Pier Mario Fasanotti
A proposito de "La strega e il capitano"

Le donne di Sciascia

Adelphi ripubblica la lunga indagine storica in forma di racconto con la quale Leonardo Sciascia ricostruì il caso di una donna torturata e bruciata nel 1617. Una ragazza che cercava amore e trovò l'umiliazione e la morte

Qui si parla di una giovane strega messa al rogo a Milano nel marzo del 1617. La storia è affascinante, sia per il contenuto sia per lo stile. Del resto, è inevitabile che sia così quando l’autore si chiama Leonardo Sciascia. Del quale la Adelphi ripubblica, meritoriamente, La strega e il capitano (76 pagine, 9 Euro). Il testo del grande siciliano, del quale si rimpiange l’illuministica sagacia, apparve a puntate sul Corriere della Sera tra il dicembre 1985 e il gennaio 1986. Vale davvero la pena rioccuparsene. Sciascia prende in mano le carte processuali del caso ricordando ciò che il Manzoni scrisse di tale Ludovico Settala che «cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone (il conte e senatore Luigi Melzi, ndr) pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei».

Là dove la medicina non arrivava – erano tempi bui a Milano e provincia, sotto il dominio spagnolo – si cercava, con metodi barbari il responsabile, ossia Satana. Sull’ipotesi di disturbi mentali, nessun cenno ovviamente. E la ragazza di questo affaire, Caterina Medici, sarebbe stata strumento del diavolo. Dotata di eccezionale sensualità (dormiva nuda e con la porta aperta), “negoziava carnalmente” con le sue presunte vittime. Si scoprì che era stata iniziata da una certa Margherita a “malefiziare” e che aveva frequentato assiduamente il “barilotto”. Soffermiamoci su quest’ultima parola. Sciascia la spiega così: «Era la periodica riunione di streghe, stregoni e diavoli: baccanale, orgia, tregenda fatta di blasfemi insulti alla Croce, di smisurate mangiate e bevute, di mostruosi accoppiamenti. E presiedeva, in trono e regalmente vestito, Satana: adorato come un Dio». Si può dire che il “barilotto” non era precipua caratteristica lombarda, tanto è vero che i testi più autorevoli spiegavano che le riunioni di questo tipo si svolgevano sotto un noce. Guarda caso, tra i noci maledetti il più famoso era quello di Benevento, zona, anche questa, di processi sommari e subdoli oltreché di roghi di femmine che non rientravano nel canone cattolico in quanto, spesso, solo dispensatrici di erbe medicinali. Barilotto o barilozzo, secondo il dizionario del Battaglia – ci ricorda Sciascia – è letteralmente il «cerchietto di piccolo diametro: per il tiro con armi portatili. Ma, possiamo aggiungere, barilotto è anche, per estensione, la baracca in cui, nelle fiere, si fa il gioco del tiro al bersaglio». Dalla parola un modo di dire: “il tale va al barilotto”, ossia va a perdizione in quanto di natura debosciata.

La nostra Caterina si tuffava nel parossismo a denunciarsi, « a sprofondarsi per il diletto dei giudici in ogni abiezione, forse perché baluginava la speranza del perdono». E fece dei nomi, la sventurata, nel tentativo di spiegare che non tutte le sue azioni erano “ad mortem”, ma anche “ad amorem”. «Ma nel caso di Caterina» spiega lo scrittore siciliano «era un conto sbagliato». E ciò valeva, ricordiamoci dei Promessi sposi e della sua, purtroppo poco letta, La colonna infame, anche per i famosi untori.

Caterina fu torturata a lungo, malgrado la sua autodenuncia e il suo pentimento. Strumento per eccellenza: la corda (ma si fa cenno anche alla “tavola”: ogni immaginazione è lecita, a questo punto). Il processo fu intentato dalla Curia, intendendo questa come Curia senatoriale, non quella ecclesiale. Osserva Sciascia: «Il supplizio cui Caterina era destinata obbediva alla ragion di governo, faceva parte del malgoverno nel dar l’apparenza che il governo fosse invece buono, vigile, provvido». L’intenzione era quella di informare il popolo di come le pratiche stregonesche venivano scovate e punite: «L’immagine della giustizia terrificante». Caterina fu messa su un carro e fatta sfilare tra le strade della città. A tratti il suo corpo veniva martoriato da tenaglie infuocate. Prima del rogo fu strangolata.

