in vista le emergenze leggendarie di cupole e porte, e tutt’attorno, sui colli, i sassi del cimitero ebraico, e poi il verde e nient’altro.

La città che trovai alle soglie del 2000 nel mio nuovo viaggio non era più la stessa, era una nuova realtà: tutti i rilievi al contorno erano stati ingoiati, dove c’era il mio alberghetto c’erano schiere di palazzi e, di fronte, un suburbio arabo: la città millenaria sembrava ora una citazione a scala ridotta di quella che avevo negli occhi, solo pronta per un film storico, anzi quasi un set preparato ad hoc.

Nel 1965 a Gerusalemme, allora in territorio giordano, ero entrato nella Chiesa o Basilica del Santo Sepolcro voluta nel IV secolo dall’imperatore Costantino e mi ero trovato in un labirinto di puntelli di legname. Mi ero guardato attorno pieno di stupore: tra i puntelli avevo scorto una sorta di matroneo ad archi che girava tutto attorno; ne fluivano canti di preghiera e note melodiche e tendendo l’orecchio distinguevo suoni diversi e misteriosi. Avevo visto un frate cappuccino che stava uscendo e gli avevo chiesto di darmi qualche spiegazione e lui aveva acconsentito con garbo. Era un giovane religioso toscano dalla faccia serena, illuminata: mi disse che quei fitti puntelli erano stati messi in opera per emergenza e che questo era stato l’unico accordo possibile tra le varie comunità religiose cristiane che occupavano il tempio vantandone ognuna la proprietà: chi avesse iniziato a fare dei lavori avrebbe acquisito un diritto reale su di esso. Poi, di sua iniziativa, forse aveva letto nei miei occhi, mi aveva parlato dei canti che fluivano discreti ma disarmonici: l’organo del religioso latino, i cimbali dei preti abissini, la voce del monaco greco, la preghiera dell’armeno, il canto nenia del sacerdote copto si sovrapponevano senza trovare un accordo.

Avevo chiesto al fraticello se mi poteva accompagnare come pellegrino di fede nei luoghi santi e lui aveva acconsentito per unirsi in preghiera, ma prima entrambi sostammo devoti in quel tempio antico illuminato da una miriade di lampade in una semioscurità mistica e misteriosa e mi ero avvicinato al piccolo tempio con la pietra del Golgota dove era stata innalzata la Croce: fluiva l’odore dell’incenso e mi sentivo commosso e un po’ turbato in quel luogo dei sommi misteri mentre il fraticello recitava con San Paolo: “Ubi es Mors victoria tua?”. Pensieroso, un po’ confuso, ero uscito e ci eravamo avviati per la via Dolorosa, quella percorsa da Gesù andando da Pilato al Calvario, e il fraticello mi aveva indicato i luoghi della tradizione… la casa di Pilato, le soste della salita al Calvario e, a un certo momento, …mi era parso di vedere Cristo con la croce sulla spalla …e il fraticello dal volto sereno, devoto, citava alcuni passi del vangelo. Eravamo arrivati infine all’orto di Getsemani e mi commossi alla vista degli ulivi millenari ma mi disturbò la chiesa costruita ahimè dai preti italiani all’inizio del ’900 in stile neogotico-bizantino così come quasi tutte le chiese laggiù.

Ci eravamo lasciati tra quegli ulivi dalla storia tuttora vitale dopo duemila anni, mistero della fede.

Avevo ripreso la strada portandomi all’animato bazar coperto da volte con in chiave degli oculi aperti per aria e luce. Dal bazar che sorgeva a lato della spianata del Tempio con la favolosa moschea di Omar dalla fascinosa cupola d’oro sfondata da un lato da un colpo di cannone, ero salito, da una scala un po’ appartata, sulla copertura delle volte che nel secondo viaggio troverò tutta ben cementata e deserta.

L’aspetto di quel luogo, quello del 1965, lo sento, anzi lo rivivo con forte nostalgia: allora era una distesa di volte e piccole cupole grezze con ciuffi d’erba dove pecore e capre pascolavano tranquillamente in un’aria aromatica e, affacciandomi dagli oculi, vedevo d’improvviso l’animata vita e i rumori del grande bazar: avevo rivissuto i tempi degli antichi patriarchi, e così valeva per il gran tempio del Santo Sepolcro. Alle soglie del 2000 quel luogo sacro mi apparve doverosamente restaurato nella statica sotto l’egida-patrimonio dell’UNESCO: era lindo e pulito, aperto, con più luci strategiche e musica diffusa registrata, ma affannato di folle di visitatori e telefonini protesi in alto con colpi di flash …forse ripetere le esperienze è solo fonte di qualche rimpianto.

Dalle fotografie in bianco e nero 6 x 9 respiro l’aria della vecchia città ora capovolta: è un sogno ricorrente che fluisce in onde come quelle che ispirano il mare e il deserto ma, ahimè, solo più suscitate da antica carta.

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Le lancette dei tempi geologici e delle meditazioni. Buona sorte vuole che la natura nel suo fascino geologico resista nel tempo, cristallizzato alla nostra vista perché le sue lancette, quelle dell’evolversi della crosta terrestre, si muovono impercettibili agli umani… ma, forse, questo vale solo per le zone desertiche che già hanno subito una evoluzione che le ha rese immutabili al nostro occhio limitato nel tempo.

Andando al Mar Morto, giù a 423 metri sotto il livello del mare, e poi verso Beer Sheba, la capitale del deserto del Negev, il paesaggio mi apparve in quel secondo viaggio identico nella sua forza di oceano che si è ritirato, di fiumi che forse in altre ere geologiche erano grandi e che ora sono spariti.

Quelle atmosfere ostiche di natura ampia, smisurata di roccia e pietre, non erano di certo molto diverse all’epoca dei Romani e, ancora prima dei Nabatei, quando popoli, carovane di genti e legionari di Roma si affacciarono a queste terre deserte e guardarono dall’alto dei torrioni di roccia: sono i luoghi ora chiamati, Mitze Ramon, punto di osservazione degli antichi Romani.

Mi sarebbe piaciuto salire lassù ma, ispirato da un cielo notturno che avvicinava stelle e costellazioni, mi limitai a cogliere sulle rive del mare-lago salato un rametto di Atriplex con le radici in un grumo di terra dai molti tempi: l’avevo ricavato scavando con un coltello alla radice di un cespuglio di quella angiosperma halimus dalle foglie di un color verde chiaro un po’ coriacee che sono confidenti con l’acqua salata. Avevo poi ben chiuso quella citazione vegetale insieme a un po’ della sua terra in un sacchetto di plastica; curata e inumidita all’albergo di Haifa, arriverà nel mio giardino a Punta Licosa in riva al mare ed ora la pianta prospera ed è quella stessa di epoche antiche e non un ibrido come le nostrane.

Confidenza con la natura, imbevuta con la storia di mediazioni divine si vive sul lago di Tiberiade che è, anche lui, sotto il livello del mare ubicato com’è nella Grande fossa tettonica, quella della depressione che si è creata dal distacco delle placche della crosta terrestre araba ed africana e in cui scorre il fiume Giordano. Non per niente qui si trova il Monte delle Beatitudini quello della predicazione di Cristo, e i colli di Galilea del “discorso della montagna”, dei miracoli. Su quei colli evangelici, vicino alla tomba di Pietro, deturpata da una specie di monumento in c.a., comprai in un chiosco libreria, su un poggio ispiratore di riflessioni con piante della bellissima rosa di Sharon, un libretto aulico con illustrate le piante della Bibbia, dove, a lato, sono citati i versetti che le riguardano. Ho caro quel libretto e ogni tanto lo sfoglio: “E il Signore disse: è una terra di grano, di orzo, di viti, di fichi e melanzane, e di miele” (Genesi 1.11) e poi ecco i fiori e le grandi piante tutti con relativo versetto e stupende illustrazioni (Beautiful plants of the Bible – from the Hyssop to the Mighty Cedar Trees, produced by Palphot, Israel).

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Millenni di storia. Non parlo di altri luoghi di Palestina ed oltre, simboli carismatici delle principali religioni monoteiste, di grotte scure con testimonianze di fortezze, chiese bizantine, città nabatee, palazzi omayyadi, castelli crociati e moschee arabe, teatri romani, né cito città crocevia di genti come Palmira, luogo di meraviglia, né di Petra del 1965, né di Amman né di Damasco, né di Cesarea del 2000 con l’acquedotto romano e la spiaggia metà sabbia metà grumi neri di petrolio, ma dico come da quelle terre salga con intensità dalle stesse pietre, un senso penetrante di attonito, conturbato e ammirato sgomento e turbamento stupefatto per il senso della storia di uomini d’arme, di commerci e di una fede che trasuda prepotente in ogni luogo: un sunto di significati vivi nella nostra realtà quotidiana che si esaltano contradditori, di interrogativi drammatici che nascono ripensando ai fatti emblematici, terribili, dei mortiferi attentati di Parigi del novembre 2015 e molti altri legati di certo a quegli stessi luoghi della Palestina in continuo travaglio: ci hanno mostrato e ci mostrano il volto di Medusa…. ed è duro osservare a lungo quel volto….

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