La vittima principale è Luigi Melzi, giureconsulto, già stato tra i sette vicari dello Stato di Milano, dal 1600 consultore della Santa Inquisizione. Nel ’16, a sessantadue anni, comincia ad essere afflitto da un forte mal di stomaco che non gli dà tregua. I medici non riescono a giungere a una qualsivoglia diagnosi scientifica e non hanno rimedi a loro disposizione. Argutamente Sciascia scrive che oggi i medici che non sanno risolvere un caso, mandano il paziente dallo psicoanalista. Freud ha creato un gran vantaggio per chi soffre di disturbi mentali. Allora o si era sani (e conformisti) oppure pazzi o “malefiziati” dai servitori di Belzebù. Melzi si rivolge al Capitano di Giustizia. Il Manzoni riassume l’ignoranza che non risparmiava anche le upper class di allora: «…un fosco grappolo di atroce sofferenza, di feroce stupidità, però mediante l’aggiunto divino… perché si è scoperto essere male causato da fassinazioni et arte del Demonio fattogli da una serva di casa chiamata Caterina, la quale si è scoperto essere strega e da quattordici anni è in commercio carnale con il Diavolo, ed è strega professa».

Ecco “il delitto”. Sciascia riconosce che c’è una banalità del male… inquantoché il Melzi proclama aiuto divino «ed è invece semplicemente l’aiuto di un cretino che non riconosce in sé il divino. Il divino dell’amore. Il divino della passione amorosa». Il Capitano Vacallo, ospite in casa Melzi, nota Caterina vagare per casa di notte e arriva subito alla conclusione che lo strazio del Melzi dipende dalla presenza di quella servetta. In parole più povere ma efficaci, il senatore andava a letto con Caterina. Nelle indagini pre-inquisitorie si sa dove andare a frugare. Nello specifico nei cuscini che, secondo il Vacallo, contenevano tre cuori fatti con nodi di filo di refe, «e nodi, di artificio diabolico, che involgevano capelli di donna, legnetti, carboni e altre minute cose».

Nella Lombardia sotto il tallone dello spagnolo Pietro di Toledo, si procedeva in questa maniera. Nelle carte processuali Sciascia si trova dinanzi all’equivoco in cui era caduto Pietro Verri «e tutti che dopo si sono occupati del caso, Manzoni incluso. Ossia c’erano due donne col nome di Caterina. Una giovanissima e, presumibilmente bella, e un’altra, quarantenne, descritta come “il ritratto della bruttezza”». A confondere le acque, per nulla limpide di questo caso, correva voce che la giovane Caterina, detta anche Caterinetta per distinguerla dall’altra, «fosse moglie di Vacallo perché dormiva con lui… si seppe che era la sua femmina. Scrive il Manzoni che il Vacallo era fortemente innamorato di Caterinetta». La quale ambiva al matrimonio, se non altro come atto riparatore dal momento che gli aveva dato una figlia. Una posizione scomoda per il Capitano perché, dice Sciascia, «al sentimento e alle regole dell’amore, in quel secolo di estensione e complessità sterminate, la proposta di un consimile matrimonio si poteva considerare un grave attentato».

Caterina, fonte di “magaria“, fu fatta uscire da casa Melzi e messa in un rifugio. Quale rifugio? Non era certo quel convalescenziario per streghe e stregoni che il cardinale Federico Borromeo aveva istituito nel 1597, ma alla cui realizzazione la curia rinuncerà nel 1620. In quell’operazione era coinvolto il Banco di Sant’Ambrogio. Sciascia si chiede, ironicamente: «Possiamo dire Banco Ambrosiano?». Caterina viene rinchiusa in una di quelle case dove trovavano letto e minestra le vecchie prostitute e le pentite. Precisa lo scrittore di Racalmuto: «…erano le repentite, come si diceva a Palermo, che non vuol dire di quelle che si ripentivano – in questo paese di pentiti e ripentiti ce ne sono stati sempre in abbondanza – ma di ree pentite, quelle per qualche reità già condannate e, scontata la prigione, libere di morire di fame o di accettare quel rifugio».

La malapianta della stregoneria era nel mirino di Don Pietro di Toledo e del Senato milanese. Un morbo socialmente molto diffuso a quei tempi. Sciascia: «Erano pratiche, quelle (della stregoneria, ndr) che erano esercitate a beneficio di una clientela pagante; mogli che non sopportavano i loro mariti, familiari in prescia di avere eredità da parenti che avevano beni al sole o nascondendo il loro gruzzolo, donne che, come Caterinetta, aspiravano a nozze altolocate, spasimanti che volevano arrendere fanciulle alle loro voglie». Spesso, molto spesso, avevano come ingredienti sostanze stupefacenti e veleni. L’arsenico poteva risolvere situazioni di difficile soluzione legale. E oggi, s’interroga Sciascia? Facendo riferimento a rapporti convincenti, ricorda che nel 1985 (Il Corriere della Sera dedicò un intero paginone agli stregoni nel giugno di quell’anno) ci ricorda che erano almeno ventimila i professionisti dell’occulto. Oggi, aggiungiamo noi, ci sono gli psicanalisti e gli psichiatri. Per fortuna. Inoltre certe formule o pratiche assimilabili a quelle usate dalle Caterine di quattro secoli fa sono oggi fantasie e suggestioni. A caro prezzo, ma difficilmente o per nulla letali.

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